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Venerdì, 27 Febbraio 2015
Pubblicato in Sinopsi testi

MANDELA LIFE
Seconda parte della trilogia
di Emilia Ricotti

Tre processi, tre accuse, tre prigioni: Johannesburg, Pretoria e Robben Island, una discesa all’inferno, fatta pe capire com’ è fatto il sistema, sventarne le trappole e trovare risposte. E Mandela mette alla sbarra lo stato: in questo processo, non io, tu, non il movimento imputati, ma lo stato che bastona i diritti e ha un tribunale che mette in croce gli oppressi; lui accende una fede e ha in mente dei flash : allo sgombero, 69 africani giacevano a terra, i più colpiti alla schiena, furono sparati 700 colpi. 400 i feriti, tra cui donne e bambini, a SHARPEVILLE!

Quando il 29 marzo del 61 la terna di giudici li assolve dall’accusa di alto tradimento, l’attacco del governo diventa serrato e mette in atto la più grande dimostrazione di forza che si sia mai registrata nella storia del Sudafrica in tempo di pace. Annullate le ferie ai poliziotti, chiamati alle armi il maggior numero di soldati dalla fine della guerra, unità dell’esercito all’entrata e all’uscita delle township. Mandela con barba e capelli lunghi, indossa berretto, occhiali tondi, e da primula nera attraversa un continente: Tunisia, Algeria, Marocco, Etiopia, Egitto, Sierra Leone, Liberia, Ghana, Rodesia, Senegal.

Passa in un altro, e cala un banco di nebbia davanti al Big Ben, quando ricorda l’imperialismo di un tempo su due terzi del globo.

Alle reclute insegna: la rivoluzione non è solo questione di tirare il grilletto, il suo scopo è quello di creare una società giusta ed equilibrata.

A Durban lo ferma una Ford, un sergente e un mandato di arresto. Ma a sostenerlo c’è WINNIE: Oh Nelson, l’ho sempre saputo, non ci sono fortezze per gli spiriti indomiti, né sbarre, manette, mi sei accanto lo stesso, di giorno, di notte, e ai bambini lo dico: è con noi!

E a Robben Island al colonnello che interroga “Mandela, perché scioperate?” Risponde “Colonnello, perché come detenuti politici riteniamo che la lotta, per migliorare le condizioni carcerarie di tutti, è un’ estensione della lotta contro l’ apartheid.” Il colonnello lo pressa “Mandela, ma non sapete nemmeno, perché scioperano i detenuti comuni!” “Colonnello, non importa, sono pure nostri fratelli e la loro lotta è anche la nostra.” E coagula le loro istanze con quelle dei loro stessi aguzzini e l’immagine del colonnello avvilito di fronte alla protesta delle guardie per condizioni di vita migliori, insieme alla deposizione fatta a Rivonia, è il suo trionfo.

Posa i fogli sul tavolo della difesa, si volge a guardare in faccia il giudice, in un silenzio impressionante, senza staccare gli occhi da De Wet, pronuncia le parole conclusive: ho dedicato la mia vita alla lotta del popolo africano. Mi sono battuto contro il predominio dei bianchi , così come mi sono battuto contro il predominio dei neri. Ho perseguito l’idea di una società libera e democratica, in cui tutti vivano insieme in armonia e con pari opportunità. E’ un ideale per il quale spero di continuare a vivere, fino a conseguirlo. Ma per il quale, se necessario sono disposto a morire. Dalla galleria Ummmmmmm! E i singhiozzi delle donne.

Venerdì, 05 Dicembre 2014
Pubblicato in Sinopsi testi

MANDELA LIFE
Prima parte della trilogia
di Emilia Ricotti

Un paese, un uomo, una leggenda, Nelson Mandela da tre capanne nel Transkei alla presidenza in Sudafrica, un viaggio difficile, fatto di incontri epifanici; lui ha una valigetta, la apre: ago, filo, forbici; ma lui cuce e altri squartano, le ferite dilagano, le suture non bastano: “il fiore della gioventù Xhosa sta morendo”, i vecchi strumenti non servono, bisogna trovarne di nuovi; ripone l’ago, il filo, le forbici. Ha due pilastri alle spalle e qualche ricordo: un ciuffo di capelli striato di bianco, l’eco di un “no” al magistrato di zona, il fumo della pipa davanti alla morte che incalza, tre capanne e una voce di donna: stai in gamba, figlio mio!
Ara, tira il carro, studia, e stira per il reggente e capisce che “il suo destino non è cavare oro per i bianchi, senza sapere nemmeno come si scrive il suo nome” e supera i confini di un mondo dove c’è solo una tribù e il suo popolo, e si accorge di un altro con un epicentro che è l’Africa, fatta di neri, di bianchi, di meticci, indiani, comunisti e occorrono mattoni, malta, tasselli e comincia a Forte Hare, e tra un’elezione amputata e l’espulsione, da un istituto che è Oxford, Cambridge, Harvard e Yale insieme, sceglie questa, e a Mqhekhezweni, decide la fuga da un matrimonio truccato e inizia un percorso ad ostacoli dove qualche furbizia lo stanca, ma la meta è sicura, e continua a Johannesburg, ad Alexandra, ad Orlando dove lontano dalle aule scopre un mondo che gronda; istruzione e attivismo sono gli strumenti che servono.
Nella lotta per il boicottaggio delle tariffe degli autobus e durante lo sciopero dei minatori sente che marciare col popolo è vivificante e fermarsi impossibile e se c’è da cambiare, si cambia e i minatori lo sanno: “in miniera siamo già uomini morti!”.
Ma è la campagna di disubbidienza degli indiani ad insegnare che la lotta di liberazione, non si fa con i discorsi, le risoluzioni, le delegazioni, ma con un’organizzazione capillare, con un’azione di massa militante e soprattutto col sacrificio e la sofferenza.
E quando lo eleggono nell’esecutivo, rimane impigliato alla lotta col corpo e con l’anima.
Sale sul ring da una parte c’è Malan e gli afrikaner e le leggi sull’apharteid, dall’altra indiani, africani, meticci, comunisti e la disobbedienza civile: “Ehi Malan, apri le porte della prigione, vogliamo entrare!” e Malan non le apre, ma trasforma in prigione il Sudafrica, il pugno di ferro si abbatte: l’istruzione negata, Sophiatown sventrata, gli abitanti deportati.
Ora sa che non ci sono gli inglesi di fronte, ma gli afrikaner e la disobbedienza non basta e deve imparare a rispondere al fuoco, col fuoco.
E tra i nuovi strumenti c’è un faro che dice “no” all’oppressione e trasforma l’ingiustizia in giustizia:“ La Carta della libertà”.

Giovedì, 06 Febbraio 2014
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C'ERA UNA VOLTA CONCA D'ORO
di Emilia Ricotti

Mitico treno “Conca D’Oro”, carretta dei meridionali di ieri, Ventiquattro ore da Palermo a Milano, una tratta tempestata di emigranti in su e in giù per l’Italia, “Conca D’Oro” racconta, nelle mani che “si stringono” prima della partenza, il dolore della separazione dalle radici e, in quelle che “penzolano” al rumore sordo degli sportelli serrati e al frastuono del treno sulle rotaie, l’abbandono di chi resta.
Viaggio emblematico da Palermo a Milano in una ricerca all’interno dell’uomo e della sua doppia coscienza che quando torna deplora le occasioni mancate, ma quando è là difende “a denti stretti” la sua terra, consapevole del difficile processo di adattamento che ha compiuto al prezzo di continue rivisitazioni per vincere pregiudizi, resistenze, sono questi “i bagagli che lascia e i bagagli che trova “.
Su queste rotaie confronto serrato tra generazioni, questione femminile e meridionale e ricordi, ricordi di bisogni negati, di diritti imballati, di speranze deluse, di rivoluzioni mancate che si condensano nel grido disperato di Santino, durante il suo aspro soliloquio: “Non si risparmia nulla, squali di terra in doppiopetto, tramano, cercano inciuci.
Scoppiano scandali! Tu dici è fatta, l’hanno capito, hanno finito! Neanche per sogno! Il più fesso paga, gli altri tutti a cavallo ancora! Ma non si era detto, basta! Non si era detto cosa? Tutto finito, giustizia fatta! Come, fatta così? Questa è giustizia?
Questa è legge? Mi manca l’aria, mi turo il naso, mi chiudo gli occhi, chiudo gli orecchi, quando si cambia? Qui non cambia niente! Ed io cosa faccio? Io devo stare bene, io sono stato all’angolo, non ho rubato, ho lavorato sodo, che devo fare?
Devo guardarli ridere, ingrassarsi ancora sulla mia carne e rimanere in sella?
No, mi ribolle il sangue, mi scoppia il cuore, si torce lo stomaco, sono di paglia?
Pausa lunga. No, devo restare calmo, devo pur vivere , io non ho le ostriche, non ho poltrone, solo uno sgabello basso, queste mie mani sole, (solleva il braccio, rotea le sue mani robuste e indurite quasi a scrutarle, poi incrocia le braccia, chiude gli occhi) e un desiderio solo, stare da parte senza scossoni!
Devo capire il mondo, tutto il progresso? Troppo complesso!
Io capisco questo: mondo di fango, fatto di squali, troppe speranze perse, devo azzerare il conto, loro le ostriche, io qualche briciola, se posso fregare, frego.
No, non si fa! Lo Stato è questo? Voglio giustizia, fatta di fatti, non di parole, averli davanti agli occhi, no in girotondi finti, averli senza sensali scaltri, voglio gridargli forte la truffa delle parole finte! Democrazia cos’è, dov’è? Democrazia per me? Per te! Lo vedi come mi scoppia il cuore, non te ne frega niente, nervi d’acciaio, sai che mi passa e puoi fregare meglio, scambio di sedie, scambio di parti, ma sempre parti!
Io non preoccuparti, mi metto di lato, le mani in alto.
Tranquillo, faccio i miei fatti, fatti da poco, fatti di niente, ma tu non perdere tempo, spolpa più in fretta, prima che cambia il re, poi altri inciuci!
Perché? Perché? Non ci sono perché? La vita è questa!
Io sono l’osso, tu il mastino! Sono sbagliato, io? Pausa (china le spalle)male è non farsi gli affari propri?”

Sabato, 21 Dicembre 2013
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CASA MEMORIA
di Emilia Ricotti

Una donna ed un luogo, Felicia Bartolotta e Corso Umberto a Cinisi, covo di boss e altare di martiri, perché è questo che “Casa Memoria” rappresenta, attraverso la figura di Felicia Bartolotta, moglie di boss e madre di martire, è lei una moderna Antigone che va alla ricerca della Giustizia, non quella fatta di mezze verità, di depistaggi e lei, davanti al tritolo che le uccide il figlio, ingaggia una lotta serrata, contro i boss, lo Stato malato e un paese malato; lotta che va dal 78, anno della morte di Peppino Impastato al 2000, ma la battaglia di Felicia ha radici profonde inizia tra le pareti della casa paterna e continua tra quelle della casa maritale, perché Felicia, a dispetto dell’apparenza fragile, è donna forte e ribelle , di una ribellione che edifica e trasforma una prigione, in un altare, luogo di ricongiunzione tra il figlio morto e tutti coloro che sanno battersi per la giustizia, una donna che vede mafia e antimafia scontrarsi tra le stesse pareti, che sfida “un paese morto, un paese assente” e “il suo codice rovesciato” che non è tritolo, ma uccide lo stesso e lascia la donna al suo esilio ed al suo unico spazio: la casa!

Felicia ribalta “il codice”, apre le persiane di casa e in una scatola emblematica contempla i pezzetti rimasti del figlio: stanghetta degli occhiali, strisce di tela dei pantaloni …, e quando esce: dichiara, rilascia interviste,firma esposti.

“Cartazze, cartazze” per gli altri, che si levano gli occhiali e lasciano fare ai Don Tano che senza carte bollate, senza Corte d’Appello, senza Corte D’Assise emettono “una sola sentenza”.

Felicia ribalta le regole, lei non vuole “vendetta”, vuole “Giustizia”, ventidue lunghissimi anni per ottenere “Verità”e riscattare Peppino dall’accusa di terrorismo:

Fango, sangue e calunnie
su un corpo inerte,
su una famiglia in croce,
su una madre a pezzi
che dice basta,
ingaggia una lotta lunga
davanti a tante menzogne in piedi:
carte bollate in mezzo,
processi lenti,
risposte a tratti,
trame oscure.
Ma deve spuntare il sole!
Un centro studi attento,
una famiglia sveglia,
vent’anni tetri,
ora Felicia è stanca,
ora Felicia è vecchia,
si guarda indietro,
ma ecco che spunta il sole:
dilegua calunnie e fango,
rinasce un uomo,
lei chiude gli occhi e dorme.
Non ha capito il covo,
non ha capito il boss
che il tritolo schizza nell’aria
e quando ricade a terra,
vola nel tempo
ed è anche seme.
Non ha capito il covo,
non ha capito il boss:
non si distrugge un sogno!

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