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Giuseppe MAFFIOLI - Il prete rosso

Corriere Lombardo, 15 febbraio 1962

Cos’è stato, creature, ieri sera, Cesco Baseggio! Andate a sentirlo. Sarà merito della pista del Sant’Erasmo che, immettendolo, per così dire, in mezzo agli spettatori, dà modo di percepire tutte le sfumature, i trasalimenti, le impercettibili violazioni di quella sua arte spoglia e pura, giunta alla nudità dell’espressione, in giusto equilibrio fra la verità umana e la sapienza del palcoscenico, ma non l’avevo mai udito recitare così.

C’è, al secondo atto, una lunga scena in cui deve esprimere l’ultima umiliazione, la vergogna di un uomo onesto e leale, calunniato ingiustamente; ebbene, ad un certo momento, si son viste lacrime vere, non sul suo volto che non ne aveva bisogno per dire quel che stava dicendo, bensì sul volto dei suoi compagni di scena, toccati, essi per primi, da tanta arte. E’ stato un eccezionale successo personale. Caro, grande Baseggio.

Il copione di Giuseppe Maffioli, applaudito ieri sera, sceneggia con romanzesca disinvoltura ed abile mozione degli affetti, la biografia di Antonio Vivaldi detto Il prete rosso, tale è anche il titolo della commedia. Considerate le vicissitudini della sua esistenza, quell’oscillare continuo fra gli scrupoli e i doveri della pietà del sacerdote, espressione di una vocazione mai smentita e gli accidenti, gli incidenti, gli avventurosi imprevisti mondani, economici e sentimentali a cui lo trasse l’incoercibile proteiformità del suo genio musicale, se c’è una figura che si presti ad essere portata sul palcoscenico, questa è proprio quella di Vivaldi. Venezia, la Venezia del Settecento, soprattutto, ne possiede a iosa di questi caratteri da teatro che più che dalla vita sembrano modellati dalla fantasia di un commediografo. Basti pensare allo sgangherato bailamme della famiglia Gozzi, coi suoi eccentrici e genialoidi rappresentanti d’ambo i sessi; degni, uno per uno, della penna di Goldoni e, tutti insieme, di quella di Balzac.

Certo, per quel che ne conosco, Vivaldi fu un caratterino assai più rospo e spinoso, e, soprattutto, assai più complesso ed ambiguo di quanto l’agiografico restauro del Maffioli non faccia credere. Ma dai tempi di Marianna Moro Lin, grandissima attrice, brava, soprattutto, a far piangere e che trovò in Giacinto Gallina il prete che per pane per i suoi denti, stava per dare lacrime per i suoi occhi, il teatro veneto ha aperto il rubinetto della sentimentalità e ancora sgocciola; e dire che se c’è un autore antisentimentale è proprio Goldoni. Vediamo così il prete rosso vivere in povertà sua lieta, salvare da uno sproposito un giovane sacerdote che sta per gettare la veste alle ortiche e fuggire con una ragazza. Questo personaggio, inventato di sana pianta, farà poi una gran carriera: monsignore, nunzio apostolico o qualcosa del genere a Vienna; e ci metterà un bel po’ di tempo a superare il vecchio rancore e a capire tutta la purezza e la bonta d’animo del compositore dell’”estro armonico”. Il quale, frattanto, continua ad aiutare i poveri, a proteggere, a difendere, a sistemare le derelitte dell’ospizio della Pietà alle quali ha insegnato a suonare il violino e così via. La musica concepita come opera assistenziale.

Lo vedremo, in seguito, attratto dalle sirene del melodramma, comporre opere, metterle in scena, fare l’impresario in proprio o gestire il teatro San Moisé; circondato da donne e donnette, alle prese con soprani e sopranisti castrati, magniloquenti, vani e sleali -- sono gli squarci più spiritosi e divertenti del copione – e sempre a fin di bene, modesto, credulo, disinteressato e prodigo. Si arriva così allo storico incidente con la Giraud, cantatrice emerita che gli fece perdere la testa – ma qui la faccenda viene mantenuta nel vago – e determinò il severo intervento dell’autorità ecclesiastica con una dure lettera del cardinale Russo che lo richiamava ai suoi doveri di sacerdote e all’incompatibilità fra la ribalta e l’altare. Nella commedia questa lettera fa molto più effetto, sul protagonista, di quel che  non gli abbia fatto nella realtà. Come è noto, Vivaldi continuò per la sua strada rappresentando i suoi melodrammi sotto altro nome. Pare perfino che il grande Sebastiano Bach gli comperasse della musica che poi faceva passare come propria e che come tale i posteri continuano ad ammirare. E arriviamo ai brevi e misteriosi giorni di Vienna e allo squallore della morte assistito per l’occasione dal monsignore in grado finalmente di comprendere che prete e musicista furono una cosa sola e la musica fu un modo di elevarsi a Dio, di comprenderlo e di farlo comprendere.

La commedia, non immemore del Carlo Gozzi di Simoni, è piena di preti e di monache, quanto ricca di risorse teatrali, col merito di inserire nella convenzionalità dei personaggi, delle situazioni e dei passaggi obbligati di una tradizione, se vogliamo vecchiotta, momenti di originale delicatezza alternati ad altri di umoristica discorsività. Oltre al Baseggio, stupendo dalla prima all’ultima battuta, si son fatti applaudire, disciplinati con cura da Enzo Convalli: la mordente e petulante Wanda Benedetti, la esuberante ed estrosa Luisa Baseggio, il bravo Gusso, il lepido Franco Micheluzzi e la smancerosa Lella Poli, in due parti di virtuosi; la deliziosa Rossato, la Tarlazzi, il Moser, il Ravasini ed ogni altro.

Carlo Terron

Ultima modifica il Domenica, 14 Dicembre 2014 10:30
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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