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William SHAKESPEARE - Antonio e Cleopatra

con Renzo Ricci e Eva Magni
Corriere Lombardo, 14 gennaio 1952

Voi già sapete come stanno le cose. Mentre quello sconsiderato fracassone di Antonio faceva la bella vita in Egitto, quel furbo ipocrita del claudicante Ottaviano Augusto faceva l'impero romano a proprio uso e consumo a Roma. Ciò che accade nella smisurata tragedia di Antonio e Cleopatradell'enorme Shakespeare, presa di mira sabato sera da Renzo Ricci all'Odeon, non è altro che un continuo viaggio di andata e ritorno sulla linea Alessandria-Roma, a velocità vertiginosa. Per esempio, Antonio, senza nessun pudore per i suoi cinquantatré anni, allunga un pizzicotto a Cleopatra all'ombra di una piramide? Ottaviano, immediatamente informato, ne approfitta per far carriera e dice pubblicamente in Senato che il suo socio è un maiale. La quarantenne regina di Egitto sfoga il nervoso dell'incipiente menopausa facendo una scenata al suo amante? Lo zoppo maledetto si precipita in cerca di quel petulante di Mecenate per raccontargli che è una baldracca e così non si può più andare avanti. Insomma, mentre da una parte non si perde un'occasione per mangiare, bere, andare a letto e stare allegri, da quell'altra parte non si trascura nulla per fare dell'imperialismo e preparare la solita guerra per guarire dal mal d'Africa abbastanza ben conosciuto anche dai nostri bravi federali. Fin che, dèi oggi e dèi domani, l'uno marciando a precipizio a testa in giù verso la propria rovina, l'altro ascendendo astutamente col sole in fronte l'erta della propria fortuna, una bella mattina, da una parte e dall'altra, i postini portarono in giro le cartoline precetto e l'impero romano, come ognun sa, fu cosa fatta.

Dicono che l'impero romano sia stato un fenomeno straordinario. E può benissimo darsi. Non entro in merito. Di tali questioni non ho mai capito nulla e mi trovo benissimo così. Personalmente, trovo invece assai più straordinario che quel tremendo e demoniaco maneggiatore di parole di Shakespeare, aiutandosi con l'insostituibile Plutarco e cacciando le mani in modo abbastanza maldestro, farraginoso e disordinato in questa storia di beghe, di battaglie, di ammazzamenti cruenti, di suicidi eroici e di bollettini militari, con una tecnica semplicistica paragonabile a una specie di sensazionale giornalismo fra di informazione e di scandalo, da tempo di guerra, alternante indifferentemente la corrispondenza politica alla cronaca nera, sia riuscito a raggiungere tale grandiosa e sinfonica sintesi proiettata in un'ideale e unitaria visione storica dilatata in epico canto.

E questo sarebbe ancora niente. Più straordinario ancora risulta che, inserendo in codesta infuocata e clangorosa materia due protagonisti – tutto considerato poco raccomandabili, scarsamente simpatici, sentimentalmente insinceri, moralmente squalificati, politicamente ambigui, umanamente egoisti, sopraffattori e sospetti in ogni senso; e ciò che è più grave, l'una di quarant'anni e l'altro di cinquantatré; senza nascondere uno solo dei loro difetti e uno solo dei loro anni, anzi mettendoli bene in vista a tutti senza pudore alcuno – sia poi riuscito a trarne tale sublime poema d'amore come nessun altro. Perfino quello che rimane la prova del nove di questo genere di esercizi, voglio dire lo stellare idillio di Romeo e Giulietta, risulta breve e meschino, ad ogni modo, senza confronto, più semplice e limitato, al paragone del tempestoso e tragico uragano che tuona ed infuria nell'urto tremendo di amore, di sensualità e di morte dei due storici zitelloni.

Tranne la purezza e l'onestà, unico patrimonio dei giovinetti veronesi, quei due posseggono tutto. Essi sono prospettati nella pienezza di una sconfinata realtà umana, accettata in tutta la sua grandezza e in tutta la sua miseria e non è detto che la seconda sia minore della prima. Di qui deriva la insolita complessità dei motivi ideali e delle sollecitazioni pratiche del loro frenetico operare: la densità, la mobilità, il trasformismo e la contraddittorietà degli spessori psicologici; la sonorità dell'esaltazione, la profondità del dolore; la rovente sensualità, il pesante carico della colpa, la consapevolezza di una irreperabilità volontariamente accettata eppure forsennatamente combattuta oltre la ragione e oltre la speranza. E' un amore vergognoso e sublime, infame e celestiale, effetto di una libera scelta e, insieme, di una fatale condanna, la trasfigurazione delle anime crocefisse alla servitù dei sensi: una beatitudine nella maledizione, nell'onta e nella rovina della volontà, della coscienza, dell'onore e di tutto.

Ciononostante, inimicizia e tradimento sono pronti all'agguato nei cuori formando un cospicuo ed illustre scempio di ambivalenza fra amore e odio che potrebbe costituire la delizia di uno psicanalista. Il vulcanico tributo, carico di complesso di colpa, combattuto fra la passione e l'ambizione, crede di potersi strappare alla sinistra malia che sfibra la sua persistente sete di gloria e trova la forza di correre a Roma e perfino di architettare un matrimonio politico con la sorella di Ottaviano. Ma che vale? Il ritorno fra le braccia di Cleopatra indimenticabile sarà anche più voluttuoso, imbevuto di un'angoscia fonda e amara. E, al contrario, la funesta basilissa che pure si convelle e urla e s'imbestia nella morsa di una spasimante gelosia, rammemorando con epica indecenza l'impura divinità del suo sconfinato amore è pronta a tradirlo e a lasciarlo solo, ad Anzio, quando le sorti della battaglia volgono contro di lui; e si deciderà al suicidio dopo di lui; e sarà capace di morire, sovranamente donna e regina non forse per lui soltanto, ma anche, e più, per l'eroica viltà di non dovere apparire in catene dietro al carro del vincitore col quale ha tentato di mercanteggiare: enigmatica morte che cela il mistero di un'amante disperata e di una diplomatica intrigante.

Contrariamente al Cesare e Cleopatra di Shaw dell'altra sera, qui la figura più nuova e sfuggente e complessa, vera, di una sconvolgente modernità è quella di Cleopatra: anima abissale ove convergono le qualità più diverse e contraddittorie di un essere demoniaco, impastato di generosità e di calcolo, di sincerità sfrontata e di finzione felina, di sensualità divorante e di frigida cerebralità, di raffinatezza volgare e di volgarità raffinata: essere palpitante, inafferrabile e inconoscibile.

E poi la sorprendente novità del tessuto verbale della tragedia: il colorato, sensuale, caldo, opulente arazzo morbido e sontuoso di questo Egitto inventato, percorso e dominato da ermetiche magie; l'aura notturna misteriosa e funesta di una estenuante voluttuosità, onde risulta immerso il plastico realismo signorescamente plebeo degli altri e non meno stupendi personaggi secondari: Augusto, Enobarbo, Pompeo, Lepido, i quali si ergono statuari nella tragedia, circonfusi dalla favolosa ebrietà orientale e dal gigantismo immaginifico di un pesante e trionfale clima rinascimentale alla Rubens, sovraccarico, aulente, vagamente sfatto e perverso, sul quale potrebbe affacciarsi Baudelaire – e più ancora il Flaubert della Salambo -- e dal quale Gabriele d'Annunzio potrebbe trarre – o aver tratto; ma sì, aver tratto – i sogni dei suoi tramonti d'autunno, le morti sui cuscini imbottiti di petali di rose e tutte le bizantinerie di buona e non rimpianta memoria.

Renzo Ricci di cui non si loderà abbastanza l'ardimento e l'impegno d'aver affidato a una privata compagnia di giro un cimento come quello da lui affrontato quest'anno, ha composto registicamente uno spettacolo, forse, a mio gusto un po' troppo pomposo, ostentato e macchinoso, ma di una grande e pittoresca e preziosa evidenza teatrale, che onora le nostre scene, concertando e movimentando più di quaranta attori nelle scene e nei costumi – particolarmente belli, raffinati, ricchi ed eleganti quelli di Cleopatra – di Veniero Colasanti, e ritmando movimenti e raccordi scenici con le originali musiche di Fiorenzo Carpi puntualmente presente.

Come Antonio – Ricci non Carpi – egli è stato poi di un'aitante e magnanima concitazione, che se, talvolta, ha un po' indulto alla tentazione della canora e sensuale suggestione, nell'impeto della passione, nella dignità dell'onore ferito e nella tristezza della morte riparatrice ha trovato le parole di una commossa e virile eloquenza da vinto eroe preromantico. Cavalleria e non soltanto cavalleria suggerirebbe di nominare per prima Eva Magni, la cui sottile intelligenza anziché sopraffatta è riuscita stimolata dalla schiacciante potenza del personaggio col quale ebbe a cimentarsi fra noi soltanto Eleonora Duse, per sollecitazione di Arrigo Boito, quando oltre alle carezze aveva cari anche i consigli dell'autore del Mefistofele. Essa ha valorosamente superato il vertice lirico e patetico della tragedia nella divina interminabile scena della morte, recitata con dimessa regalità, nobile passione e semplice intensità di accenti e di atteggiamenti.

Giulio Oppi nella armatura del fido Enobarbo è stato di una bella, rude, umana e austera verità affettuosamente burbera. Un'eccellente conferma delle sue ottime promesse ha dato il giovane Gazzolo per la netta, incisiva, e cristallina autorità conferita ad Ottaviano e tutta appoggiata al valore della parola, secondo l'insegnamento appreso alla radio sotto la guida di Enzo Ferrieri. Degli altri celebri romani in lizza, il Gavero è stato un Pompeo di vibrato, soldatesco e forte rilievo, il Galavotti un Lepido insinuante e preciso. Il Lepsky chiaro e gentile, l'Alberici spontaneo, il Benni e il Caiati incisivi e sensibili; la Valente, la Sala, la Bartolucci brave ed eleganti, l'ieratico Picchi, il Brivio, il Dell'Arti, il Mariani, il Caporali, il Potron, il Sanmartini e tutti gli altri, romani o egizi che fossero, hanno, come direbbe Shaw, portato ognuno la propria pietruzza alla storia, recitando con diligenza e mettendosi a nudo gambe, braccia e altre parti del corpo con lodevole abnegazione. Ciò che, trattandosi di un dodici gennaio, costituisce un merito che non va disconosciuto.

Carlo Terron

Ultima modifica il Martedì, 09 Dicembre 2014 00:22
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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