MANDELA LIFE Tre processi, tre accuse, tre prigioni: Johannesburg, Pretoria e Robben Island, una discesa all’inferno, fatta pe capire com’ è fatto il sistema, sventarne le trappole e trovare risposte. E Mandela mette alla sbarra lo stato: in questo processo, non io, tu, non il movimento imputati, ma lo stato che bastona i diritti e ha un tribunale che mette in croce gli oppressi; lui accende una fede e ha in mente dei flash : allo sgombero, 69 africani giacevano a terra, i più colpiti alla schiena, furono sparati 700 colpi. 400 i feriti, tra cui donne e bambini, a SHARPEVILLE! Quando il 29 marzo del 61 la terna di giudici li assolve dall’accusa di alto tradimento, l’attacco del governo diventa serrato e mette in atto la più grande dimostrazione di forza che si sia mai registrata nella storia del Sudafrica in tempo di pace. Annullate le ferie ai poliziotti, chiamati alle armi il maggior numero di soldati dalla fine della guerra, unità dell’esercito all’entrata e all’uscita delle township. Mandela con barba e capelli lunghi, indossa berretto, occhiali tondi, e da primula nera attraversa un continente: Tunisia, Algeria, Marocco, Etiopia, Egitto, Sierra Leone, Liberia, Ghana, Rodesia, Senegal. Passa in un altro, e cala un banco di nebbia davanti al Big Ben, quando ricorda l’imperialismo di un tempo su due terzi del globo. Alle reclute insegna: la rivoluzione non è solo questione di tirare il grilletto, il suo scopo è quello di creare una società giusta ed equilibrata. A Durban lo ferma una Ford, un sergente e un mandato di arresto. Ma a sostenerlo c’è WINNIE: Oh Nelson, l’ho sempre saputo, non ci sono fortezze per gli spiriti indomiti, né sbarre, manette, mi sei accanto lo stesso, di giorno, di notte, e ai bambini lo dico: è con noi! E a Robben Island al colonnello che interroga “Mandela, perché scioperate?” Risponde “Colonnello, perché come detenuti politici riteniamo che la lotta, per migliorare le condizioni carcerarie di tutti, è un’ estensione della lotta contro l’ apartheid.” Il colonnello lo pressa “Mandela, ma non sapete nemmeno, perché scioperano i detenuti comuni!” “Colonnello, non importa, sono pure nostri fratelli e la loro lotta è anche la nostra.” E coagula le loro istanze con quelle dei loro stessi aguzzini e l’immagine del colonnello avvilito di fronte alla protesta delle guardie per condizioni di vita migliori, insieme alla deposizione fatta a Rivonia, è il suo trionfo. Posa i fogli sul tavolo della difesa, si volge a guardare in faccia il giudice, in un silenzio impressionante, senza staccare gli occhi da De Wet, pronuncia le parole conclusive: ho dedicato la mia vita alla lotta del popolo africano. Mi sono battuto contro il predominio dei bianchi , così come mi sono battuto contro il predominio dei neri. Ho perseguito l’idea di una società libera e democratica, in cui tutti vivano insieme in armonia e con pari opportunità. E’ un ideale per il quale spero di continuare a vivere, fino a conseguirlo. Ma per il quale, se necessario sono disposto a morire. Dalla galleria Ummmmmmm! E i singhiozzi delle donne. |
MANDELA LIFE Un paese, un uomo, una leggenda, Nelson Mandela da tre capanne nel Transkei alla presidenza in Sudafrica, un viaggio difficile, fatto di incontri epifanici; lui ha una valigetta, la apre: ago, filo, forbici; ma lui cuce e altri squartano, le ferite dilagano, le suture non bastano: “il fiore della gioventù Xhosa sta morendo”, i vecchi strumenti non servono, bisogna trovarne di nuovi; ripone l’ago, il filo, le forbici. Ha due pilastri alle spalle e qualche ricordo: un ciuffo di capelli striato di bianco, l’eco di un “no” al magistrato di zona, il fumo della pipa davanti alla morte che incalza, tre capanne e una voce di donna: stai in gamba, figlio mio! |
C'ERA UNA VOLTA CONCA D'ORO Mitico treno “Conca D’Oro”, carretta dei meridionali di ieri, Ventiquattro ore da Palermo a Milano, una tratta tempestata di emigranti in su e in giù per l’Italia, “Conca D’Oro” racconta, nelle mani che “si stringono” prima della partenza, il dolore della separazione dalle radici e, in quelle che “penzolano” al rumore sordo degli sportelli serrati e al frastuono del treno sulle rotaie, l’abbandono di chi resta. |
CASA MEMORIA Una donna ed un luogo, Felicia Bartolotta e Corso Umberto a Cinisi, covo di boss e altare di martiri, perché è questo che “Casa Memoria” rappresenta, attraverso la figura di Felicia Bartolotta, moglie di boss e madre di martire, è lei una moderna Antigone che va alla ricerca della Giustizia, non quella fatta di mezze verità, di depistaggi e lei, davanti al tritolo che le uccide il figlio, ingaggia una lotta serrata, contro i boss, lo Stato malato e un paese malato; lotta che va dal 78, anno della morte di Peppino Impastato al 2000, ma la battaglia di Felicia ha radici profonde inizia tra le pareti della casa paterna e continua tra quelle della casa maritale, perché Felicia, a dispetto dell’apparenza fragile, è donna forte e ribelle , di una ribellione che edifica e trasforma una prigione, in un altare, luogo di ricongiunzione tra il figlio morto e tutti coloro che sanno battersi per la giustizia, una donna che vede mafia e antimafia scontrarsi tra le stesse pareti, che sfida “un paese morto, un paese assente” e “il suo codice rovesciato” che non è tritolo, ma uccide lo stesso e lascia la donna al suo esilio ed al suo unico spazio: la casa! Felicia ribalta “il codice”, apre le persiane di casa e in una scatola emblematica contempla i pezzetti rimasti del figlio: stanghetta degli occhiali, strisce di tela dei pantaloni …, e quando esce: dichiara, rilascia interviste,firma esposti. “Cartazze, cartazze” per gli altri, che si levano gli occhiali e lasciano fare ai Don Tano che senza carte bollate, senza Corte d’Appello, senza Corte D’Assise emettono “una sola sentenza”. Felicia ribalta le regole, lei non vuole “vendetta”, vuole “Giustizia”, ventidue lunghissimi anni per ottenere “Verità”e riscattare Peppino dall’accusa di terrorismo: Fango, sangue e calunnie |