L’impari sfida Arlecchino-Pierrot
di Errico Centofanti
Il Louvre, museo primatista mondiale per quantità di visitatori, ha allestito una gran mostra per il suo Pierrot, quadro di Antoine Watteau che, pur essendo eccellente, non è certo una superstar come la Gioconda.
Chissà se da noi, dove i personaggi della Commedia dell’Arte sono nati e hanno fatto da battistrada al moderno teatro europeo, l’Archivio di Sato di Verona gliela dedicherebbe una mostra a uno dei suoi Arlecchino dipinti da Dario Fo.
Già, il nostro è un Paese dove il teatro e la musica, non essendo considerate cose serie, appaiono senza cittadinanza – fatta salva qualche eccezione – nel sistema dell’istruzione pubblica e presso le istituzioni museali. In Francia, invece…
Attenzione, però: una diffusa quanto fasulla convinzione vuole che Pierrot – come pure macarons, crêpes e tant’altro – sia un’invenzione dovuta ai francesi, tant’è che di Pierrot e di quanto lo riguarda se ne conosca ben poco, qui nel Bel Paese.
C’è da spiegare un po’ di cose, dunque. In realtà, noi italiani, pur essendo notoriamente dei gran creativi, badiamo poco a tutelare la paternità delle nostre creazioni, forse perché, tutto sommato, nel nostro profondo s’annida ben radicata un’assuefazione al disinganno, al “tutto è vanità”, che scaturisce dalla plurisecolare sommatoria di catastrofi naturali, arroganza del potere, dominazioni straniere e perversi effetti della cupidigia individuale e collettiva.
André Derain, Arlequin et Pierrot (olio su tela, cm 175x175, circa 1924, particolare, courtesy Musée de l’Orangerie, Parigi).
La matrice italiana di Pierrot
Parigi, anno 1673. Louis XIV, che a soli 5 anni d’età s’era trovato re ma aveva dovuto aspettarne altri 18 prima d’afferrare le redini dello Stato grazie alla morte – nel 1661 – del dominante cardinal Mazzarino, è ormai nel pieno degli ulteriori 42 anni di regno dai quali verrà ratificato il suo autoproclamato status di “Re Sole”.
Il fiorentino Giovanni Battista Lulli, diventato Jean-Baptiste Lully, è il dominus indiscusso della vita musicale, come Molière lo è di quella teatrale.
I grandi teatri ufficiali che signoreggiano spettacolo e mondanità sono l’Académie d’Opéra di Lully, specialista del teatro cantato, e, per la recitazione in prosa, la Comédie-Italienne e la Comédie-Française, dai cui palcoscenici, in due gelide notti di quel Febbraio 1673, Molière e Pierrot volano verso la gloria di miti intramontabili. Venerdi 17 Molière, che ha da poco compiuto cinquant’anni, spira subito dopo aver recitato Il malato immaginario, mentre Sabato 4 l’italianissimo attore Giuseppe Geratoni per la prima volta aveva creato in scena il personaggio di Pierrot.
Dario Fo (1926-2016), Arlecchino (tempera su cartoncino, cm 50x40, anno 1985, courtesy Archivio di Stato, Verona).
Trascorrerà quasi mezzo secolo allorché, intorno al 1719, Antoine Watteau (1684-1721) perviene a fissare sulla tela l’aspetto diventato archetipico del Pierrot teatrale, riconoscibile a prima vista per via del volto privo di maschera e del costume totalmente bianco, fatto d’un giaccone dalla taglia sovrabbondante con ricca bottoniera e vistoso collare, pantaloni a saltafossi, cappello di feltro con sottostante zucchetto e, quale unico ornamento, due superbi nastri rosa messi a infiocchettare le calzature, bianche anch’esse.
Però, l’outfit codificato da Watteau non è quello al quale siamo abituati. Lo è, invece, quello rielaborato nella prima metà dell’Ottocento dal mimo Jean-Gaspard Deburau: il costume è sempre del tutto bianco ma le maniche sono larghe e svasate, meno bottoni ma assai piú grossi, niente collo o collare e per copricapo un minuscolo zucchetto nero. Due fascinose varianti saranno poi quella teatrale di Sarah Bernhardt (1883) nella pantomima Pierrot assassin e quella cinematografica di Jean-Louis Barrault (1945) nel leggendario Les Enfants du paradis scritto da Jacques Prévert e diretto da Marcel Carné.
Sta di fatto che Watteau e il suo Pierrot scivolano quasi subito nell’oblio, da cui improvvisamente riaffioreranno nel 1826 per poi venir insigniti – nel 1860 – del riconoscimento quali «l’artista e l’opera principali espressioni della pittura francese del Settecento», come attesta Guillaume Faroult, che del Louvre è presentemente il Conservatore Capo per le Pitture.
Antoine Watteau, Pierrot (olio su tela, cm 184x155, circa 1719, particolare, courtesy Musée du Louvre, Parigi).
Arlecchino rivoluzionario
Quanto al nostro Arlecchino, il cui costume dai rombi multicolori, la genialità guascona e l’inossidabile resilienza lo eleggono a suggestivo compendio allegorico di molte nostre tipicità caratteriali e ne spiegano la dilagante popolarità, non c’è gran cosa che si possa aggiungere ai fasti e nefasti da noi largamente risaputi.
Tuttavia, nonostante l’ipocrita seriosità delle nostre baronie accademiche renda impensabili per Arlecchino reverenti onori istituzionali pari a quelli ottenuti da Pierrot presso i francesi, per noi commoners s’attaglia benissimo al personaggio di Arlecchino quel medesimo alloro con cui in Francia onorano Pierrot: come diceva già Jules Janin (1804-1874) nell’autorevole Histoire du théatre a quatre sous del 1832: «è l’attore del popolo, loquace, goloso, girandolone, ribaldo, impassibile, rivoluzionario come il popolo».
Jean-Louis Barrault interpreta Pierrot nel film Les Enfants du paradis di Marcel Carné (anno 1945).
Caratteri, questi, “del popolo” e “rivoluzionario”, che s’incontrano costantemente nelle interpretazioni di Arlecchino espresse dalla pittura italiana: dai molteplici Travestimenti immaginati da Giovanni Domenico Ferretti (1692-1768), contemporaneo di Watteau, alle tele e sculture novecentesche di Gino Severini (1883-1966), non trascurando le opere con cui Dario Fo (1926-2016) preparava e accompagnava le sue creazioni sceniche. Sempre questi medesimi caratteri del personaggio innervano magistralmente la messinscena dell’Arlecchino goldoniano dovuta a Giorgio Strehler che dal 1947 è l’immortale ammiraglia del Piccolo di Milano.
Ebbene, questo essere “del popolo” e “rivoluzionario” conduce alla questione fondamentale implicita nella sfida Arlecchino-Pierrot: sfida impari perché quel rilievo istituzionale che un Pierrot può assumere in Francia non è certamente praticabile in Italia, quanto meno per ora. Si tratta di una questione di ben piú ampia portata rispetto alla mostra dedicata da un grande museo a un personaggio teatrale: una questione di politica culturale.
Sarah Bernhardt fotografata da Paul Nadar nella pantomima Pierrot assassin di Jean Richepin (anno 1883, courtesy Bibliothèque Nationale de France).
Nuove prospettive
Non si tratta solo del vecchio tema del sorpassare la mera (ma tuttavia imprescindibile) funzione del conservare la memoria del passato, bensí di animare la comunicazione del sapere e di ricercare nuove prospettive di sinergia produttiva tra sedimenti ereditari e infiorescenze innovatrici.
Si tratta di andare oltre le concezioni elitarie riguardanti la fruizione delle opere d’arte; si tratta di superare le tendenze al “rifugio nell’assurdo” – come nel Pierrot lunaire di Schönberg – al fine di aggirare le contraddizioni che lacerano gli animi del tempo nostro; si tratta di recuperare la centralità dei valori umanistici e dei fondamenti etici del lavoro; si tratta, insomma, di essere “del popolo” e “rivoluzionari” come, a modo loro, c’insegnano Pierrot e Arlecchino.
Università, musei, accademie, organismi teatrali e musicali, in quanto amplificatori di memorie e creatori d’innovazione, sono laboratori critici sulle connessioni interdisciplinari e le dinamiche sociali. Dovrebbero saper vitalizzare i rispettivi potenziali organizzativi e multidisciplinari affinché l’eredità socio-culturale amministrata si trasformi in risorse attivatrici degli input immaginativi necessari per costruire il futuro.
Marcello Moretti (1910-1961) protagonista di Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni nella prima edizione (anno 1947) dello spettacolo di Giorgio Strehler per il Piccolo Teatro di Milano.
Ovviamente, il teatro e l’insieme delle arti non possono cambiare il mondo, ma, sulle macerie disseminate dal dilagante individualismo, possono contribuire a ricomporre la griglia delle interazioni comunitarie e della creatività collettiva, possono apprestare le basi per un progetto di civiltà basato sull’idea di comunità e sul riequilibrio sociale, possono aiutare il mondo a rendersi conto dell’ineludibilità di un mutamento che, dando riscontro alle lacerazioni e ai grandi turbamenti della contemporaneità, assicuri soluzioni per i bisogni generali.
L’attuale stato delle cose è distante da tutto ciò: le istituzioni culturali, per lo piú, agiscono in solitudine, ciascuna gelosa della propria magnificenza e tutte impermeabili rispetto a eccitazioni dialettiche e ipotesi collaborative provenienti dal loro esterno. È uno stato delle cose che induce una costanza di delusione intristita dal non potervi porre rimedio. È la stessa sfumatura di malinconia implicita in Pierrot e in Arlecchino, in quanto ciascuno di loro è attore «del popolo, loquace, goloso, girandolone, ribaldo, impassibile, rivoluzionario come il popolo» e, come tale, inevitabilmente logorato dalla vaga tristezza che accompagna la loro inquieta delusione. Una sfumatura di malinconia che ci riguarda tutti e che, un po’ come accade a un personaggio di Gianrico Carofiglio, pare collocarci in «una stabile, mediocre infelicità» ottenuta «in cambio di una insoddisfazione permanente» (Ragionevoli dubbi, Sellerio 2006).