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«Con Mephisto metto in scena ambizione e crisi dell’attore» Conversazione con Luca Micheletti a cura di Nicola Arrigoni

Luca Micheletti Luca Micheletti

Mephisto. Ritratto d'artista come angelo caduto di e con Luca Micheletti è un viaggio nell'ambizione di un attore che non esita di venire a patti col nazismo pur di arrivare al successo. Mephisto di Luca Micheletti conferma l'estro e la voglia di mettersi in gioco dell'attore e regista che dopo la Metamorfosi di Kafka, non pone limite alla voglia di mettere in crisi, sfidare la sua natura di attore e la semantica stessa dell'arte dell'attore, un'arte subdola, sporca eppure sublime nei suoi esiti. C'è questo e c'è la seduzione del male, c'è l'ambizione e la negazione di una morale in Mephisto, dall'omonimo romanzo di Klaus Mann, satira legata alla figura di Gustaf Gründgens, cognato di Klaus Mann, rinominato nel romanzo Hendrik Hofgen.
«Klaus Mann racconta di Gründgens/Mephisto e delle sue compromissioni etico-politiche e morali – spiega Micheletti -. Tutto ciò affronta la satira di Mephisto innamorata e ostile con al centro il celebre ex cognato di Klaus Mann. Quest'ultimo, insieme a Klaus e a sua sorella Erika Mann e a Pamela Wedekind, partì in tournée poco più che ventenne, recitando un drammetto dello stesso Klaus: Anja und Esther. Si amavano tutti e quattro, allora. Poi sempre più i fratelli Mann cominciarono a essere e raccontarsi come perseguitati e profughi; gli altri due, gli attori di professione, invece divenivano sempre più simili a maschere ambigue di persecutori o conniventi, tollerando di ricoprire le più alte cariche del Teatro di Stato del Terzo Reich».
Al punto di sacrificare tutto e tutti per questo successo?
«E' così per Gründgens, nel romanzo e nella pièce Hendrik Hofgen che diviene artista privo di scrupoli che per salvare la sua carriera non disdegna di passare letteralmente sui cadaveri».
La stessa cosa pare capitare a Lotte, la giovane attrice che si rivolge a Hendrik e che finisce con avere relazioni col Generale, fino al punto di divenire più potente dell'attore...
«Lotte è mossa dalla stessa passione e ambizione, alla fine è lei e la sua relazione col il generale a mettere con le spalle al muro Hendrik che deve rinunciare alla sua relazione con Juliette, perché di colore, deve sottostare ai voleri del potere e del nazismo per mantenere la propria fama e grandezza, paradossalmente rinunciando a se stesso, sacrificandosi all'attore, alla performer che si pone al di là del bene e del male, che finisce col trascendere ogni tipo di etica e morale».
Al centro c'è un attore che fin da subito appare spregiudicato e ambizioso, ma l'umanità che lo circonda non è da meno...
«Intorno a lui, un gruppo di artisti apparentemente senza speranza e senza scrupoli. Prima fra tutti, un'attrice insoddisfatta, alter ego dello stesso Mephisto e sua incarnazione femminile, disposta a qualunque cosa per coronare i suoi sogni di gloria che Federica Fracassi rende meravigliosamente; e poi una principessa della danza decaduta al rango di entreneuse sospesa tra sadismo e follia, ruolo interpretato e adattato alla personalità di Lidia Carew, un giovane attore militante nel teatro politico, affidato a Massimo Scola. I loro rapporti con il Potere – che assume la maschera spaventosa di Hermann Göring interpretato da Michele Nani – modificano i loro destini e tutti si troveranno a dovere o volere 'cambiare pelle', stravolgendo i loro ideali, subendo strabilianti metamorfosi».
Se questa è la vicenda del suo Mephisto, nel testo ci sono tanti debiti testuali al Faust di Goethe, ma anche a buona parte della letteratura del primo Novecento tedesco...
«Innanzitutto c'è il teatro di Franz Wedekind, padre di Pamela con cui Klaus condivise buona parte della sua passione e tournée teatrali, con prestiti dal Kammersanger che ritrae proprio un artista senza scrupoli, alla satira faustiana di Franziska, Ho cercato di scrivere la storia di Gründgens non come l'ha scritta Klaus Mann, ma come avrebbe potuto scriverla Wedekind, che non lo conobbe mai. Lo stereotipo dell'attore privo di coscienza e assetato di gloria, pieno di nevrosi, tic e debolezze umane è andato a comporre, nel corso del primo Novecento, una vera e propria costellazione: citerò almeno un altro luogo che è stato fondamentale per me. Si tratta di Groβe Szene di Arthur Schnitzler (1913, iniziato nel 1911): impossibile non vedere in Konrad Herbot e nella sua elettricità amorale un antenato di Hendrik Höfgen (la caricatura di Gründgens immaginata da Klaus). Mi Sono servito della somiglianza, in particolare, nell'ultima scena. Ma ovviamente, ed è quasi scontato dirlo, il Faust di Goethe fa da filo conduttore a tutta la vicenda. Su Goethe ho formato le sequenze e i caratteri, il grande opus fa capolino nei dialoghi: se ne parla ed è fatto parlare. Ovviamente non potevo ignorare il Doktor Faustus di Thomas Mann in cui il protagonista non è più un dotto assetato di conoscenza, ma un artista tormentato e disposto, per la creazione, a sacrificarsi fino alla malattia».
Se questi sono gli intrecci testuali della sua drammaturgia, tutto ciò si è tradotto in scena in una sorta di cavalcata a tratti ridondante nella macchina teatrale, nella finzione scenica, nell'effetto speciale...
«E dopotutto proprio all'inizio per voce di Goethe si afferma: 'Deve scorrere qui, su questo palco di tavole, il creato; e con prudente velocità, la terra attraversando, caliamoci dal ciel sino all'inferno'. E' questo il rischio, è questa la volontà della performance, è la scommessa del teatro che vuole includere il mondo e a sua volta farsi mondo. Lo spettacolo è un'indagine del dissidio morale che sta alla base del rapporto dell'essere umano con le arti in genere e con il teatro in particolare: sul ciglio d'un conturbante cerchio di fuoco dove l'artista corre il rischio della chiusura autoreferenziale, della sordità sociale, dell'esaltazione estetica».
Nella costruzione scenica di Csaba Antal, nei costumi di Valentina Fariello c'è un costante riferimento al teatro e alla sua finzione, c'è uno spazio che è spazio scenico elevato all'ennesima potenza. C'è il camerino che sa di rifugio e tana, ci sono spazi che si costruiscono a vista in una continua ricerca dello stupore..
«C'è chi ha parlato di effetti speciali. Forse lo sono, è quanto si augura Goethe nel suo Faust, è forse il tentativo di tendere fino allo stremo la semantica del teatro, il senso di finzione, la messa in scena e in fondo la natura stessa della performance, dichiarata come tale, ma che finisce con essere cuore stesso dell'attore, essere l'attore stesso».
Ed è un po' quanto accade a Hendrik Hofgen che diventa schiavo del suo ruolo, della sua ambizione...
«E' l'ascesa al cielo e la discesa all'inferno al tempo stesso, per dirla sempre con Goethe. Credo che al di là della storia biografica di Hofgen ciò che fuoriesce da questo Mephisto o che almeno ho tentato di realizzare è una riflessione sulla performance, sulla natura del teatro, sul rischio che l'attore performer diventi autoreferenziale e che la performance si faccia mondo, sia totalizzante rispetto anche a chi la realizza. In tutto questo credo prosegua la mia indagine sulla metamorfosi che è insita nell'arte dell'attore».
Dopo Brescia il suo Mephisto, prodotto dal Centro teatrale bresciano, è approdato al Franco Parenti di Milano in uno spazio assai più ridotto... Come si è adattato il corpo dello spettacolo?
«La risposta del pubblico è stata buona. Credo che lo spettacolo in sé non sia mutato, abbia assunto una maggiore intimità. Quando eravamo in scena a Brescia abbiamo cominciato a lavorare su una versione pensata per spazi più ridotti, proprio in prospettiva della tappa milanese e di una possibile futura tournée. Ciò che mi ha stupito e lo dico con grande sincerità è la forma cameristica, più intima ma anche più inquietante, pur nel contesto di una satira a tratti grottesca e impietosa, in piena sintonia con l'ambizione sfrenata e la performance per la performance di Mephisto».

Ultima modifica il Giovedì, 10 Dicembre 2015 23:32

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