giovedì, 28 marzo, 2024
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AUTUNNO ALLA ROYAL OPERA HOUSE DI LONDRA E AL NATIONAL THEATRE. -di Grazia Pulvirenti

Danielle de Niese (Musetta) in "La boheme" al Royal Opera House, Londra. Foto Marc Brenner Danielle de Niese (Musetta) in "La boheme" al Royal Opera House, Londra. Foto Marc Brenner

L’esperienza teatrale a Londra non è solo soverchiante in termini di offerta – oltre i palcoscenici principali, una miriade di teatri privati, una esorbitante presenza di musical – ma soprattutto in termini qualitativi. Qui viene meno l’orrida impasse del dibattito italiano tra la regia di tradizione e quella presuntamente sperimentale e innovativa che, a parte poche eccezioni, non fa altro che proporci quanto in Europa era avanguardia nei lontani anni Settanta, o quanto si ammanta di nuovo strabordando in effetti tecnologici e linguaggi da video-game. A Londra la regia è mestiere, esperienza di una progettualità che realmente guarda al futuro, senza tradire l’intelligenza e la consequenzialità dell’idea interpretativa. E la recitazione, che in Italia è scaduta nei toni insopportabili della fiction di casa nostra, è sempre eccellente, curata, frutto di scuola e tecnica.

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Juan Diego Flórez (RODOLFO) e Ailyn Pérez (MIMÌ) in La boheme, Royal Opera House, Londra. Foto Marc Brenner.

Due spettacoli hanno caratterizzato questi primi mesi della nuova stagione della Royal Opera House: un impareggiabile “Aida” diretta in maniera magistrale da Sir Antonio Pappano (l’appellativo di Sir qui è molto significativo) e una “Bohéme”, il cui ruolo principale maschile è interpretato da Juan Diego Florez, che da alcuni anni ha spostato il baricentro del suo repertorio dal belcanto rossiniano a quello ottocentesco. Incominciamo con “Aida”, uno spettacolo a dir poco perfetto tanto nella resa musicale che registica. Quest’ultima, affidata a Robert Carsen, ci sorprende per l’abilità dell’intero impianto e dell’idea di base: niente kitsch esotizzante, niente parete e marce di trionfo, niente Egitto declinato nel linguaggio arcinoto della tradizione. L’ambiente, suggestivamente creato anche con le scene di Miriam Beuther – un immenso bunker che a seconda delle scene propone spazi di apologia del tiranno e di prigionia in luoghi pieni di armi letali – è quello da regime totalitario, con un superamento dell’antinomia fra buoni e cattivi, e con l’esplicita e insistita condanna della guerra e dell’assurdità delle morti che provoca. Sembra proporci una riflessione sul terribile conflitto in corso, ma si tratta di una intuizione, visto che la regia fu concepita nel 2018 durante la pandemia e poi rimandata. Citiamo una scena per tutte per far capire la portata innovativa e presaga di visioni futuristiche: la celebre marcia trionfale del secondo atto vede l’intervento di un corpo di ballo costituito da soldati, nella riuscita coreografia di Rebecca Howell, che organizza i movimenti intorno a delle bare che sostituiscono il clima trionfale in un tragico epicedio sulla morte di innumerevoli uomini che rimarranno solo cifre. La climax raggiunta nell’omaggio al tiranno, nella evidenziazione della sottomissione femminile inscenata dalle artiste del coro, nella tragicità con cui i movimenti disperati dei ballerini vengono riassunti in un clima di esplosioni e bombardamenti. I costumi non sono belli – come potrebbero esserlo – ma efficaci nei toni cachi delle divise militari e nel voluto rientrare in una astratta cifra che non imita uno stile preciso, ma assolutizza la natura dittatoriale dell’ambientazione scelta. 

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La boheme, Royal Opera House, Londra. Foto Marc Brenner.

La direzione di Pappano raggiunge vertici di sublimità, tanto nella scelta dei tempi, quanto dei colori orchestrali, che della dinamica fra pianissimi e forti. Il coro risponde al direttore con sapienza e interpretazione accurata. Se piuttosto debole, soprattutto all’inizio, sembra l’Amneris di Agnieszka Rehli, Elena Stikhina nel ruolo del titolo si impone per l’intensità dell’interpretazione e la dialettica interna sottesa alla dimensione emotiva del personaggio. Trionfano il colore e la qualità della voce di Francesco Meli che è un Radames molto intimo e psicologicamente affranto dai suoi tormenti. Ottimo Ramfis interpretato da Solom Howard.
Non altrettanto bene si può dire della resa musicale della “Bohéme” diretta da Kevin John Edusei, che manca di verve e vigore, rallentando spesso i tempi, e cercando colorature drammatiche anche in quelle parti che richiederebbero brio e smalti luminescenti. Né particolarmente riuscita è la regia di Richard Jones, con le scene di Stewart Laing e le ottime luci di Mimi Jordan Sherin, che sono il punto forte dell’allestimento. Le scene sono mobili, si compongono e scompongono a vista, con effetti a volte efficaci, come all’inizio del secondo quadro, in cui dal nero vuoto della fine del quadro precedente esplodono i colori vibranti di un variopinto Caffè Momus, fin troppo elegante e pretenzioso per essere coerente con le altre scene. Manca, però, una conduzione delle masse, sempre accalcate in proscenio, che ricolmi di vita brulicante lo spazio. Anche i solisti cantano per lo più in proscenio, ma dall’estetica registica non si evince il motivo di questa scelta.
La recita del debutto era popolata dagli innumerevoli fan di Juan Diego Florez, che si esibisce nel ruolo di Rodolfo senza infamia, ma anche senza particolare lode: tecnica e sapienza di fraseggio sono indiscutibili, ma gli manca il vigore e la tempra che il ruolo richiede. Quindi ancora una volta conferma che la scelta del nuovo repertorio non giovi più di tanto alla sua voce. Accanto a lui neanche la Mimì di Alyn Pérez risulta convincente, troppo flebile e senza forza nel registro drammatico. Ottimi i comprimari, dalla Musetta, volutamente volgarotta e bizzosa di Danielle De Niese, allo Schaunard effervescente di Ross Ramgobin, all’intenso Colline di Michael Mofidian, che dona con l’interpretazione della sua aria un momento di grande intensità alla scena finale.
Se nella “Bohéme” nevica quasi sempre, nel “Crogiuolo” di Arthur Miller piove a punteggiare gli scarti drammatici fra le varie scene. La pioggia cade come a marcare il disagio crescente in cui il testo trasporta. L’idea è molto ben resa nella scena di Es Devlin, molto ben illuminata da Tim Lutkin, e viene adoperata dal regista Lindsey Turner, a rendere l’inevitabilità del male che fa marcire a poco a poco tutta la comunità, prigioniera dalla cortina di pioggia. Un testo molto attuale, interpretato con grandissima intensità in primo luogo dal protagonista, cui dà voce David Ahmad, come pure da tutti gli innumerevoli altri membri dell’ensemble che costituiscono un cast davvero omogeneo e di estrema bravura. Mai come oggi la riflessione sulla giustizia, sulla collusione col potere per propri vantaggi personali, sulla isteria di massa, risulta attuale e necessaria.

Ultima modifica il Lunedì, 31 Ottobre 2022 22:42

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