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Antonio Galeazzo GALEAZZI - Simili a Dio

Corriere Lombardo, 21 gennaio 1956

Fra le dune del poco accidentato e assai monotono paesaggio del nostro teatro, quello di Antonio Galeazzo Galeazzi è, se vogliamo, un caso a sé. Rarissimamente – o mai? – rappresentato, benché, non certo più giovanissimo, abbia già scritto e fatto stampare numerosi copioni, egli è riuscito a crearsi, nell’ambiente del palcoscenico, fra quello della critica drammatica ed anche nel più avveduto e bene informato settore del pubblico, una stima, una considerazione e un rispetto come non godono certi commediografi frequentemente e ricorrentemente rappresentati; anzi, in parecchi casi, più commedie mandano alla ribalta e meno considerazione acquistano.

Galeazzi è rimasto uno dei pochi, per non dire l’ultimo a credere in un teatro di poesia eloquentemente intonata e orchestrata, non senza un pizzico di umanistica retorica, riscattata e insincerita però da un’onda di calda ed espansiva umanità; sui grandi motivi conduttori delle alte idealità; del bene e del male, del dovere e del sacrificio, della trascendenza e del mistero e così via – con una malcelata predilezione per le lettere maiuscole in testa – in un senso, diciamo vagamente, tanto per intenderci, come lo autorizzerebbe l’eredità di Paul Claudel, ammesso che Claudel abbia lasciato un’eredità.

Il suo rifiuto, per meglio dire il suo disdegno di un repertorio dai personaggi, dalle situazioni, dai modi e dal linguaggio realistico quotidiano e, men che meno, borghese, è assoluto e irreducibile. Pur aperto, sensibile e suscettibile a idee, idealità e idealismi moderni e non infrequentemente anche arditi, provocanti e polemici, egli predilige generalmente i vasti quadri affollati e corali, dove si esprimono aspirazioni, sentimenti, esigenze morali, mistiche, ascensioni dell’anima collettiva; in moduli i quali tendono, non tanto e soltanto verso il simbolo, quanto e generalmente verso la parabola e l’allegoria; e dove la parola, stavo per dire il verbo, riscatta e rivendica la sua antica e perduta dignità, legittimamente impegnandosi a ristabilire il diritto alla propria nobile, genealogia letteraria.

Un teatro del genere, ben s’intende, ha i difetti dei propri meriti. L’altezza dei concetti, la profondità delle tesi, la problematicità dei suoi assunti e il rigore della sua posizione ideale, oltre che la letterarietà del linguaggio, vanno, qualche volta, a scapito dell’umana schiettezza delle figure o della persuasività dei loro drammi, quando non dànno luogo a quelli che Benedetto Croce, riferendosi, mi pare, ai personaggi di Paolo Ferrari, chiamava degli “imperativi categorici incarnati”. Inconvenienti, come si vede, per eccesso; benedetti inconvenienti di un teatro ambizioso, concepito come elevazione, illuminazione e consolazione dello spirito.

Va lode al teatro Sant’Erasmo e al suo direttore Carlo Lari di aver coraggiosamente voluto portare alla conoscenza del pubblico questa voce inconsueta e non certo facile. Simili a Dio costituisce, ad un tempo, la conferma e l’eccezione a quanto ho detto sopra. S’agita, anche qui – e come! – un eterno, tremendo, non inedito e mai risolvibile conflitto, il quale finisce col farsi la parte del leone sommettendo più di un’esigenza e opportunità scenica. Ma esso si dibatte fra poche e ben individuate creature, legate fra loro da stretti e sentiti vincoli familiari, da profondi e naturali sentimenti umani, da leali e coraggiosi patti di fedeltà morale.

L’autoritaria, volitiva, orgogliosa e fiera Teodora – attenti ai nomi, anch’essi hanno importanza nell’accordo al sopratono particolare della commedia – ebbe due figli da un unico parto: Oder e Olivo. All’ombra della madre la quale – mi pare – incarna, nel copione, il concetto, la chiave volontaristica della vita, i due sono cresciuti come dalla medesima radice si dipartono due alberi opposti e ugualmente grandiosi: Oder è diventato uno scienziato, un biologo di fama mondiale, persuaso che la verità sia senza trascendenza, tutta racchiusa, principio e fine, nell’intelligenza dell’uomo; e che nella scienza onnipotente sia la sua religione e il suo tempio. Olivo, invece, tormentato e bruciato da un divorante slancio mistico, ha indossato il saio del frate ed ha fatto testimonianza a Dio fra la gente con una sgomentante facilità e profusione di miracoli

Sono due vette distanti, solitarie e separate, sulle quali, rispettivamente, sventolano gloriose le due bandiere della materia e dello spirito, della scienza e della fede: due inconciliabili e non commiste soluzioni del mistero della vita. Esse si verranno incontro, entreranno in contrasto, confesseranno, in un certo senso, la loro singola incompletezza, i loro dubbi, le loro sconfitte anche, per uno di quegli accidenti umani, troppo umani come direbbe il filosofo, ove le dottrine non bastano più all’uomo.

La bella e giovane moglie di Oder, la sua fida compagna di vita e di idee, Ippolita, si ammala di una malattia di fronte alla quale la scienza deve incrociare le braccia e dichiararsi sconfitta. Nella casa qualcuno pensa di chiamare il cognato santo. Solo uno dei suoi miracoli potrà salvarla. E Olivo giunge. Ma come il fratello per suo conto e nel suo campo, non è l’essere glorioso, sicuro, orgoglioso, fidente, atteso e temuto. E’ un povero mendicante del Signore che ha orrore della propria facoltà taumaturgica. Non essa, non in quel modo; non i miracoli facili e vani sono la prova di Dio. Anzi. Anzi. Proprio essi possono essere un inganno del maligno. Chi può dirlo? Chi può essere certo di sentire Dio in sé? I fratelli, insomma, sono di fronte – e con essi la madre per la sua parte – non a celebrare il loro reciproco trionfo, bensì a constatare i loro dubbi, la loro angoscia, forse il loro fallimento. Sarebbe il momento dell’umiltà in tre diversi orgogli, quella che, prima o dopo, giunge sempre in chi ha presente, in un modo o nell’altro, di sostituirsi a Dio.

Che accadrà ora, quando Olivo sarà al capezzale di Ippolita? Se compirà il miracolo di guarirla, vorrà dire per il fratello, e anche per la malata, la clamorosa smentita di tutta una concezione materialistica della vita; e per lui, povero fraticello, un’incertezza di più, un altro sospetto di essere strumento del demonio e non del Signore.

Ma la fedeltà di Ippolita al suo sposo – e la scena è bella e introduce un alto motivo – va oltre il desiderio di vivere: vuol essere fedeltà di ideali, fedeltà alla fede della loro mancanza di fede. Essa “rifiuta” il miracolo, pur quando aleggia, intorno ad essa, pur quando è lì lì per percorrerle le vene; lo allontana da sé. Ed è allora, appunto, che l’inaspettato, il vero, il grande e indiscutibile miracolo si compie. Nella vertigine della sua rinunciataria esaltazione, Ippolita è investita improvvisamente dalla grazia come – chiedo scusa per la bestemmia – sarebbe investita da un’automobile. Essa ritrova Dio e muore con  l’anima risanata. Questa è anche la salvezza per Olivo. Il miracolo nel rifiuto del miracolo è la prova indispensabile e tanto attesa della vera presenza del Signore, è la pace del suo spirito nella fede.

Soluzione cristianamente, anzi cattolicamente ineccepibile, benché profondamente intinta di giansenismo, e approdante alla verità dopo ardite impennate non tutte ortodosse e, per fortuna, aliene dai soliti angusti propositi edificanti di troppi piccoli scrittori ai quali oggi fa comodo andare in processione ad ogni occasione e accender moccoli ad ogni cantonata. Quando lo schematismo concettuale e l’indulgenza alla disputa dialettica dei contrari per i quali, in ultima analisi, la commedia è stata scritta – ed è, semmai, il suo unico difetto – si fanno discreti o si tirano da parte, non mancano nei personaggi i momenti di vera e sofferta umanità, che poi sono anche quelli che prendono maggiormente e dànno, come è accaduto iersera, calore insolito e partecipazione viva al successo.

Bisogna anche dire che, sotto la guida chiarificatrice e semplificatrice di  Carlo Lari, la esecuzione è stata una delle migliori del Sant’Erasmo. La signora Lida Ferro ha ormai, in fatto di morti in scena, una pratica, non oso dire invidiabile, certo sperimentatissima. Giustamente è stata molto ammirata anche iersera. Fra dolori che non devono essere stati indifferenti – penso che si sia trattato di un tumore – pene d’amore rilevanti, discussioni filosofiche di varia natura, essa ha trovato modo di passare dall’ateismo alla fede, senza trascurare inoltre di richiamare un caldo flusso di toccanti lagrine al ciglio. Ecco, vivaddio, un utile impiego della propria agonia!

Vicino a lei sono toccati meritati applausi al Giangrande semplice e spoglio, al Mantesi sempre un po’ compassato, a quella magnifica attrice, così vera e dallo stile così sicuro, che è la Seripa; alla brava Centa, al commosso Bartolucci, al Pelso, alla Cini. Ed anche all’autore, una fiera testa nello stile del Verrocchio. Mi pare di aver detto bene di tutti. E poi lamentatevi di me.

Carlo Terron

Ultima modifica il Sabato, 20 Dicembre 2014 22:16
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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