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Corriere Lombardo, 21 aprile 1952

Bassa Italia e Spagna escluse, le corna a teatro sono sempre ridicole. Nella commedia francese, applaudita sabato sera all’Odeon, esse hanno il torto di voler diventare patetiche. Un modo di rendere patetiche le corna esiste: farci scappare il morto. Nei cinque quadri di monsieur André Haguet non c’è ombra di cadavere. E allora? Francamente codesto autore pretende troppo senza spendere niente. Dopo che il protagonista ha continuato a dire a tutti a destra e a manca: “Sei un imbecille” – tale anche il titolo della commedia – si scopre che l’imbecille è lui. Siamo d’accordo. I modi di essere imbecille sono infiniti. Ciò consente una vasta scelta e, di conseguenza, una certa originalità. Eugenio Barbentin preferisce la sicurezza della tradizione. Sia detto subito per non dimenticarcene in seguito: la sua imbecillità si appoggia alla sperimentata garanzia di Papà Lebonnard e dell’indimenticabile Micel de La famegia del Sàntolo. Arrancando faticosamente e a debita distanza dietro a codesti illustri becchi dal commovente candore angelico, riesce anche lui a tagliare onorevolmente il traguardo del successo cosparso di zucchero vanigliato.

Si tratta di un brav’uomo insopportabile: ciarlone, pretenzioso, pieno di ingenuo sussiego, di gonfia sicumera e di tronfio disprezzo per gli altri; e, sotto sotto, non è che un sentimentale inibito e un timido aggressivo. Egli ha una moglie, un figlio e un amico d’infanzia. La prima lo sopporta da ventitré anni, il secondo lo chiama papà da ventuno e il terzo va e viene per casa da sempre. Come avrete già capito, le premesse degli ulteriori sviluppi della commedia sono già tutte contenute in questa classica triade. L’inconveniente per lo spettatore consiste nel fatto di fare la loro conoscenza proprio la sera nella quale il ragazzo riceve la consolante notizia che una sua amichetta, poco più che adolescente, ha avuto da un ostetrico una spiegazione che non ha dubbi sul significato dell’inesplicabile quanto progressivo aumento della propria circonferenza addominale notato con preoccupazione da qualche mese.

Mezzo lusingato e mezzo spaventato dalla rivelazione  e con la ferma decisione di “riparare” a mezzo di un precoce matrimonio, il giovanotto confessa il suo imbarazzo all’amico di casa del quale è “figlioccio”. Costui piglia Barbentin e lo mette a giorno della faccenda: “Tuo figlio sta per diventar padre e tu sei sul punto di acquistare un nipotino e una nuora”. Non l’avesse mai detto. Tuoni e fulmini del clamoroso Barbentin al quale non par vero di approfittare dell’occasione per una delle sue solite sparate. Il rampollo cerca di far valere le sue oneste ragioni. Niente. Lo caccia di casa. La madre prende le parti del figlio. Peggio. Caccia di casa anche lei.

Allora prende la parola l’amico di famiglia e gli tiene pressappoco questo discorso: “Smettila di fare il tiranno e rendere impossibile la vita alla gente. Non ne hai alcun diritto, tanto il padre di tuo figlio non sei tu. Tu sei soltanto becco da ventun’anni e il padre vero sono io”. Non  chiedetemi, per piacere, le ragioni di una confessione resa con tanto ritardo. Si vede che fino allora non aveva mai trovato il tempo di farla, o se ne era dimenticato, o aveva cose più urgenti da fare. Non si sa. C’è una analogia con quelle lettere che impiegano anni e anni prima che l’amministrazione postale si decida a farle pervenire al destinatario. Ma l’importante è che arrivino. Fatto sta che il tardivo disfafamiglie mette finalmente in ditta propria i Barbentin moglie e figlio e se li porta  a casa sua.

Ma – quante commedie sarebbero finite al primo atto se, al principio del secondo, non inciampassero in un ma! – ma il rimedio si rivela, e da una parte e dall’altra, assai peggiore del male. Il povero cornuto, privato ad un tempo e della moglie e del figlio al solo scopo di dargli la soddisfazione di non diventar nonno, si trova come un pesce fuor d’acqua a boccheggiare nello sconforto, nella solitudine e nel rimpianto. A quella donna voleva – e vuole – bene; e quel ragazzo se lo sente figlio, disperatamente figlio, proprio come se si trattasse del suo sangue. La vecchia storia della “paternità ideale” come sapete. Gli altri due, per conto loro, lo stesso. La distanza ingentilisce il ricordo di quell’intollerante di Barbentin rivelandone, sotto la scorza fracassona e volgarotta, tutta la bontà d’animo, tanto più che l’uomo il quale li ha rilevati si scopre assai peggiore di lui, egoista indifferente e privo delle qualità elementari indispensabili a farne un marito e un genitore appena tollerabile. 

Della situazione approfitta la madre dell’abbandonato, la vecchia ghiribizzosa ma saggia signora Barbentin la quale viene da Angoulême e possiede tutte le venerande qualità delle duchesse, delle suocere, delle vecchie zie e delle nonne che nelle commedie francesi del tempo che fu venivano da Carcassonne patria ideale per simili donne. Questa brava dama persuade i due a far credere all’abbandonato che era stata tutta un’ingegnosa invenzione architettata allo scopo di strappargli il consenso delle nozze per i giovani. Barbentin finge di crederlo e la famiglia si ricongiunge mentre per aria risuonano rintocchi di campane battesimali e viene introdotto in casa un ridente nipotino fra lucciconi e battimani dei presenti in palcoscenico e in platea.

È una commedia che ricorda le montagne russe. Comincia come una farsa e finisce come un racconto di Edmondo De Amicis, se De Amicis avesse preso per argomento di una novella l’adulterio. Il suo grosso difetto consiste nel trascorrere con incosciente disinvoltura, senza preoccuparsi di un’amalgama stilistica qualsiasi e nemmeno del più elementare arrotondamento delle giunture, dal comico al serio, dal sarcastico al lacrimogeno, dal caricaturale al patetico, dal grottesco al melodrammatico. Il suo piccolo merito sta nel comune, facile e convenzionale ma pittoresco carattere del protagonista del quale Nino Besozzi ha fatto un tipo insopportabile per eccesso di buon cuore, espansivo, cordiale e abbondante, pieno di rumoroso rilievo, ai margini del dialetto. Il successo è stato generoso come l’interpretazione del capocomico. Vi hanno contribuito Aldo Pierantoni, uomo vissuto e seduttore persuasivo; Mario Rovati, un giovanotto molto bravo sincero e semplice che viene dal teatro veneto, e si sente ancora un poco nella pronunzia; la perentoria Fanny Marchiò, come sempre preoccupatissima della propria eleganza, al punto da cambiar bastone col cambiar d’abito; la volonterosa Paola Orlowa, la mite e fresca signorina Rivera, la arguta Bellini, l’Ardizzone… e la buona volontà della platea.

Carlo Terron

Ultima modifica il Martedì, 23 Dicembre 2014 09:25
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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