Beppe Severgnini drammaturgo e attore, solo o quasi per una questione d'età, confessa il giornalista cremasco che è con La vita è un viaggio in tournée in tutta Italia, dividendosi fra giornale, tv e saggistica.
«A cinquant'anni negli uomini scatta qualcosa e si fanno le cose più strane. Ho amici che si sono comprati una Ducati, c'è quello che fa il cretino con la stagista, c'è un altro che se ne va al pub e si sbronza come se fosse un ventenne».
E lei ha scelto il teatro come pegno da pagare alla condizione di cinquantenne?
«Mia moglie ha commentato: 'poteva essere peggio'. Avevo voglia di dire alcune cose che mi stavano a cuore, ma in modo diverso dal solito».
Anche se il titolo La vita è un viaggio richiama il suo ultimo libro?
«Ho preso spunto da alcuni miei saggi, ma non esclusivamente da questi».
Lei è in scena, oltre ad essere autore del testo. Quanto di lei c'è nel suo personaggio?
«Non sono io, ma c'è molto di me».
Quale è la vicenda di La vita è un viaggio?
«La storia è quella di un professionista cinquantenne bloccato all'aeroporto di Lisbona per uno sciopero e dell'incontro con una giovane attrice di 28 anni. I due dialogano, lui all'inizio è francamente antipatico, fa il paternalista, vorrebbe aiutarla, cerca di convincerla a non partire, ad avere fiducia nelle sue potenzialità, anche se tutto intorno le fa credere il contrario. Lei è disillusa, sta per lasciare l'Europa dove non vede il suo futuro, per andare ad aprire un bar in Brasile. Lei non lo chiama mai per nome, lui continuamente. E' il racconto di un rapporto confronto fra generazioni».
Che relazione si crea fra i due?
«La relazione che può esserci fra un padre e una figlia, la relazione che può legare un cinquantenne a una ventottenne».
Per tornare ai colpi di testa dei cinquantenni, nessuna tentazione sessuale?
«No, l'ho esclusa fin dall'inizio. Mi sembrava volgare e non funzionale».
A cosa?
«L'incontro fra i due dice molto del nostro presente, dei ragazzi che fuggono dall'Italia e dall'Europa, della nostra incapacità di mettere a frutto i loro talenti, del rapporto e dello scontro fra generazioni, della necessità che gli adulti lascino il passo ai giovani».
Qui viene fuori il giornalista e saggista?
«La vita è un viaggio è un testo che parla del nostro presente: dalla morte di Robin Williams, alla crisi economica, è impregnato di presente. Molto spesso quando vado a teatro, soprattutto in Italia, ho l'impressione di qualcosa di anacronistico, che non ci riguarda. Ho cercato di evitare questo scrivendo La vita è un viaggio».
Come mai ha scelto il teatro per questa sua 'follia' di cinquantenne?
«Perché mi dava la possibilità di un confronto diretto. E poi da boyscout ho sempre fatto teatro, il teatro nei boy scout rappresenta un mezzo di formazione ed educazione».
Nessuna paura o timore nell'andare in scena?
«No, anzi mi sto divertendo moltissimo».
Scrivere un testo teatrale non è come scrivere un saggio o un articolo. Che difficoltà ha trovato?
«Ho riscritto il testo una decina di volte, in teatro bisogna essere incisivi, diretti, essenziali e chiari, ma soprattutto ciò che scrivi deve essere detto, deve avere ritmo. E' stato un bagno di umiltà, e sappiamo bene quanto la categoria dei giornalisti e il sottoscritto siano poco umili. Mi sono messo in discussione, anche se alla fine non mi sono fatto imporre nulla. Ho chiesto correttivi, ho accettato le osservazioni, ma alla fine l'ultima parola è sempre stata la mia».
Da chi ha accettato consigli e critiche?
«Innanzitutto da Marta Isabella Rizzi che ho conosciuto a Londra. Ho scritto il testo pensando a lei. Con lei insieme alla mia famiglia e alle mie collaboratrici abbiamo lavorato in campagna da me per aggiustare il tiro. Lei è una professionista del teatro, io no e mi sono affidato a Marta».
In scena c'è anche un terzo personaggio.
«È Elisabetta Spada, in arte Kiss & Drive, l'ho conosciuta in aereo, mi ha dato un suo cd e sono restato folgorato. Elisabetta è in scena, non parla, ma canta, accompagna il confronto fra me e Marta con la sua chitarra e le sue canzoni».
Scrivere un testo è una cosa, ma recitare... come se l'è cavata con la memoria?
«L'ultima cosa che ho imparato a memoria è stata una poesia di Pascoli a scuola, s'immagini un po'. Ci ho lavorato. Mio padre di 98 anni si è divertito quest'estate a provarmi la parte, lui faceva Marta. Mi chiedeva le battute quando meno me lo aspettavo, non ci credeva che riuscissi a mandare tutto a memoria».
E il regista l'ha scelto lei?
«No, la produzione. Non conoscevo Francesco Brandi, ma ci siamo trovati bene, abbiamo lavorato in sintonia, anche ora durante le prove prima del debutto genovese. Diciamo che mi sono trovato da dilettante del teatro a lavorare con bravi professionisti e da loro ho imparato, a loro mi sono affidato».