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Giangiorgio TRISSINO - Sofonisba

Corriere Lombardo, 9 settembre 1950

Meno male che, dopo le commedie, il Governo non sovvenziona anche i poemi epici. Se no, scoccato l’anno 1950, quarto centenario della morte del cavalier Giangiorgio Trissino, emerito lucidatore dell’antichità, nessuna forza al mondo ci avrebbe evitato la noia di dover fare la patriottica conoscenza di mezza dozzina almeno dei canti de L’Italia liberata dai Goti. In compenso, però, non poteva esserci, né ci è stata, risparmiata quella della Sofonisba.

E tuttavia, anche questo riproporre e ritenere la validità del nostro teatro erudito cinquecentesco del quale tanti discorrono e pochi lo conoscono, ha una sua profonda ragione di essere che va difesa e incoraggiata ai fini di una cultura degna di un paese civile. È una revisione che può riserbare qualche sorpresa, specie nel campo della commedia. Lo si è visto pochi anni fa, quando uno che legge e conosce i testi dei quali parla, Renato Simoni, uscì a dire che la più bella commedia del Cinquecento, dopo La Mandragola, erano Gli straccioni di Annibal Caro. Ci siamo accorti tutti, allora, anche i registi, quale meravigliosa vita di quotidiana osservazione, governata dal gioco della fantasia, rinchiudesse un testo che, fino a quel momento, era rimasto poco più che un titolo in un lungo e polveroso elenco di opere mummificate dal tempo.

A proposito dell’unica tragedia del Trissino, rappresentata ieri sera all’Olimpico di Vicenza, non c’erano da aspettarsi liete sorprese. Bene o male che sia, noi non siamo più da un pezzo, nel felice stato d’animo della Corte di sua beatitudine, Papa Leone X, davanti al quale la tragedia fu magnificentissimamente rappresentata, nell’anno di Nostro Signore 1515, e salutata come il memorabile ritorno nella favella di Dante, dopo il lungo crepuscolo medievale, della gran voce tragica dell’adorata Grecia periclea. Per noi, tutto si riduce ai due meriti appresi sui banchi del liceo. E, cioè, che si tratta della prima tragedia vera e propria del teatro italiano – ma il “pianto della Madonna” di Jacopone non è forse, e bendiversamente, tragedia? – e che comincia da qui l’adozione e la tradizione del verso sciolto come metro ufficiale dei tragediografi indigeni. Mano a Tito Livio e orecchio all’Affrica del Petrarca; un colpo alla storia, cioè, ed uno all’elegia. All’alzarsi del sipario la regina Sofonisba è già nei guai. La bella figlia di Asdrubale, sposata a Siface, re di Cirte, per ragioni politiche, dopo essere stata promessa al moro Massinissa, piange le sue sventure circondata dalle donne, nella città assediata dai romani. Suo marito è al fronte e i fatali Quiriti guidati da Scipione, ai quali si è alleato il respinto Massinissa, mosso dalla gelosia, stanno per mettere a ferro e fuoco il reame. L’infelice Siface è già caduto nelle loro mani. Al giungere di Massinissa, padrone della situazione, la regina gli si getta ai piedi e, abbracciandogli le ginocchia, implora all’antico fidanzato almeno la grazia di non essere consegnata ai romani dei quali ha ottime ragioni di non fidarsi. L’aitante Massinissa non ci sta a pensar troppo e decide, lì per lì, di sposarla, mettendo gli incomodi alleati di fronte al fatto compiuto. Ahimè, egli non conosce di che pasta siano fatti. Scipione, chiamato a far da arbitro, lo tratta come un sergente avventato e insubordinato e gi dice che s’è comportato malissimo, che la guerra è una cosa seria, che non c’è niente da fare, che Sofonisba dovrà essere trascinata prigioniera a Roma, e se la levi dalla testa. Massinissa, nonostante la sua generosa impetuosità, fa come Garibaldi e dice “obbedisco”. Non viene meno però alla promessa giurata alla regina e, prima che i romani le mettano le mani addosso, le invia una coppa di veleno. Sofonisba lo tracanna e muore virilmente, baciando il figlioletto avuto dal primo marito, mentre Massinissa si dispera di aver avuto troppa fretta e di non aver tentato, prima di adottare una soluzione così radicale, di farla fuggire col favor delle tenebre.

Ad onta del patetico caso, i personaggi della tragedia sono immobili e prudenti, per non dire pavidi, tutti, senza eccezione. Essi risultano serviti da un verso il quale ha i molti difetti dei suoi pochi pregi e paga la sua riflessiva discorsività al prezzo di quella nervosità, accentuazione, stringatezza e vibrazione che, come accade, ad esempio, nell’Alfieri, sole avrebbero potuto simulare il calore drammatico. Essi si allineano, senza risparmio, dietro alle spalle dei personaggi come un disciplinato battaglione di soldati di fanteria senza che, in mezzo a loro, spicchi non dico un generale o un colonnello, ma nemmeno un semplice maresciallo. Tutto viene abbassato, insomma, a una misura mediocre e, nonostante le apparenze, antieroica. I magnanimi intenti e le sentenziose e moralistiche pensierosità, non riescono, a conti fatti, ad evitare la grottesca impressione che le guerre puniche siano state fatte  per ragioni di donne. Vorrebbero essere di fronte l’istinto e la ragione; la irriflessione e fiera impulsività dei barbari contro la civile e obbiettiva ragion di stato dei romani. Ma la passione dei cartaginesi, così pronta a disperarsi e a compassionarsi, ad ogni occasione, è poi incapace di ribellione e di coraggio. E la volontà dei romani si immeschinisce in una disumana astrattezza che, all’accento della grandezza, sostituisce la ridicola perentorietà dello scatto di un bottone automatico. Sole, oasi, galleggianti in un mare di prolissità, sono gli abbandoni elegiaci affidati, specialmente, a qualche momento del coro e a quasi tutta la patetica e gentile figura della condolente ancella Erminia. In compenso, però, tutte le regole aristoteliche sono commoventemene rispettate.

Personalmente ho un solo rimprovero da fare a Giorgio Strehler, vigile e sottile animatore dello spettacolo: quello di non essere stato più abbondante nei tagli. Alla facile soluzione di brutalizzare il testo con clamorosi colpi di scena, egli ha preferito quella più ardua di galvanizzarlo con una regia minuziosa e insinuante che, fin dove ha potuto, mercé spezzettature, pause, variazioni ritmiche e plastici raggruppamenti, è riuscita ad accendere nella recitazione la vita che languisce nel copione. Là dove la sua mano ha potuto operare su un linguaggio meno ineccitabile, egli ha ottenuto belli e poetici effetti; e il modo vario, musicale e umano come ha trattato il coro, a me almeno, è parso una delle sue cose migliori realizzate fino ad oggi. Altrettanto si può dire di Elena Zareschi non so se imprudente od eroica nell’accettare di essere la protagonista. Di una parte praticamente inesistente essa è quasi riuscita a creare un personaggio e, giunta alla interminabile scena della morte – ma che lento veleno aveva mai bevuto? – a forza di dimessa semplicità è riuscita a commuovere profondamente rendendo liricamente interiore una sofferenza dell’anima, ed intima una magnanima rassegnazione che, nel copione, sono poco meno che fredda oratoria.

Anche per Tino Carraro ha vinto per la via meno facile. Egli ha percepito con sensibilità di rabdomante la gracilissima vena di malinconia che scorre sotto l’incongruente Massinissa, e di quella tenue polverina ha impastato una figura morbidamente orientale, col gusto, la pulizia e la perfezione che gli sono propri. A Scipione, Antonio Crast ha conferito autorità con una decisa, scandita e stupenda dizione. Maria Fabbri, l’ancella, tenne cinque minuti del suo emozionante racconto in un sorprendente stile classico e, in questo senso, è stata l’unica. Mario Feliciani dette una vibrata e sprezzante prepotenza al capo di stato maggior di Scipione; Arnoldo Foà rivestì di riflessiva semplicità Catone; Carlo D’Angelo nobilitò con una schiva dignità il pallido Siface, sovrano in catene e marito infortunato; la Alegiani, Gianrico Tedeschi, il Chiocchio e le donne  del coro, fra le quali la Aliquò, la D’Alessio, la Martello, la Perrone e la Trombadori, contribuirono al felice e applaudito esito della serata. Dalla quale, non ultimo, anzi principalissimo, elemento furono i meravigliosi costumi gidianamente coridoniani di Giulio Coltellacci e raffinatamente giocati su tre soli colori: bianco candido per i cartaginesi, verde pisello per i romani e giallo oro per entrambi. Delle musiche s’era incaricato, con la solita musicale originalità Fiorenzo Carpi. E quanto alla scena aveva già provveduto, sino dal 1579, Andrea Palladio.

Carlo Terron

Ultima modifica il Lunedì, 15 Dicembre 2014 11:33
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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