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Intervista con l’apolide Yannis Hott, drammaturgo impegnato nel sociale.

Mario Mattia Giorgetto e Vincenzo Bocciarelli in "Papà, sei di troppo" di Yannis Hott al Teatro Tordinona, Roma Mario Mattia Giorgetto e Vincenzo Bocciarelli in "Papà, sei di troppo" di Yannis Hott al Teatro Tordinona, Roma

Può spiegarci il motivo intimo per cui lei vuole restare nell’anonimato, visto che non rilascia biografie, non offre immagine di sé, anche se come Poeta e Drammaturgo ama svolgere una attività che desidera essere pubblica?
Le rispondo con una domanda: quando le si guasta il motore dell’auto mentre percorre una strada pubblica, cosa fa? La porta dal meccanico che trova lungo la strada, la consegna, lui la ripara, lo ringrazia e riparte. Non credo che lei le abbia chiesto di farsi conoscere e non le ha chiesto una foto. Giusto?
Io mi sento come quel meccanico, cerco di contribuire a riparare un Società che non funziona bene, ponendo domande, offrendo suggerimenti, sollevando temi, prospettando contenuti. Per migliorare una comunità si può fare a meno del proprio ego. Chiedo di condividere e portare avanti i contenuti che altri soggetti artisti desiderano approvare.
Il mio non vuole essere un atto di snobismo, di preziosità, di tattica pubblicitaria al contrario. Il mio vuole essere solo un atto di umiltà, di rispetto nel rapporto con chi ascolta i miei pensieri; a volte puntare sulla propria personalità può essere condizionante in positivo o in negativo verso l’opera che proponi. Meglio stare di lato, nell’ombra, sperando che ciò proponi faccia luce in altri.

Lei si definisce poeta e drammaturgo. Quali sono i temi che occupano il suo universo?
Io amo l’uomo, la natura, la terra, il mondo tutto, dagli animali agli uccelli ai pesci, ai fiori, alle piante, ai frutti. Mi considero un ospite in questo variegato mondo, so di essere nato non per volontà mia ma dei miei genitori, so di essere di passaggio, pertanto ogni istante per me ha valore di vita, e voglio essere in armonia con questo istante, non vivere sdoppiato pensando a futuri che mi vengono imposti da altri. Amo la libertà, intesa come azione a favore dell’altro e non per egoismo personale, detesto lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, credo nella vita come una successione di atti d’amore, di altruismo, di gentilezza, di tolleranza, di rispetto delle libertà altrui. Ecco questi sono i temi su cui poso la mia attenzione sia con la scrittura drammatica, sia con la poesia.

Politicamente come si colloca?
Mi definisco un libertario umanitario, non ho tessere di partito, non sono anarchico individualista, non sono uno che ama il potere, anzi lo combatto. Sono uno che crede nell’umanità, come collettività di uguali. Non amo possedere, approfittare sugli altri, per il propri vantaggi, profitti.
Amo la creatività dell’uomo, grande o piccola che sia, purché nasca dall’immaginario fantasioso dell’uomo.

È in virtù di questo suo modo di pensare che le sue opere contengono in sé un insieme di intrecci di linguaggi?
L’uomo si esprime col suo corpo, con la sua voce, i suoi suoni, con ciò che ha creato. Perché dividerlo in sezioni? L’arte non ha confini: i linguaggi s’intrecciano, si contaminano, vivono contemporaneamente su noi stessi, ed è perciò che le mie opere sono multilinguaggi: faccio convivere parola, azione, danza, musica nello stesso spazio e nello stesso momento. Amerei che ci fossero attori totali, capaci di esprimersi in tutte le forme di comunicazione.

Ma ogni Paese ha la propria lingua, le proprie caratteristiche genetiche, razziali. Come farle conciliare con la sua visione?
Pochi lo sanno, ma ho avuto il piacere di vedere mettere in scena una mia opera a New York, al Sylvia and Danny Kaye Playhouse, dove erano impegnati attori italiani, americani, giapponesi, coreani.
Ebbene, ognuno si esprimeva con la propria lingua. A battute in Italiano, rispondevano in inglese, e poi in giapponese, coreano, insomma una babele di lingue. Eppure il pubblico per deduzione riusciva a seguire la storia e la contrapposizione delle lingue era un fatto di grande teatralità. Si era creata la convezione che ognuno conoscesse la lingua dell’altro. Tutto questo per dirle che nello spazio teatrale tutto può convivere e integrarsi.

Lei ha preteso di essere sotto contratto in esclusiva con Sipario e si è impegnato a consegnare sei opere teatrali all’anno. Perché ha voluto questa condizione operativa?
Semplice. Perché Sipario per me equivaleva ad un treno sui cui ero salito e che mi consentiva di viaggiare di stazione in stazione, per un percorso continuato.

Mario Mattia Giorgetti durante una prova di “Tino e Desy, come foglie”
Il regista Mario Mattia Giorgetti durante una prova di “Tino e Desy, come foglie” di Yannis Hott con Siliana Fedi e Gabriele Ara, opera andata in scena a Prato, a San Gimignano e altre città della Toscana.

Ci può parlare almeno delle prime sei opere consegnate a Sipario?
Con piacere. La prima opera consegnata fu “Quando usciremo”, con due personaggi, due clochard, che si erano rifugiati in una fogna perché fuori era scoppiata una apocalisse: inseguito alla esplosione della centrale nucleare dì Chernobyl, tutta la plastica stava sciogliendosi invadendo strade, case, la vita cosiddetta civile. I due clochard nella fogna rifugio immaginano all’uscita una nuova comunità, un modo di vivere più umano, senza armi di distruzione.
Fu rappresentato nel... non ricordo, molti anni fa, a Milano nel teatrino di Sipario seguito da dibattiti.
Il secondo lavoro fu “Tony e Desy”, un omaggio a due attori, coniugi, che per amore, di fronte al male incurabile di lui decidono di sottrarsi dal mondo disumanizzato gettandosi da un ponte in Toscana. E in Toscana fu rappresentato: tra dialoghi, poesie, canzoni: prima di compiere il suicidio ripercorrono per loro stessi i loro momenti di artisti.
Il terzo lavoro consegnato fu “La Rosa ferita di Samantha” che trattava il tema della infibulazione ma l’impresario che doveva metterla in scena in Calabria, dopo giorni di prova ebbe una lettera di minacce da alcuni ortodossi arabi. E mollò l’impresa. Per paura.
Il quarto lavoro, fu “Papà, sei di troppo”, che affrontava il tema del lavoro dove un figlio per entrare nel lavoro doveva liberasi in qualsiasi modo del padre. Una denuncia di una società capitalistica tesa solo al profitto, e alla soppressione di coloro che erano diventati improduttivi. Il testo fu rappresentato al Teatro Tordinona di Roma con un bel successo.
Il quinto lavoro fu “Lear, imprenditoRe”, una metafora su un industriale che cerca di ricompattare le figlie, poiché si rende conto che è giunto al traguardo della vita, ma il virus dall’egoismo ormai in possesso delle figlie, scatena odio e delitti pur di impossessarsi della ricchezza del padre. Anche questo testo fu rappresentato allo Spazio Arlecchino, di Prato.
Il sesto lavoro fu “Romeo e Giulietta in casa di Riposo per Artisti”.
Trattava la storia di un regista sperimentale, entrato a far parte degli ospiti, che voleva rimettere in scena col suo metodo l’opera classica di William Shakespeare. Ma alla fine gli attori si ribellano perché desiderano difendere la memoria dei classici e non il loro stravolgimento.
Ecco, questi sono i primi sei testi, e ogni anno ho rispettato il contratto. Sipario anche pubblicando le opere che consegnavo.

“Tino e Desy, come foglie” di Yannis Hott con Siliana Fedi e Gabriele Ara
“Tino e Desy, come foglie” di Yannis Hott con Siliana Fedi e Gabriele Ara

Ora, ho saputo che un grande compositore, Antonio Fortunato, sta lavorando a tre mie opere: a “Good Year, God”, un opera-teatro, in cui si assiste alla rivolta di God che si sente tradito da ciò che gli umani fanno in Terra e riporta in cielo un campionario di artisti che devono allietarlo per il suo ennesimo secolare compleanno.
L’altro lavoro di Teatro-Danza è “I figli di Edipo” che una giovane di oggi, di fronte ai Bronzi di Riace, rivive il dramma di Antigone che voleva più giustizia umana da Creonte e che cerca la sua libertà con la morte insieme di Emone. Come in “Giulietta e Romeo”, anche loro furono vittime del potere possessivo.
Infine, “Caino e Abele”, anch’esso Danza e Teatro per dimostrare da dove nasce il ceppo della violenza. Ho stima nello staff che Giorgetti, antico amico in cui mi identifico pienamente, sta mettendo in piedi e certamente troveranno, dopo questo periodo di tragedia pandemica, più attenzione ai temi che proponiamo.
Ma mi consenta di menzionare altre mie opere che, dall’inizio dell’accordo, sono state rappresentate.
In occasione dei 500 anni dalla morte di Leonardo Da Vinci scrissi un lungo monologo dialogico sul testamento di Leonardo, già vecchio e prossimo alla morte, dettato all’amante Salaì, certo Giacomo Caprotti al servizio di lui fin dall’età di 10 anni come ragazzo di bottega.
L’opera fu rappresentata a Milano e poi a Bologna al Teatro Dehon, seguì poi un altro testo “Gioconda domanda, Leonardo risponde”, col quale dimostravo che la pittura della Gioconda nascondeva dei segni segreti dell’amore di Leonardo per Salaì, anch’essa rappresenta allo Studio Arti Sceniche di Milano. Per concludere vorrei ricordare i tanti monologhi rappresentati, scritti sulla figura del “Presidente” come simbolo del potere maschilista e quelli su Adamo, primo uomo che schiavizzò la donna, Eva. Insomma, scrivere sul dissennato vivere dell’uomo, inteso come maschio assestato di potere, mi intriga molto.

Ultima modifica il Domenica, 03 Maggio 2020 18:33

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