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EURIPIDE - Medea

Corriere Lombardo, 7 marzo 1953                                 

Dopotutto, fatte le debite proporzioni, non mi dispiace per niente l’idea di considerare Euripide come una specie di Metastasio greco. Con lui la tragedia cambia sesso. Da maschile che era stata con Eschilo e con Sofocle, essa diventa femminile: sospira gorgheggia e solfeggia; e dal vertice dei secoli il melodramma strizza l’occhio al futuro. Comincia il crepuscolo degli Dei. Sta per finire il tempo degli eroi e sta per cominciare la primavera delle eroine. Misogino dichiarato nella vita almeno tanto quanto il suo amico Socrate, ma solerte femminista nei copioni; alle strofe e alle tirate delle sue tragedie proclamanti i diritti della donna, al principio del secolo ventesimo toccherà il discutibile onore di venir recitate nelle adunate delle suffragette. L’ironico vecchio appartiene alla incomoda categoria dei ribelli intellettuali. Del resto, l’apparizione di un trageda laico, animato da spiriti volterriani, era il meno che potesse capitare nell’Atene di Pericle, formicolante di sofisti; e Protagora e Anassagora, avevano pure ildiritto di trovare il loro equivalente manifesto poetico. In un’epoca in cui la cieca fede negli Dei era diventata cordiale fiducia nella filosofia, era comprensibile e giusto che si distogliessero gli occhi dal cielo per distendere lo sguardo sulla terra. Il Fato deve rassegnarsi a venir a patti con la cronaca e lasciare che la ragione si metta a rivedere i conti alla rivelazione.

Dalle impercettibili ma fitte crepe della critica e dello scetticismo e del dubbio insinuatesi lungo le pareti di un antico vaso che conserva ancora le classiche forme tradizionali, è già sfuggita l’antica e solenne austerità mistica e ritualistica; e in sua vece vi circola dentro una vibrante sensibilità moderna stimolata da morbide e cangianti incertezze.

Privata della religiosità, la tragedia doveva naturalmente riparare sulla psicologia. I terribili e fatali protagonisti smettono i loro scultorei atteggiamenti e sono obbligati a scendere dai marmorei piedistalli sotto l’occhio critico, scettico e un po’ crudele di un vate ragionevole e pessimista con tendenze avvocatesche e processuali. Formalmente le opere del poeta sono ancora delle tragedie, in sostanza esse sono già commedie. Insomma, se Dio vuole Euripide è uno dei nostri.

Nemmeno la terribile Medea, prodigio di umanissima mostruosità, fa eccezione alla regola generale. Le sue azioni e le sue giustificazioni, i suoi impulsi e i suoi furori trovano la loro unica ragione d’essere su questa terra. Il rapimento religioso e l’irreparabilità del Fato sono loro estranei. La paurosa pace dell’anima che esala dalle sue labbra a compimento di tanti atrocissimi crimini alla fine della sua lampeggiante e sinistra vicenda di sangue e di vendetta è estranea alla benché minima catarsi sacra. Per quanto agghiacciante, essa esprime unicamente la quiete psichica per non dire fisica, che interviene dopo lo scatenarsi e l’appagarsi degli impulsi tempestosi dell’istinto soddisfatto; e la stessa sua apparizione, cavalcante nel cielo, assisa sul carro del sole trainato da quatto corsieri, tenendo fra le braccia le fredde spoglie dei due innocenti figlioletti assassinati e ormai irraggiungibile alla cieca ira dello sciagurato Giasone, resta pura macchina spettacolare: tanto varrebbe che essa pronunciasse le sue ultime, sarcastiche parole attraverso l’uscio sbarrato della stanza ove è avvenuta la strage. Gli Dei, ammesso che ci siano, stanno a guardare. Qui innegabilmente la tragedia fallisce. La vertiginosa grandezza del poeta invece consiste tutta nel rendere psicologicamente plausibile artisticamente accettabile la snaturata e deliberata uccisione dei figli mercé il sublime e giustamente famoso monologo che la predece, dove l’anima della funesta signora si dibatte disperatamente fra l’imperativo della vendetta e la tenerezza materna. Se poi è vero – come pare – che la soppressione degli innocenti è stata una personale invenzione di Euripide, aggiunta arbitrariamente al mito di “Medea” che precedentemente non lo contemplava, bisogna dire che la sicurezza nella propria potenza poetica fosse incommensurabile, oltre che tale da gettar luci conturbanti nell’animo capace di concepire la temerità di tanta orrenda concezione. (Sia detto fra parentesi, al lume della psicanalisi si potrebbe interpretare l’atto disumano come subcosciente proposito di “Medea” di evirare il fedifrago Giasone).

Sia come sia, al paragone di tanta audacia sì disinvoltamente superata, i precedenti crimini, compiuti nel soccorso delle arti magiche, contro la rivale e quel buonuomo del re Creonte suo padre, arsi vivi dai doni stregati della tradita, diventano una bazzecola, di ordinaria amministrazione, quasi un naturale diritto di donna gelosa e abbandonata, come del resto pare che la pensino anche le brave donne di Corinto che costituiscono il coro.

In altre parole, tirate le somme, il segreto che autentica e fa grandeggiare la tragedia trova il suo principio e la sua fine unicamente nel formidabile personaggio della protagonista. La mediocrità morale di Giasone è scoraggiante: nessuno sospetterebbe in lui il meraviglioso avventuriero conquistatore del vello d’oro. Bisogna credergli sulla parola a questo ulisside diventato un piccolo borghese che ripudia la moglie e abbandona i figli per fare un modesto matrimonio di interesse: meschino anche come personaggio da commedia; Creonte è il re di Corinto come potrebbe essere il re di coppe; Egeo è un impotente che passa, dopo essere stato dal medico senza aver avuto speranze di guarigione. Ma Medea è un carattere immortale, di una ricchezza e complessità di spessori ineguagliabile. Sotto il freddo e calcolato dominio di sé, regolato fino alla pedanteria dai controlli della ragione, arde e rugge una selvaggia passionalità. È l’ancestrale sottofondo barbarico della maga, è la sensualità della donna primitiva che scatena le funeste e furibonde e caotiche tempeste degli istinti feriti; e le consegna all’intelletto per la puntuale, meticolosa e perfino prudente realizzazione. Contro la roccia di diamante di uno smisurato orgoglio, che costituisce la nota sovrana del suo carattere, sbattono e si infrangono incessantemente e senza scampo le onde del superstite innamoramento, dell’aspra gelosia, dell’insidiosa paura, dell’amaro dolore, del represso rimpianto e, prima fra tutte e sopra tutte, d’un caldo, infinito e disperato amor materno. Fatalità? E come! Ma tutta ed esclusivamente umana proveniente dal cuore del personaggio.

La esatta e trasparente traduzione, agile, viva, e nervosa di Manara Valgimigli; come la solida scena volumetricamente circoscrivente uno spazio e un tempo densi e precisi, e i plastici costumi dai colori carichi e pesanti ispirati con libera fantasia alle fogge delle statuette di anatra, sono stati dei validi e preziosi elementi di suggestione dell’acclamatissimo spettacolo.

Il motore della superba e provocante regia di Luchino Visconti è stato un altro esempio del suo anticonformismo aggiornatore e della sua svincolata puntualità culturale; ed è consistito nell’accettare le implicite premesse di terrestre e autonoma realtà, insite in Euripide, spingendole rigorosamente fino alle estreme conseguenze; con una fedeltà al testo, disdegnando ogni soccorso esornativo e decorativo di qualsiasi suggestione coreografica anche soltanto musicale, da riuscire, in ultima analisi, polemica: un realismo senza mistero; teso, concentrato ed eroico; regolato, si direbbe, sul ritmo dei torbidi battiti del cuore della disastrosa eroina; fino al punto di umiliare e comprimere le oasi liriche contenute nel testo. Prova ne sia il modo geniale e, ad un tempo, disinvolto, spregiudicato e spicciativo col quale ha risolto il problema del coro, trasformato e distribuito in un gruppo di singole e indipendenti donnette corinzie; serie consapevoli e sentenziose, sì, ma non aliene da un pizzico di petulante e familiare curiosità: un vero e proprio cartello di sfida indirizzato ai suscettibili custodi del formalismo tradizionale.

La responsabilità maggiore della serata, ovviamente era sulle spalle di Sarah Ferrati. Essa ha messo al servizio dell’acutezza dell’indagine  di ogni più segreta fibra della protagonista e dell’empito di una ribollente passionalità scatenata a travolgere ogni freno morale, in una furia algofiliaca di distruzione, il mirabile dominio e il calcolatissimo impiego dei propri mezzi eccezionali. Può considerare questa interpretazione come un punto d’arrivo nella sua pur tanto notevole carriera d’attrice. Prima di essere acclamata sola sul palcoscenico richiesta a gran voce dalla platea  entusiasmata, essa aveva condiviso molti e molti applausi in compagnia del regista, dello scenografo e dei suoi valorosi compagni: Giorgio De Lullo applaudito a scena aperta per l’impetuoso e disperato slancio conferito al racconto del nunzio; Memo Benassi solenne, austero e lineare Creonte; Sergio Fantoni aitante ma un po’ acerbo Giasone, Elena da Venezia, ardente corifea, Renata Seripa, intensa nutrice, Gianrico Tedeschi Egeo rassegnato e quanto più antitragico è possibile immaginare.

In apertura di serata, Memo Benassi è stato evocato alla ribalta sei o sette volte per la pittoresca evidenza, la impaurita ribellione e il sofferto umorismo dickensiano, espressi interpretando Il tabacco fa male; un monologo di Cechov, che non è un gran che anche se è di Cechov.

Carlo Terron

Ultima modifica il Domenica, 14 Dicembre 2014 11:54
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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