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Giovedì, 10 Aprile 2014
Pubblicato in Interviste

«Sono bugie, Peer, nient'altro che bugie», esordisce Aase, madre di Peer Gynt, aprendo il grande poema scenico di Henrik Ibsen con cui ha deciso di confrontarsi Antonio Latella, avvalendosi della riscrittura drammaturgica di Linda Dalisi, spostandosi fino in Siberia per lavorare con gli attori del Teatro Staryj Dom di Novosibirsk. Peer Gynt torna in scena il 13 aprile e 4 maggio prossimi nella lontana Siberia in attesa che – si sta lavorando in questa direzione – lo spettacolo possa prima o poi approdare in Italia, si tratta di una coproduzione fra il teatro russo e la compagnia di Antonio Latella, Stabilemobile, un bell'esempio di imprenditoria teatrale che non rinuncia alla vertigine dell'arte pur proponendosi sul mercato teatrale, ormai non solo quello dei festival o della ricerca ma con atto politico anche nelle stagioni più tradizionali. Anche questo aspetto fa della politica estetica di Antonio Latella e della sua compagnia stabile nell'idea di perseguire il teatro d'arte, ma mobile nei territori da esperire sia linguisticamente che geograficamente. Peer Gynt segna la conclusione della Tetralogia sulla Menzogna che si è composta di A.H. performance legata alla figura di Adolf Hitler, prodotta da stabile mobile e da Centrale Fies, Le Benevole nell'adattamento di Federico Bellini del romanzo di Jonathan Littel, prodotto da Schauspielhaus Wien in collaborazione con Stabilemobile, e Il servitore di due padroni su drammaturgia di Ken Ponzio, prodotto da Ert, Stabile del Veneto e Metastasio, che nella stagione che volge al termine molto ha fatto discutere, ma senza dubbio ha proposto un modo intelligente ed esteticamente spiazzante di leggere testi come quello goldoniano, imbalsamati dalla tradizione. Detto questo Peer Gynt chiude un viaggio alla ricerca della verità che si nasconde dietro la menzogna, o come afferma ancora Aase nelle scene iniziali di Peer Gynt: «capita qualche volta che dietro tante frange, dietro un bel paravento, si nasconda una bugia. Ed è celata così bene, allora, che è quasi impossibile trarne la scarna verità». Quella verità che Peer Gynt va cercando partendo da se stesso, «di rinvio in rinvio, cercando di esorcizzare la sua sorte di annichilimento», scrive Franco Perrelli in una fuga continua che è continua e suprema perdita, ma anche inafferrabilità di un testo e personaggio che affascina e rappresenta uno dei topoi della letteratura e cultura occidentali. In attesa di poter vedere anche in Italia Peer Gynt, Antono Latella spiega in esclusiva per Sipario le motivazioni di una produzione così particolare, il di più di quegli attori siberiani con cui ha trovato un feeling unico, e non da ultimo il respiro internazionale, europeo del suo fare teatro in cui i confini non esistono, in cui la differenze delle culture e sensibilità estetiche è risorsa unica per un'arte e un teatro europei.

Inevitabile chiedere il perché di Peer Gynt di Ibsen, testo complesso e irrappresentabile?
«È un testo che ho letto per anni, un testo che si è evoluto con il susseguirsi dei compleanni; da giovane pensavo che fosse una favola poi ho cominciato a pensare che fosse un testo filosofico,poi una commedia umana ed è incredibile come ad ogni rilettura è diventato qualcosa di completamente diverso».

E' questo il fascino del testo ibseniano?
«Sembra metterti davanti al tuo girovagare nel mondo e ad ogni crocicchio ti fa vedere a che punto sei arrivato.La potenza della scrittura di Ibsen, che non voleva che questo testo si rappresentasse, cambia continuamente linguaggio come se nell'evoluzione della lingua ci fosse il vero viaggiare.Mi sembra giusto chiudere con questo lavoro il percorso fatto con Stabilemobile sulla menzogna, è il testo che racchiude e comprende meglio la vera discussione su questa tematica».

Che scrittura drammaturgica e attoriale hai messo in atto rispetto al poema fiume ibseniano?
«È stato fondamentale in questa lunga attesa trovare Peer Gynt, l'ho aspettato per anni e l'ho trovato lontano e dall'Europa. A meno quaranta gradi, nella Russia siberiana che non è e non sarà mai Mosca, l'ho trovato in un talento puro, potente, naturale. Un talento che cerca come Peer di fuggire da se per continuare a fantasticare, si chiama Anatoly Grigoriev. Ovviamente l'adattamento è stato fatto pensando a lui con Linda Dalisi».

Come hai operato con Dalisi?
«Mi interessava un lavoro che eliminasse il fantastico, facendo di Peer ragazzo un corpo mappamondo. Tutto sta nella sua testa, tutto esiste perché lui può farlo esistere, tutto c'è fino a quando possiamo porci la domanda: conosci te stesso? Siamo davanti ad un'opera impossibile da mettere in scena per la quantità incredibile di azioni e situazioni, non è possibile riuscire in uno spettacoloa centrare tutti gli obiettivi proposti dallo stesso Ibsen, quindi abbiamo scelto di riscrivere il quarto atto, quello che resta più estraneo per la differenza dei luoghi e per il cambiamento radicale del linguaggio. Peer dopo la morte della madre non può più abitare i luoghi della fantasia, non sa più trasformare un fiammifero in un albero;si affaccia al '900, prega solo per l´accumulo del capitale, quindi in questa Russia che vuole essere Occidente abbiamo pensato che era importante, vedendo l'Egitto del quarto atto come metafora del capitale attraverso la sfinge, trovare una lingua molto violenta,senza metafore, chirurgicamente spietata nel vivisezionare il corpo e la mente umana. Una lingua senza emozione,lontana dal romanticismo ottocentesco per poi riconsegnare nell´ultimo atto Peer alla tradizione della memoria,facendolo ritornare a morire tra le braccia di quella Solveig forse mai esistita,tra le braccia di quella madre fantasma, forse unica donna amata. Tornare ad essere poema».

In che modo Peer Gynt si inserisce nel lavoro dedicato alla menzogna?
«È il punto di arrivo, abbiamo attraverso la menzogna orrenda ed ingannatrice del Novecento in A.H e ne Le benevole, abbiamo affrontato la menzogna del primo servitore della commedia goldoniana capendo che forse la menzogna aveva bisogno di ritrovare un tentativo di verità nel nostro stare al servizio sempre e solo del teatro. Peer Gynt è il testo della letteratura teatrale che sceglie un protagonista che dice fandonie, ma forse le sue fandonie sono la capacità di rendere sopportabile il dolore dello stare al mondo senza sapere perché siamo chiamati a questa prova enorme del vivere».

Che rapporti tematici ed estetici ci sono con gli allestimenti dell'Arlecchino, Le Benevole e A. H.?
«L'impossibilità di vivere il palco soltanto come luogo della rappresentazione ma accettarne la scommessa della creazione; è lì che noi teatranti siamo chiamati a creare la più nobile menzogna che possa dare verità agli spettatori. In tutti e quattro i lavori abbiamo cercato di stare dietro la maschera, che sia un baffetto, una maschera a forma di gatto, che sia un sorriso stampato o un bicchiere di troppo. Eliminare la cartapesta per restituire al palco la sola forza creatrice e in quel nulla che è vero creatore, immergere i corpi degli attori che affrontano la sfida dell'essere vettori attraversati dalla memoria e dal presente».

Le Benevole ha avuto una genesi in Austria, Arlecchino e A. H. in Italia, Peer Gynt in Siberia... Cosa vuol dire lavorare con attori di diversa nazionalità e formazione, come muta la relazione che si instaura fra regista e interpreti?
«Essere lì solo per loro, essere lì senza distrazioni,essere nei loro corpi e nelle loro parole e nei loro gesti, annullarsi per farsi abbracciare dalle differenti culture, dalle differenti esigenze del fare teatro. Gli attori sono totalmente diversi da paese a paese, da nazione a nazione, da continente a continente soprattutto per come si sentono politicamente rappresentati come attori e come cittadini».

E un regista come deve comportarsi di fronte a tanta variabilità?
«Un regista deve accettare di dimenticarsi di se stesso, solo cosi può essere pronto a cogliere l'attimo che in alcuni casi si lascia attendere giorni e giorni e in altri casi arriva subito già nelle prime ore. Tutto sta ad afferrarlo e per esserne capaci bisogna provare a diventare cittadino e non solo ospite delle case e dei teatri stranieri che ti chiamano a dirigere delle storie. Credo che questo sia il lavoro che spetta ad un regista che si divide tra più attori e quindi tra più storie di vita. Ancora più difficile è accettare la sconfitta dell'attimo che forse non arriverà; in quel caso la regia deve sapere riempirne l'assenza ritornando ad abitare i perché che ti hanno spinto a stare lontano dal tuo paese».

Cosa hai trovato negli attori siberiani? Che differenza c'è a lavorare con loro?
«Il concetto di carriera è lontano anni luce da quello occidentale, loro hanno ancora il coraggio di parlare di anima,fanno teatro per nutrire la loro anima, che tra noi occidentali rischia di diventare una parolaccia, fanno teatro per vocazione, per scelta di vita e guadagnano pochissimo. Hanno ancora il coraggio di parlare di poesia e di gesto poetico e rendono credibile qualsiasi astrazione registica e concettuale per la loro grande umanità. Lavorare con loro vuol dire amarli totalmente senza tirarsi indietro, non ci si può risparmiare. Loro ti danno tutto quello che possono dartie non hanno paura di distruggersi dalla fatica. La pedagogia diventa la possibilità di portarli lontano dal loro impeccabile realismo e metterli davanti a nuovi mondi linguistici, forse scontati qui da noi ma valorizzati da loro grazie all'enorme adesione e al loro altissimo livello tecnico».

Se Peer Gynt, Le Benevole, A. H. e Arlecchino si legano, o rappresentano un unico discorso sulla menzogna e il teatro, produzioni così distanti e spettacoli così lontani non rischiano di far perdere l'unitarietà del discorso?
«No perché io ne sono testimone assieme a tutti i collaboratori della mia compagnia. Cerchiamo di evolvere senza ripeterci e questo aiuta ad affinare il senso della ricerca che è stato il primo motivo che ha fatto nascere Stabilemobile: il bisogno di un movimento che riempia l'unica stabilità che ha un senso, la libertà creativa».

Credi che ci siano possibilità di vedere i lavori in Italia?
«Credo che sia importante crearla, non per una questione di visibilità legata al mio lavoro,ma per gli attori che vi assicuro vale la pena di applaudire».
La sfida è lanciata, ora non resta che ai teatri italiani la possibilità di coglierla e magari immaginare una tournée di Peer Gynt nell'Italia che fu in parte complice nella genesi del grande testo ibseniano...

PEER GYNT
di Henrik Ibsen
regia Antonio Latella
drammaturga Linda Dalisi
con Anatoly Grigoriev, Sergey Drozdov, Vitaly Sajanok, Larisa Chernobaeva, Anastasia Panina,
Svetlana Marchenko, Evgeny Petrochenko, Valentina Voroshilova,
Olesja Kuzbar, Irina Popova, Jana Balutina, Timofey Mamlin

scene e costumi Graziella Pepe
movimenti Francesco Manetti
luci Valeriy Klimov
suono Aleksandra Kirshina
interprete Liana Vinikurova
assistente alla regia Anna Zinovieva
production Brunella Giolivo
management Michele Mele
produzione Staryj Dom - Novosibirsk, stabilemobile compagnia Antonio Latella

Sabato, 01 Febbraio 2014
Pubblicato in Interviste

Al debutto il pubblico di abbonati del Goldoni ha lasciato la sala e ciò è bastato per fare de Il servitore dei due padroni da Carlo Goldoni per la regia di Antonio Latella un caso. Direttori dei teatri allarmati, preoccupati per la reazione del loro pubblico e uno spettacolo difficile, ma coraggioso stanno caratterizzando questa stagione teatrale. Certo Antonio Latella nel momento in cui ha deciso di affrontare il testo di Goldoni consacrato dall'allestimento di Giorgio Strehler sapeva che avrebbe giocato col fuoco e forse per questo lo ha fatto, per giocare col fuoco, accendere l'incendio, aprire la strada alla possibilità di fare del teatro contemporaneo non un vezzo, non un lusso, ma una costante. Non a caso la drammaturgia dello spettacolo è firmata da Ken Ponzio, come dire: l'avviso ai naviganti è che ci si trova al cospetto de Servitore di due padroni di Latella e Ponzio, liberamente tratto da Goldoni. «Le parole sono importanti, hanno un peso», ripetono più volte gli attori in scena. Peccato che forse a causa delle polemiche che stanno accompagnando il Servitore – spettacolo fra l'altro cresciuto, che sta maturando viepiù grazie a un gruppo di attori che lo sta facendo proprio con rara passione e prezioso senso di responsabilità etico ed estetico – con ogni probabilità lo spettacolo – prodotto fra l'altro da Ert e sostenuto con intelligenza e sensibilità dal suo direttore Pietro Valenti – non verrà ripreso la prossima stagione. Nella speranza si possa ovviare a ciò nel nome del teatro d'arte e di un allestimento che sa essere un atto di grande amore per il teatro, non si può che consigliare di non perdersi Il servitore di due padroni. Di fronte ad un pubblico disorientato – spesso –, a un rifiuto aprioristico – meno spesso – e ad una coerenza di ricerca che Latella dimostra di possedere, più che dire dello spettacolo in sé vale la pena – ad uso e consumo di chi Il servitore di due padroni l'ha visto o lo vedrà – chiedere al regista, attualmente impegnato in Siberia nella messinscena di Peer Gynt di Ibsen il perché abbia sentito l'esigenza di farsi riscrivere il testo goldoniano...
«Riscrivere per dare un segno autoriale è stata sempre una mia esigenza, in tutti i lavori che ho fatto, è una necessità che spesso viene dalla voglia di confrontarmi con l'autore scelto. La riscrittura del Servitore è nata per cercare attraverso gesti e linguaggi contemporanei, di innescare quel meccanismo di incontro-scontro che avveniva nella commedia dell'arte, prima che Goldoni ne facesse scrittura scenica; anche quella a suo tempo era una riscrittura, potente ed innovativa. Ovviamente se riscrivi ti esponi a grandi rischi, ma credo che esporsi e prendere posizione su un testo e un autore sia un dovere».

Cosa l'ha convinta della drammaturgia di Ken Porzio?
«La sua essenza, è come se avesse riportato la parola all'osso, togliendo tutti i ghirigori, gli orpelli che abbelliscono e nascondono il detto e il non detto. Quello che alcuni possono scambiare come superficiale io trovo che sia profondissimo, quasi una critica spietata alla nostra società e perché no anche al nostro teatro. Ken Ponzio non ha paura, non si nasconde, ha preso dei rischi perché se provi a rimettere in scena un testo così lontano da noi, a mio avviso lo devi fare fino in fondo. Ho letto ultimamente che la potenza dei registi sta nel riuscire a mettere i testi in scena senza riscriverli, nel trovare una tensione che unisca tradizione e contemporaneità. Credo che questo valga soprattutto per i testi del '900, ovviamente nelle scelte che ho fatto con autori del novecento ho sempre preferito testi che scardinavano già la scrittura borghese di un certo teatro; credo che Ken Ponzio si rifaccia a questi autori che hanno totalmente rivisto la scrittura per il teatro nella seconda metà del secolo scorso».

Cosa l'ha spinta ad affrontare Il servitore di due padroni che è in un certo qual modo il simbolo del teatro italiano?
«La menzogna di quel testo, la menzogna del non detto, la menzogna della verità dietro le maschere, la menzogna della cartapesta che crea finte stanze che non saranno mai, la menzogna di un Arlecchino che nell'originale si chiama Truffaldino, la menzogna del dolore camuffato in risata, la menzogna dell'amore come mercificazione dei sentimenti e la menzogna di quello che all'estero vogliono continuare a vedere di noi cioè pizza, Arlecchino, Pulcinella e mandolino».
Non appena ha annunciato questa sua nuova produzione l'impressione è stata quella di una sfida aperta all'Arlecchino strehleriano.
«Questa è stata la più grande sciocchezza che alcuni operatori hanno voluto leggere. La trilogia della villeggiatura l'ho fatta all'estero proprio perché anche quella avrebbe causato confronti con maestri del Novecento, ma noi non siamo Novecento, siamo il ponte tra i due secoli e abbiamo il dovere di prendere la tradizione per rilanciarci e cercare nuove possibilità, anche nell'errore che è necessario se si vuole veramente cercare e non affermare il proprio bisogno di fare regia. Questa è la lezione di un maestro come Strehler: continuare a studiare la regia, non fare regia e basta».

Come si spiega le reazioni alle prime repliche al suo Arlecchino contemporaneo?
«Condivisibili, giuste. Il pubblico va ascoltato nel bene e nel male. Se il pubblico sente che viene preso in giro è giusto che protesti ma alcune volte il pubblico dorme e alla fine applaude; cos'è meglio? Io preferisco la protesta, anche questo è un dovere, ricreare una discussione è necessario. Sinceramente credo che il pubblico vada accompagnato a leggere nuovi linguaggi, purtroppo molti operatori preferiscono che la ricerca venga fatta solo nell'off o nei festival, questo causerà la morte di coloro che ancora sentono questa spinta, questa voglia di andare oltre il già detto; ovviamente questa non è la regola».

Chi è Arlecchino per Antonio Latella?
«Arlecchino sono tutti coloro che si mettono al servizio di un solo padrone: il teatro, per fare questo devono saper servire sia il padre padrone che è la tradizione, sia il nuovo padroncino che è il contemporaneo. Preferirei che non si servisse il figlio del padre padrone che è il moderno. Se ogni tanto alzando la testa in teatro ci ricordassimo che quella striscia di velluto sopra i due grandi lembi si chiama arlecchino, forse impareremo ad essere servi e finalmente a servire, senza toppe 'pippe'».

Oggi che senso ha un testo come quello del Servitore dei due padroni?
«Una delle parole più presenti nel testo di Goldoni è 'morto', da quella ci può essere una resurrezione, o forse una rinascita. Distruggere per ritornare alle parole di Goldoni o forse per arrivare al prossimo spettacolo».

In cosa l'ha ritenuto valido?
«Ogni colore dell'abito di Arlecchino è una storia, è un attore, è un'idea di teatro, è una possibilità, un punto di vista. Il demone ha cucito i colori e ne ha fatto un vestito. Quanto non detto c'è in Goldoni che si potrebbe dire cambiando la prospettiva, senza annacquare i colori, ma tenendoli sempre come primari».

Si ha l'impressione che questo Servitore di due padroni rappresenti una sorta di spettacolo etico, politico sulla semantica del teatro. È una giustificazione che trova chi apprezza il suo lavoro?
«Non lo so, mi piacerebbe che il prossimo regista che metterà in scena Arlecchino, tra altri cinquant'anni, sia finalmente libero di farne quello che vuole. Mi piace pensare che questo mio lavoro sia un ponte, necessario a quelli che verranno. Io non faccio teatro politico, ma faccio politica perché faccio teatro, anche qui il punto di vista cambia e non è un dettaglio».
E' inscindibile la cesura fra la contemporaneità e la tradizione?
«Io Sono la mia tradizione ed è per questo che sono contemporaneo. Io ci sono perché ci sono stati un padre e un nonno, che vanno amati e alcune volte traditi. È come nella tragedia greca: si uccide sapendo chi si sta uccidendo e perché. Non sempre l'uomo contemporaneo ha saputo uccidere i padri, prima di farlo li devi conoscere».

Che consigli darebbe agli spettatori che vengono a vedere il suo Servitore? Quali possono essere un buon motivo per vederlo e un aspetto a cui far attenzione per capire l'operazione?
«Accettare di essere uno dei tanti ospiti di quell'immenso albergo che è il teatro, accettare anche solo schegge di storia e lasciare che questa non storia si costruisca da se, dall'angolatura che si vuole, come guardare da uno spioncino: vedo un dettaglio e da lì parte la mia idea di ciò che ho visto. È più facile di quello che si pensa solo che bisogna lavorare un po', so anche che il teatro per molti resterà intrattenimento e anche questo credo che sia giusto»

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