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Domenica, 15 Settembre 2013
Pubblicato in Interviste

La danza può essere pensiero sul mondo, oltre che linguaggio del corpo e racconto di emozioni. A esserne convinto è Angelin Preljocaj, coreografo franco-albanese, classe 1957, personalità di spicco internazionale, inventore di una semantica della danza che coniuga classico e contemporaneo, che non ri-conosce generi di sorta e si declina sotto il segno universale del danzare. A ridare prova di questa profondità di linguaggio è la produzione Suivront mille ans de calme, in scena al Ponchielli di Cremona e al Teatro degli Arcimboldi di Milano, 'nuova versione' affidata ai suoi danzatori del Ballet Preljocaj, ma coreografia nata da una coproduzione con il Bolshoi di Mosca e il Ballet Preljocaj nel settembre 2010.
Da qui Angelin Preljocaj parte per raccontare la sua Apocalisse danzata, perché la coreografia ha come pre-testo lo scritto visionario di San Giovanni. E forse proprio Suivront mille ans de calme dice molto non solo dello stato dell'arte coreografica di Angelin Preljocaj, ma anche del suo modus di concepire il fare danza, il linguaggio coreografico in cui politica ed estetica si coniugano in un'etica del corpo.
«Quando nacque l'idea della coproduzione franco-russa, mi sono ritrovato a lavorare con i ballerini della mia compagnia e quelli del Bolchoi, due mondi s'incontravano con terreno comune la danza. Pensavo inizialmente di concentrarmi su qualcosa che potesse appartenere alla realtà russa e al portato artistico di quel grande teatro, ovviamente muovendomi nel contesto del legame fra Russia e Francia. Poi quando fui a Mosca capii che si poteva fare altro».
E cosa?
«Mi resi conto che i corpi dei ballerini del Bolshoi avevano di per sé storie da raccontare, era da lì che dovevo partire».

Da qui l'Apocalisse e l'attuale Suivrons mille ans de calme?
«Da qui il significato della parola Apocalisse, che nel suo valore etimologico significa sollevare il velo, mostrare cosa sta dietro, svelare il lato segreto delle cose, o meglio ciò che è nascosto dalle apparenze. Questa la prima suggestione».

C'è poi un aspetto politico in Suivront mille ans de calme, ma non solo in questo lavoro, un po' in molti sue coreografie.
«Russia e Francia sono due paesi accomunati da una rivoluzione, diversa per epoca e modalità, ma comunque accomunati da un'azione forte nei confronti dello statu quo e della volontà di svelare il vero volto del potere. E dopotutto nella visone apocalittica di San Giovanni, Babilonia altro non è che Roma e il potere imperiale che perseguitava i cristiani».

Insomma impegno politico ed estetico al tempo stesso?
«Credo che questi due aspetti si fondano nel mio lavoro, che la danza abbia una sua potenza che va comunque oltre ogni presupposto politico o disegno programmatico».

Cosa intende dire?
«Quando lavoro con i miei danzatori, ma anche con altri ballerini che si tratti del New York City Ballett oppure del Teatro Alla Scala o ancora del Bolshoi mi interessa vedere come e dove quei corpi possono andare, quali storie possano svelare. Pur avendo un progetto coreografico, il mio lavoro non può esimersi dal dialogo con i corpi e le anime che faccio muovere».

E sembra torni ancora il significato di sollevare il velo?
«E dopo tutto che cosa fa la danza se non sollevare il velo, mostrarci un altro modo di muoverci, cosa sta dietro il nostro essere nello spazio e nel tempo, che storie ci portiamo dietro nel nostro corpo?».

I riferimenti letterari dal Romeo e Giulietta a Biancaneve, da Siddharta al Funambolo di Genet ricorrono frequentemente nei suoi lavori. Come mai questo bisogno di affidarsi a storie e narrazioni?
«Come dicevo per i ballerini del Bolshoi che nel loro porsi, nel muoversi nello spazio raccontano, portano con loro le proprie esperienze, le loro storie, allo stesso modo gli spunti letterari, le narrazioni che mi è capitato di mettere in scena sono il punto di partenza di quell'altra narrazione che è la danza, una narrazione che non necessariamente si concreta in una storia con un inizio alla fine».

La danza non narra, dunque?
«La danza agisce, muove le storie, muove le emozioni, svela il nostro rapporto con lo spazio e quindi con il mondo, con l'altro da noi come con il nostro essere corpo che si muove e si narra».

Il suo linguaggio è contemporaneo, ma non nasconde ascendenze classiche o neoclassiche...
«C'è tutto questo nel mio modo di concepire la scrittura coreografica. Ma soprattutto c'è una tensione, o almeno credo».

Una tensione a cosa?
«Mi sforzo di creare una scrittura del corpo, una coreografia che sappia essere innovativa, che si iscriva sui corpi, che dia emozione, che abbia una sua urgenza nell'essere e nel proporsi. Diversamente non avrebbe senso fare il coreografo».

Cos'è la danza per lei?
«La danza, arte dell'indicibile per eccellenza, non ha solo il compito di addossare il ruolo di rivelare, ma ancor più di assolvere alla funzione di messa a nudo delle nostre paure, delle nostre angosce e delle nostre speranze».

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