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John B. PRIESTLEY - I cari inganni

Corriere Lombardo, 19 settembre 1956

Ahimè, rieccoci qui. Cosa bella e mortal passa e non dura. Tutto finisce a questo mondo, anche le vacanze. Buongiorno. Maligni, a noi. Quest’anno, riapriamo la stagione nel non inedito nome di Priestley. La signora Torrieri – bentornata, Diana – ci ha presentato al Manzoni – ma non l’avevamo già vista, anni fa col povero Stival? – I cari inganni: Eden End, nell’originale inglese. Questa volta, il mutevole Priestley ha messo in castigo le inquietanti metafisiche del tempo e le magiche circolarità dello spazio, che costituiscono la sua specialità; ha escluso le arcane presenze, ha fatto star zitti i turbamenti delle coscienze trasmigranti e le angosce delle responsabilità compartecipi, per accendere una candelina celebrativa davanti all’altarino malinconico e crepuscolare eretto in un tiepido angolino del proprio cuore.

Facciamoci coraggio e rimastichiamo insieme, una volta di più, la cenere dell’esistenza, raccolta fra le macerie dell’anima. Le vecchie conoscenze si rivedono sempre volentieri, almeno così dicono. Uno spiraglio nelle nostre anime, e salutiamo i soliti sogni dalle ali spennate, le anelate quanto deludenti evasioni; le rassegnazioni squallide, le menzogne pietose onde si medicano gli inevitabili fallimenti; la commemorazione, insomma, di ciò che si sarebbe desiderato essere e non si fu, o non si seppe, o non si potè essere. Capita a tutti. Chi non ha letto Cechov scagli la prima pietra. Nemmemo Priestley ha il diritto di scagliarla. Come dire? Cechov è diventato una dimensione dello spirito. Coraggio.

Tanto per cambiare rieccoci al ritorno di un ennesimo figliol prodigo, anzi, più precisamente di una figliola prodiga, nella casa paterna. Epoca 1912, località vecchia provincia inglese. Il dottor Kirby, mite galantuomo e onesto medico condotto, ebbe, anche lui, nella giovinezza, le sue legittime ambizioni, presto decapitate dalla vita: diventare un celebre professionista a  Londra, dare alle stampe importanti memorie scientifiche, frequentare  “ le maggiori personalità del proprio tempo” e così via. Di fronte alle prime difficoltà, la naturale timidità del cuore e la congenita riservatezza del carattere lo indussero a ripiegare su un’esistenza ombratile, grigia e banale, consolata però dalla coscienza di esercitare una missione umanitaria verso i suoi simili. Chi cuol soffermarsi a far bella figura citando Zio Vania si affretti che poi andiamo avanti. 

Egli, Kirby, non Vania, ha tre figli e il mal di cuore. Aveva anche una moglie ma è morta. Dei tre rampolli, Stella, la maggiore, credendo di obbedire a una sicura vocazione, mentre in realtà non si è lasciata trascinare che da una generica insoddisfazione, or sono otto anni è fuggita di casa per andarsi a conquistare la gloria sul palcoscenico come attrice e non ha mai dato, o quasi, notizie di sé. Wilfredo, il più giovane, meno crudamente e meno drammaticamente, ha creduto di appagare le volubili aspirazioni di una sognante adolescenza impiegandosi in una società commerciale che gli consente di andare e venire dall’Africa occidentale all’Inghilterra meridionale. Mi sa che il giovinotto abbia fatto una pericolosa confusione fra libertà interiore e chilometri percorsi. A custodire e governare la casa è rimasta la seconda nata, Liliana, mal rassegnata a una vita spenta e monotona, e chiudendo nell’animo una sorda irritazione. C’è anche una vecchia serva scontrosamente affezionata che le dà una mano. Ma non le basta.

Ed ecco, imprevista come il dito di Dio, ricomparire Stella: la sua non è stata una vita né fortunata né tragica: è stata molto peggio: una vita qualunque, come tante altre. Non ha trovato la celebrità perché era un’attrice mediocre; ha sposato un compagno d’arte senza ingegno e senza volontà, dal quale si è separata dopo un anno di matrimonio. E un giorno è stata presa dallo struggente bisogno di farla finita, di tornare a casa dove, forse, era se non la felicità la serenità, se non l’avventura che lascia in bocca un sapore amaro, almeno la semplice vita d’ogni giorno che non ci infligge ferite sanguinose. E’ indiscreto, ma non proibito, mandare un pensiero al Gabbiano. Ma la realtà è quella che è. Stella scopre che sua madre è morta di crepacuore per la sua fuga; che suo padre il quale – ingenuo! – la ritiene un’artista acclamata – ma dove vive il dottor Kirby? – una sovrana fulgente della scena, è un povero vecchio stracco di dentro e di fuori, logoro, malato e anch’egli deluso. Bisogna illuderlo, lasciargli credere di aver avuto ragione a prendere di petto la vita, consolarlo anziché esserne consolata.  Altra pioggia sui sogni, altra nebbia sugli ideali infranti. La sorella che ha intuito il fallimento e potrebbe capire, è estranea, ostile, risentita per quel coraggio di tentare il destino che essa sa di non avere e respinge, avversa la delusa alla quale, inoltre, fa colpa di alienarle, ora, anche l’uomo – altro abulico residente  locale – che essa ama silenziosamente e tenacemente come solo le zitelle di provincia sanno fare, e inglesi per giunta.

Viene anche, chiamato dalla gelosia di Liliana, il marito attore e il convegno dei malcontenti è completo. Alla fine non resta altro che ripartire, riprendere, cadute anche le ultime illusioni, le strade dei piccoli palcoscenici di provincia sui treni accelerati delle linee secondarie al fianco del deserto consorte. Ma lasciando credere al babbo di correre incontro ai perentori appuntamenti della celebrità. Ingannare dopo essersi ingannati. Per pietà, per amore e per poter trascinare il peso della vita. Ah, questa vita! Volete inviare un salutino in fretta al Giardino dei ciliegi? E’ un atto di appropriazione indebita, ma possiamo chiudere un occhio. Mentre voi pensavate a Cechov io – guardate un po’ – pensavo a Sudermann e alla sua Casa paterna. Una sorta, se si vuole, di Casa paterna con le situazioni analoghe e coi sentimenti rovesciati.

I meriti del copione sono prevalentemente meriti di pregevole artigianato: abilità costruttiva, persuasiva individuazione dei personaggi, discrezione nei conflitti, chiarezza di racconto, adeguatezza di linguaggio esplicito ed allusivo nello stesso tempo, e generatore della inevitabile mesta atmosfera. Lo spettacolo, vivamente applaudito, è pulito, accurato, preciso. Diana Torrieri ha dato al suo personaggio una pena volubile ed emotiva, difesa dalla disperazione con un’animazione artificiosa atta a confessare, celandola, la interna devastazione. Mario Ferrari ha espresso la propria malinconia interiore con cruda semplicità; Gastone Moschin originalmente e comicamente istrionesco; Warner Bentivegna ricco di temperamento benché esplosivo; esatto il Micantoni, e corretta la Gemmò. Ma soprattutto notevole Annamaria Alegiani la quale ha recitato col suo modo schietto, limpido e leale, che, prima di rispondere a un calcolo d’arte, obbedisce a un impegno di coscienza.

Carlo Terron

Ultima modifica il Mercoledì, 10 Dicembre 2014 00:47
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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