L’origine del termine “intervista” è davvero interessante, poiché esso evoca sì la dimensione dell’incontro, come nel francese s’entrevoir, ma delinea quel tipo di ideale scambio reciproco che porta gli interlocutori così vicini da poter quasi intravedersi, e nel raccogliere ciascuno intuizioni dell’altro, anche a scoprirsi, a dialogare, a comprendersi. Si tratta dunque, in questa sua forma, di una comunicazione autentica e reciprocamente generosa.
Quanto segue è un estratto, quasi “drammaturgico”, dell’incontro con Emanuela Tagliavia e Giampaolo Testoni, coppia di artisti nella vita e sulla scena, che hanno deciso di raccontarsi e, mediante questa loro narrazione, di lasciare un esempio tangibile della necessità dell’Arte, una necessità assolutamente inesausta e assai più forte delle limitazioni del tempo attuale, una necessità che diventa opportunità, poiché della crisi sa cogliere anzitutto il momento della scelta, presentandosi quindi come un momento per rinnovarsi.
A voi lettori, ora, il compito e il piacere di partecipare di questo nostro incontro, un’intervista estemporanea e trasparente, inusuale se confrontata con gli schemi consueti ma ricca di sostanza e pensiero, a conferma del fatto che, anche in un periodo strano come l’odierno, fatto di incontri negati, la riflessione sull’Arte apre le porte alla dimensione simpatetica dell’incontrarsi.
Carissimi, se dovessi definire ciò che ci accingiamo a fare, direi che quella di oggi pomeriggio è una comunicazione fra scrittori, essendo voi non solo una famiglia d’artisti, ma anche una coppia di scrittori, nella danza e nella musica. Un filosofo contemporaneo, Salvatore Natoli, ha affermato che «le parole… sono sapienti di per sé e per questo, prima ancora di pronunciarle bisognerebbe ascoltarle». Mi domandavo quanto questo fosse vero anche per voi, per la vostra scrittura, e dunque come si rapportino fra loro i momenti della creazione e dell’evocazione.
ET — Il paragone con lo scrittore mi piace tanto, perché quando io parlo di coreografia parlo sempre di partitura di corpi, come quella musicale... In effetti, ogni mia coreografia parte da una scrittura, essendoci alla base un’idea drammaturgica.
GT — Per un compositore, ma non solo, la scrittura è narrazione e ha un valore in sé. “Purtroppo” la musica, come la danza, ha bisogno di interpreti per “esistere davvero”, ma innanzitutto nasce in un altro stato, quello del suono nell’orecchio interno e poi nella sua trascrizione sulla carta. Per un coreografo suppongo sia simile, non l’orecchio ma lo sguardo interiore. In ogni caso, ciò che distingue un dilettante, o un aspirante musicista, compositore o coreografo, da un vero artista è il fatto di avere uno stile, e questo esiste prima che la musica prenda la sua forma delimitata nel singolo brano. Lo stile è l’impronta del pensiero dell’autore, che elabora il suo racconto secondo le sue naturali selezioni o scelte del materiale disponibile; l’autore sceglie, elimina o aggiunge fino ad arrivare al nucleo stabile del suo pensiero narrativo, fatto di memoria, di gusto, di scelta tecnica eccetera, in una lunga e costante rielaborazione poetica interiore. L’interazione delle due arti nasce dalla sistemazione, l’uno dopo l’altro, di questi elementi anche molto diversi, che di per sé non hanno alcun valore semantico, non si riferiscono a nessuna immagine precisa, non hanno un significato traducibile a parole, ma cominciano a esistere quando si tramutano in una forma. L’arte esiste solo quando crea forme.
È molto platonico tutto questo.
GT — È platonico, ma credo sia l’unico modo per spiegare l’inspiegabile. Io non so da dove viene. Dopo quarant’anni di carriera non penso un minuto prima a che cosa farò, ma so che il mio pensiero esiste nel momento stesso in cui lo comunico in una forma. La mia mano porta alla luce la musica, che esiste in me già da qualche parte: questo è il frutto sicuramente di tanti anni di lavoro, è il mio stile, la conquista del mio stile. E lo stesso credo valga per Emanuela. Io l’ho vista in azione, e lei è il suo stile: quando comincia a montare una coreografia “quasi improvvisa”, perché la coreografia è già dentro di lei. A differenza di quando si è agli esordi, e c’è molto più bisogno di sperimentare, adesso c’è una consapevolezza di una immediatezza del proprio gesto, del proprio discorso, del proprio suono, che sono ormai divenuti il tuo marchio, la tua firma. Il suono viene da non si sa dove, così come il pensiero coreografico: da te, da dentro. Non c’è un altro modo di spiegarlo.
ET — Nei miei lavori – esclusi quelli su commissione, in cui si deve stare dentro a un tema – cerco di attingere da tutto. L’arte figurativa e il cinema mi hanno aiutata molto, ma anche le quotidiane esperienze di vita, per esempio vedere spettacoli in grado di colpirti non tanto nella tecnica o nella bravura dei danzatori, quanto nelle immagini. In questo senso credo che la mia danza sia anche evocativa, perché è la risultante della mia esperienza come danzatrice e come donna che vive. Per quanto riguarda il mio modo di coreografare, è inevitabile che alcune gestualità ritornino con semplicità, ma quando entro in sala prove per me è fondamentale vedere che tipo di danzatore ho davanti a me. Lavoro molto su di lui, cercando di plasmare la mia gestualità con la sua fisicità, a tal punto che, quando mi capita di rimontare alcune mie coreografie, vedo come cambiano e io stessa talvolta avrei quasi voglia di scardinare alcune parti e ricostruirle, anche se c’è una drammaturgia già solida e una musica definita. Lo stile, dunque, nel mio caso è duttile e si plasma sul “materiale” che ho.
GT — Secondo me, invece, non cambia. Io compongo musica commerciale, così come musica sinfonica o per la danza e resto sempre riconoscibile: la mia tecnica si adatta alle forme diverse, ma mi restituisce nelle caratteristiche che mi sono proprie. Lo stile, allora, possiamo dire che mi fa riconoscere un artista subito, cogliendo la sua verità, la sua veridicità, la sua necessità. Quello che rende un artista tale è proprio la necessità della sua Arte: lo vedi e lo senti, e capisci che è vero, che non sta mentendo, che quello che sta facendo è imprescindibile. George Balanchine, per esempio, grandissimo scrittore nella danza, con una tecnica straordinaria, riesce a essere così diverso rispetto alla sua produzione negli anni; eppure, anche nelle più grandi differenze, il suo stile è riconoscibile. Per un “vero artista” – non dico un “grande” artista, ma un “vero artista” –, l’influenza esterna non ha alcuna importanza. Sono soltanto gli artisti mediocri, incapaci di una narrazione interiore, a costruire di volta in volta versioni differenti di se stessi, annullando l’unicità in una serie di alias senza tratti somatici riconoscibili, copie sbiadite di non si sa chi.
ET — Questo vale a qualsiasi livello. Io ho fatto il Qohelet con tre attori, ma anche coreografie con danzatori del Teatro alla Scala: sono artisti completamente diversi, ma l’autenticità si può cogliere in entrambe.
Questo legame dello stile con l’autenticità e la verità mi richiama, per opposizione, il problema della banalità. Secondo me, quando questa affiora, l’Arte viene meno, ma ammettendo pure di considerare la “banalità nell’arte”, possiamo osservarne la modalità “per difetto”, cioè la piattezza o la mancanza di profondità, e quella “per eccesso”, ossia l’essere disposti a tutto, sulla base della credenza che per essere originali occorra fare le cose più strane possibili, a discapito dello stile e del bagaglio culturale che sorregge un’opera, quale che essa sia.
GT — Viviamo in una società che, dal secondo dopoguerra in poi, ha progressivamente smarrito il bisogno o una vera necessità dell’Arte, e adesso non è più in grado di distinguere l’Arte da ciò che non lo è. In questa dimensione in cui si predilige il consumo rapido, va da sé che i valori siano facilmente confusi, e i “surrogati” prendano un posto di riguardo, di fatto sovvertendo la “gerarchia” dei valori. Potrei fare sonori esempi di finti tenori, di finti pianisti, di finti compositori “classici”… Quanto al districarsi in mezzo a questa gerarchia confusa in cui tutto è uguale a tutto, io sostengo fortemente che nell’Arte la Bellezza oggettiva esiste, e non può convivere con il concetto di democrazia. L’arte è certo per tutti, per chiunque la voglia accogliere – infatti, anche chi non ha mai ascoltato musica classica, se ascolta una sinfonia di Mahler e non è un perfetto imbecille, in qualche modo ne capirà la grandezza. La democrazia nell’Arte non è possibile, perché artisti si nasce, non si diventa: il vero artista si affina, lavora su se stesso, quasi senza sapere di farlo, ma parte da un fondo pulsante, fiammeggiante, che deve trovare vita e forma a dispetto di ogni ristrettezza o difficoltà nella vita reale… pensate a Nureyev. Non esiste la scuola dove si insegna a diventare artisti. E questa è una considerazione che tuttora nei “salotti” non si può dire, col rischio di sentirsi politicamente non corretti. Ciononostante io non smetterò di farlo, perché è stata la certezza e lo sforzo di tutta la mia vita d’artista, vero e sincero, come mi reputo, al di là che io sia considerato un grande o piccolo autore.
L’artista, dunque, non ha bisogno dell’approvazione altrui.
GT — Beh, se a un certo punto il mondo se ne accorge, meglio… ma non è questo il punto. A me infastidisce molto che alcune persone non sentano la necessità dell’Arte come mezzo per la rivoluzione dello Spirito. Il problema non è preferire il cantante pop a Mahler, ma sapere che Mahler è esistito; così come conoscere la differenza fra Balanchine e un coreografo televisivo. Qui però solleviamo un’altra questione terribile: chi deve decidere se un artista ha diritto d’esistere. Spesso capita che chi ha questo “potere” non sia in grado di comprendere istintivamente, non solo culturalmente, che la tale persona è davvero un artista, con uno stile, semplicemente perché ai suoi occhi “tutto è uguale”. Prima del secondo conflitto mondiale c’erano molta meno conoscenza, molta meno informazione, però, stranamente, la capacità di distinguere la gerarchia dei valori artistici e dare senso ai concetti di bellezza-bruttezza o insignificanza era più alla portata di tutti.
Nell’essenzialità diminuisce il pericolo di confusione.
GT — Esattamente. I ragazzi di oggi, la cui conoscenza è basata sull’immediatezza, soprattutto informatica, nonostante la possibilità inimmaginabile di attingere all’informazione e alla conoscenza in tutte le arti, spesso hanno difficoltà e restano smarriti, non sanno cosa scegliere senza guide. Su YouTube si trova di tutto, compresa moltissima spazzatura: e allora come fare se l’eccesso di accumulo di informazioni rende queste stesse così indistinguibili, se tutto sembra uguale a tutto, se tutto è sostituibile e non necessario?
ET — Nella danza, effettivamente, si nota che tutti sono maestri, coreografi, danzatori. Io insegno in due scuole di eccellenza, la Scuola Civica Paolo Grassi e la Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala, dove una selezione c’è già, da parte sia degli allievi sia dei maestri, che hanno il compito di prepararli al professionismo. Quando si parla di democrazia, io credo che il messaggio sia, da un lato che non tutti possono fare tutto, dall’altro che non si diventa coreografi con un corso di due giorni, non insegnante di pilates con una specializzazione di un week-end. In molti miei colleghi noto la capacità di insegnare qualsiasi cosa. Io provengo dalla danza classica, e ho anche lavorato come danzatrice; poi l’incontro con alcuni coreografi contemporanei, soprattutto in Francia, mi ha indirizzato al contemporaneo, che sappiamo essere un contenitore di grandissimi informazioni e stili. Come il coreografo lo distingui per il suo pensiero, lo stesso vale anche per un maestro: fondamentale non è un passo, ma come ci si pone e come si riesce a portare avanti la propria identità.
Al proposito, capita non di rado di vedere confusa la poliedricità, il talento versatile, con la contaminazione.
ET — Credo poco nelle contaminazioni, ad eccezione di quelle che sono il frutto del succedersi delle proprie esperienze. Non ha senso attingere da questo e quell’altro senza una rilettura personale... È molto diverso, intendiamoci, da studiare una disciplina, yoga per esempio, e comprendere come alcuni princìpi possano essere utili alla danza. Lo stesso vale con le diversità dei singoli danzatori: sono loro, spesso, a portarti in una direzione. Nel mio caso, passo da una lezione in Paolo Grassi con danzatori più performativi e più grandi, a una lezione in Scuola di Ballo con danzatori più giovani e una base classica fortissima: il mio compito è cercare di “rendere versatile” il mio modo di insegnare, cercando di arricchire gli uni mediante la tecnica, di far capire agli altri che il corpo non lavora solo in quella direzione. Sia gli allievi che i maestri devono essere duttili ed elastici.
Del resto, “classico” non esprime un significato statico, ma ciò che è capace di rinnovarsi nella tradizione. Nella Poetica della musica Stravinskij ha scritto che «la vera tradizione non è una reliquia di un passato irrimediabilmente trascorso; è una forza viva che anima e informa di sé il presente».
GT — Stavo proprio per citare Stravinskij, e il suo eclettismo: verso la fine della sua carriera fu accusato dalle avanguardie di essere un conservatore, mentre fu un vero rivoluzionario, ma con radici solidamente attaccate alla fertile terra della memoria. La sua rivoluzione è compiuta all’interno di una consapevolezza, di una necessità di un vocabolario, elaborato per costruire un linguaggio condivisibile e comprensibile. Le neo-avanguardie, invece, hanno costruito le loro scritture, il loro pensiero, su vocabolari di cui solo loro avevano il codice di decriptazione. Lo stesso nell’arte figurativa, per esempio, con Picasso, il cui essere eclettico è pari almeno alla sua classicità. A conferma anche di quanto dicevamo prima, Picasso era solito rispondere «io non cerco, io trovo», come a dire che l’artista lavora, e nel fare , trova le cose, non le cerca. Tutte le avanguardie hanno lavorato nella direzione contraria, sulla famosa “ricerca”, che di per sé reputo una parola vuota. Costruire un’arte il cui unico contenuto è “la ricerca di qualcosa”, porta a qualcosa di continuamente sperimentale, con il connesso grave difetto di non costruire la cosa più importante: la forma. Tale tipo di arte informale, a mio giudizio, non ha nessuna capacità di narrazione lineare, ma “balbetta”, ed è costruita soltanto sull’ambizione di “fare l’arte” e di “essere un artista”, senza sapere cosa si sta dicendo davvero. Non a caso, lo stesso parlare di “forma” è assai difficile, perché suona come un “essere antiquati”, mentre invece sulla forma non può esistere equivoco.
ET — Nella danza la “ricerca”, per come la intendo io, è più legata alla ricerca sul proprio corpo. Bisogna lavorare molto su se stessi.
GT — È così anche per i grandi che noi amiamo. Senza la memoria di tutto quello che c’è prima, dei grandi artisti che li hanno preceduti, Michelangelo o Bach non sarebbero artisticamente esistiti. I veri artisti sono quelli che aggiungono un granellino di sabbia all’immensa spiaggia di cose che fanno il percorso di secoli di stratificazione di oggetti artistici. Possiamo risalire ancora più indietro e pensare agli stili diversi dei capitelli: dietro ogni spostamento dello sguardo degli artisti e dei poeti ci sono immense elaborazioni che investono tutto l’animo umano. La forma finale è esattamente quello che rimane di tutta questa straordinaria accumulazione di idee.
Dovrebbe farci riflettere il fatto che la vita ci si dispieghi attraverso la differenza di forme, cioè idee...
GT — Tutto ciò ha un valore espressivo fenomenale. Quando rifece il Pulcinella sulle musiche di Pergolesi, Stravinskij fu accusato di aver distrutto il senso stesso della musica del predecessore; la sua riposta fu che il passato non doveva solo essere rispettato, bisognava amarlo e dunque “fagocitarlo” e farlo poi diventare un’altra cosa, diversa ma in continuità, in vero progresso formale, narrativo, come l’incontro tra due amanti genera una nuova cosa amata. Nel caso di Emanuela, la ricerca della sua gestualità appartiene solo a lei, ma al suo pubblico non interessa fino a quando non la vede tradotta in un risultato formale frutto del suo stile. E sottolineo, “stile”, non una mediocre “retorica di stilemi”, purtroppo diffusa sia nella danza che nella musica, dove ci sono compositori che su alcuni “tic” hanno costruito un’intera carriera.
Il maestro Testoni ha sottolineato a più riprese il tuo stile, Emanuela, e la tua estraneità a una certa banalità, il che ai suoi occhi fa di te un’artista. Tu come intendi il tuo essere artista?
ET — Per me essere artista, se lo sono, è stata sempre un’esigenza. In questi mesi, in cui non posso “fare l’artista” — con questa espressione intendo il percorrere la mia quotidianità come prima, e lavorare su alcuni progetti che, a questo punto, non so se si realizzeranno… dovevo fare una nuova lettura coreografica del Tannhäuser al Teatro alla Scala, ed ero in contatto con la Fura dels Baus; c’era poi la seconda edizione della la mia rassegna Pulchra minima al Teatro Gerolamo; il Ballo in maschera con la regia di Gabriele Salvatores…; la ripresa di Balthus Variations con i ragazzi della Scuola di Ballo al 4° e 5° corso, in programma nello spettacolo istituzionale –, in questi mesi, ho visto che l’esigenza di essere artista non è stata quella di fermarmi e aspettare che riapra tutto, ma di rinnovarmi. Ho cercato altre strade per sentirmi artista, per sentire il mio lavoro, sia nell’insegnamento sia nei miei progetti coreografici, sia anche nel pensare a un nuovo modo di comporre. Trovo che tutto sommato anche il tempo del Coronavirus sia per gli artisti un tempo per mettersi in discussione, e trovare nuovi modi di comunicare. Per esempio, per il fatto che non possiamo aggregarci, come posso io immaginare un duetto? Allora, come sto facendo con i ragazzi dell’8° corso in Scala, mi concentro sull’assolo, prediligendo cellule coreografiche di brevi estratti, di piccoli assoli all’interno di spazi non convenzionali, come possono essere le proprie case e la propria intimità.
Proprio il tema dell’isolamento mi fa venire in mente due considerazioni. Da un lato, per tornare alla metafora iniziale, penso alla credenza (non priva di fondamento) secondo cui, nei momenti di creatività, lo scrittore suole “ritirarsi” quasi in solitudine… se così, quale la differenza fra l’una e l’altra situazione? Dall’altro, rifletto su quanto questo periodo, del tutto singolare, sia stato foriero di enormi inquietudini, a cui l’animo pare non sempre aver retto con prontezza. Seneca invitava l’amico Lucilio, che credeva di poter liberarsi dagli affanni viaggiando, a cambiare animo, non cielo. Ora che si è stati “costretti” a confrontarsi con lo stesso cielo tutti i giorni, che cosa ne è derivato e ne deriva per il dialogo con il proprio animo, e i risvolti nell’arte? Come state vivendo questo momento?
GT — Giovanni Pierluigi da Palestrina, che è uno dei più grandi compositori del 1500 e di tutta la storia della musica, andava da Palestrina a Roma dal Papa e poi tornava a casa: per lui, nella sua intera esistenza, questo è stato il mondo. Lo stesso Bach, fra Lipsia e Dresda, e basta. Eppure quanti scenari, paesaggi, galassie, disegnate e descritte dalla loro immaginazione, quante possibilità narrative ed espressive! Questo perché l’arte è dentro la nostra testa, e la nostra capacità di immaginare e ridisegnare la realtà, se siamo artisti, ci spinge a trovare vie parallele per inventarla di nuovo in ogni nuova opera. Emanuela soffre più di me, certo; io sono abituato a stare in casa davanti al pianoforte o al computer e a far nascere e fissare su carta la mia musica, in solitudine. Eppure anche Emanuela, che per creare davvero ha bisogno di interagire con i suoi danzatori, in loro presenza, perché la sua scrittura è manipolazione fisica, si è accorta che la sua arte non è sminuita da questo periodo, ma continua a vivere dentro di lei.
Ma allora, secondo voi, è l’opera d’arte che esiste già, ed è compito dell’artista portarla alla luce e farla emergere, oppure è l’artista a crearla?
GT — Io credo che l’opera d’arte e l’artista siano la stessa cosa. Una mia partitura o una coreografia di Emanuela sono opere generate da noi, ma di fatto siamo io e lei stessi, sono emanazioni che riflettono chi siamo e cosa pensiamo del mondo e della vita. In Balthus Variations, ultimo frutto della nostra collaborazione, abbiamo parallelamente lavorato sull’idea della giovinezza e della sua inquietante bellezza, così ben descritta nei quadri del grande pittore, e in questa riflessione abbiamo trovato la nostra personale idea su questo argomento così potente e fondante. Il nostro lavoro contiene ciò che noi ricordiamo, pensiamo e ci aspettiamo da questa immagine di una transizione straordinaria della vita umana.
ET — In quell’occasione avevo scelto di lavorare con ventisette ragazzi del 4° e 5° corso della Scala, fra i quattordici e i quindici anni, sui dipinti di Balthus e, al contempo, sul lato oscuro di quella transizione, proprio come si percepisce nei suoi quadri, quella sensazione di noia apparente e abbandono, ma allo stesso tempo di timore nel passare da uno stato infantile all’adolescenza. Dentro di me credo di averlo elaborato più in chiave poetica, almeno stando alla definizione “adolescenziale poesia” attribuitami da Marinella Guatterini, e di aver lasciato cadere il lato erotico dei suoi quadri.
Le tue coreografie avevano molto a che fare con i quadri di Balthus, in alcuni casi riproducendoli. Mi affiora l’immagine di una coppia, ragazzo e ragazza, con un intreccio delle braccia, e una delicata sensazione di abbandono.
ET — Quell’intreccio l’abbiamo studiato dai dipinti. Abbiamo giocato anche sui diversi tipi di ambiente esterno-interno, con un’attenzione particolare verso la stanza – neanche a farlo a caso, a ripensarci –, e la strada; abbiamo persino trovato la voce di Balthus. In quel caso, ho lavorato sempre senza musica.
Un corpo, un’anima danzante crea musica con il suo solo agire. L’aspetto musicale evoca una mia curiosità. Quando vi trovate a collaborare, in che modo interagite l’un l’altro? Dapprima il maestro Testoni compone la musica e poi tu ricami sopra la coreografia, oppure si tratta di un lavoro “osmotico”, per cui la musica stessa subisce cambiamenti e revisioni?
ET — Abbiamo lavorato in entrambe i modi. Nel caso di Luminare Minus Giampaolo mi ha consegnato la musica e su quella ho scritto la coreografia. Soprattutto per il mito di Selene – che sarebbe stato interpretato da Luciana Savignano – avevo chiesto a Giampaolo di suddividere le parti – avevo in mente tre assoli e tre parti corali –, e soprattutto di dare colore alle diverse figure di Endimione il pastorello, di Elios focoso, di Pan terreno. Ci sono altre volte in cui gli chiedo di cambiare alcuni punti, poiché mi ritrovo meno, altre ancora in cui è lui ad adattarsi completamente alla coreografia, come per esempio in Balthus, dove ha davvero fatto un lavoro di cesello, da artigiano.
GT — L’ultima situazione è quella che prediligo: osservare da Emanuela la sequenza e, se è abbastanza avanti nell’elaborazione, “scriverci” sopra, come se facessi la musica per un film, cercando di valorizzare il più possibile il gesto. Io ritengo che questo sia il compito di un compositore e il suo servizio alla coreografia, nonostante la piaga moderna della dissociazione quasi totale, della mancata collaborazione, fra coreografi e compositori. A mio giudizio, è un errore di valutazione da entrambe le parti, perché molti coreografi hanno una scarsa cultura musicale e, stupidamente, temono la potenza della musica, che possa sovrastare il linguaggio visivo, mentre compositori e musicisti guardano alla danza con sufficienza, come fosse un’arte minore da cui tenersi distanti. Eppure, se un coreografo ha idee chiare, rende davvero facile il lavoro al compositore. Io riesco a lavorare bene con Emanuela non solo perché approvo e amo il suo stile, e lo capisco intimamente, ma perché mi è molto facile prevedere di che cosa lei ha bisogno. Quasi sempre riesco a offrire subito ciò che le occorre, ma, quando non va bene, mi adeguo, perché ritengo sia fondamentale che lei ritrovi nel mio suono quello che lei sta facendo e vuole dire.
ET — Io non temo la musica di Giampaolo, anche se è difficile e molto ricca. Devo riconoscere la sua generosità: l’avermi fortemente aiutata anche quando non ho usato la sua musica, come in Hopper variations a fare la colonna sonora a partire dagli autori americani, come John Cage e Morton Feldman, che avevo scelto. Non è sufficiente, infatti, scegliere un autore, ma come ci si rapporta: non si può presentare un lavoro musicalmente frammentario, ma si deve ricercare una transizione. Nel teatro tutto è fondamentale, dalle luci al costume, ai danzatori: tutto. Altri colleghi coreografi prediligono musiche che non sovrastino la coreografia, perché devono rappresentare solo atmosfere — anche a me è capitato in tal senso —, oppure perché non tutti hanno la fortuna di lavorare con un compositore. Il problema è che a volte i budget sono talmente ridotti che è difficile persino trovare un tecnico, e quindi molti cercano di arrangiarsi come possono.
Capisco il discorso economico che menzioni, ed è assolutamente un dispiacere immenso e una profonda ingiustizia. Tuttavia, sono convinta che dinanzi a un’idea di valore, e nella quale si crede fortemente, con determinazione si possa trovare l’Artista disponibile a tradurla. In fin dei conti, nemmeno noi saremmo qui a parlare di Arte questo pomeriggio, se vigesse solo quel principio. In sostanza, quando scatta il meccanismo puramente economico, a mio giudizio il prodotto che si vuole realizzare assume un’altra levatura, e ciò è direttamente connesso alla diversità del fine.
GT — Mi è capitato di riflettere e parlare di questo in occasione di alcuni incontri a Ravenna, negli anni scorsi, con giovani aspiranti danzatori o maestri di ballo, ai quali ho cercato di far capire l’importanza della scelta, e che non tutta la musica è adatta alla danza. Occorre avere la consapevolezza di quello che si sta facendo, sapere che non va bene qualsiasi cosa, perché c’è musica e musica e la danza richiede che si sappia esattamente quello che si vuole ottenere sulla scena.
Torniamo all’educazione critica, che quando assente genera non solo incapacità di scegliere, di leggere l’altro, ma anche inconsapevolezza e ignoranza di sé, a partire dalle quali è difficile far emergere o creare Arte.
ET — Il suo seminario, non a caso, si intitolava “Consapevolezza nelle scelte musicali”.
GT — Occorre essere consapevoli di ogni singolo gesto, danzato o musicale, perché a quel gesto corrisponde un valore di scrittura ed espressivo. Esempio clamoroso: la coreografia televisiva, dove questo principio è annacquato, e il passo a due stereotipato è associato alla canzone pop in un modo che ne rende evidente l’inutilità dal punto di vista sia musicale ed espressivo, tanto più considerato che in quei casi il tempo metronomico è piatto, il ritmo quasi sempre binario e costante. Mi domando quindi a che cosa si aggrappi il coreografo per produrre, quando la musica semplicemente crea solo una generica atmosfera, un fumetto invece che un racconto.
ET — C’è però l’eccezione di Pina Bausch, che è geniale.
GT — Pina Bausch riesce a usare qualsiasi musica, dalle canzoni al cabaret, e anche a mescolare il tutto, perché ha una scrittura drammaturgica alla base, con cui lei investe di significato ciò che fa. La retorica televisiva, ormai, impone una certa banalità, ma ancor più grave è il caso del cinema, dove pochissimi registi italiani – penso positivamente a Sorrentino – sono in grado di usarla in modo espressivo. Il target, in generale, è usare canzonette più o meno melodiche o aggressive ma già conosciute e digerite dalle orecchie del pubblico a seconda di avere il momento romantico oppure quello impegnato, mentre per il resto, all’interno della struttura filmica non c’è quasi mai musica a commentare e sostenere adeguatamente le diverse situazioni. Per il cinema americano questo è invece fondamentale, il commento musicale è sostegno drammaturgico totalmente integrato.
ET — Il meraviglioso Alexandre Desplat…
GT — Oppure anche Hans Zimmer. Nel film “Interstellar” la musica ha un valore imprescindibile e, se si toglie la musica, viene meno il 50% della psicologia di personaggi e senso del dramma. Lo stesso vale per la coreografia. Mi è incomprensibile osservare coreografie anche pregevoli e ricercate, ma abbinate a scelte musicali minimali, incoerenti: non discuto la bellezza o bruttezza della musica, ma la correlazione drammaturgica ed espressiva con la coreografia; spesso i coreografi lavorano contro la musica, cercano un parallelismo e poco la convergenza. Cage e Cunningham, a dispetto di quanto ho appena affermato, riescono miracolosamente a lavorare in parallelo, in autonomia, ma poi la loro disomogeneità crea una bellezza espressiva risultante del tutto inattesa e necessaria: magnifica eccezione che conferma la regola.
ET — Ci sono casi straordinari, però, in cui alcuni coreografi hanno utilizzato una musica “non per balletto”. Penso a Die Winterreise di Schubert, e al capolavoro che Preljiocaj ha realizzato. Penso anche a Kylian e al suo talento.
GT — Questo fa esattamente la loro grandezza. Per me, che sono compositore, un coreografo è tanto più grande quanto più ha sensibilità musicale. Come dicevo, è un discorso difficile da fare, perché alcuni coreografi sembrano sentirsi sminuiti, dall’altro la grande maggioranza dei miei colleghi non scrivono per la danza e non la considerano affatto. Questo mancato contatto mi addolora molto, mi pare preludere a una fine del rapporto irreparabile e disastrosa nei suoi futuri effetti.
Mi risulta che sua madre fosse una danzatrice del Teatro alla Scala. In un certo senso, lei è “privilegiato”, perché è nato e cresciuto con il balletto.
GT — Assolutamente sì. Una delle prime cose che credo di aver sentito è Petruška di Stravinskij. In tutta la mia musica mi sono sempre forzato non solo di essere espressivo, ma di danzare. Ho un allievo, ora direttore d’orchestra, al quale ricordo sempre di cantare e danzare quando dirige, vivere la musica nella sua totale fisicità, non solo nel gesto da ginnastica. Io la vivo così, molto fisicamente, il mio grande rammarico è non essere un danzatore. Sono troppo goffo per farlo. [ride, n.d.r.] La danza e la musica sono arti gemelle: entrambe sono al contempo concettuali e fisiche, sensuali e filosofiche, in entrambe Eros convive con Psiche. Quando la si scrive e quando la si ascolta la musica percuote, trapassa il corpo e non si può non danzarla. È come cantare: cantare e danzare sono le due cose più belle nella vita, anzi sono la vita.
Si danza in molti modi…
GT — … come le onde del mare, che produce un suono e contemporaneamente si muove. Questa unità è inscindibile e non accetto che coreografi e compositori abbiano smarrito questa comune identità. Vero è che abbiamo smarrito talmente tante cose nella quotidianità e non dovrei più meravigliarmene... ma vorrei ancora cambiare il mondo, cambiarlo attraverso l’Arte, ed è quello che vorrei trasmettere ai giovani: l’unica vera rivoluzione possibile per gli esseri umani è quella spirituale attraverso l’Arte. Mi piacerebbe vedere questa positività e gioia consapevole celebrata anche nella danza contemporanea, mentre troppo spesso il contemporaneo è associato al sofferente e tragico, al negativo, elogio della morte.
ET — Pina Bausch, geniale e rivoluzionaria, è riuscita in questo, perché presenta con ironia concetti estremamente tragici – rappresenta proprio la Germania buia di quegli anni e i conflitti eterni uomo-donna. Questo cliché è un po’ superato, ma all’inizio, quando si diceva “insegno contemporaneo”, voleva dire “essere tristi e depressi”, buttarsi a terra, con un incentivo a valorizzare una tendenza verso il basso. Eppure, pensiamo alla grande modernità del Novecento, con danzatrici come a Mary Wigman, Hanya Holm, Isadora Duncan, Marta Graham! Il balletto classico si associa all’alto, a differenza del contemporaneo al suolo, ma secondo me non c’è questa distinzione. Quando insegno, dico che bisogna essere radicati al suolo per proiettarsi verso l’alto.
Platone utilizza per l’uomo l’immagine di un albero rovesciato, avente le radici in cielo.
GT — Proprio per questo non mi capacito del fatto che non si possa più celebrare la bellezza dell’esistenza, la gioia e l’Eros tramite la danza contemporanea, una danza che non è mai capace di sorridere.
ET — Il contemporaneo è un grande contenitore, dentro cui c’è un po’ di tutto. Ci sono varie tendenze e, per fortuna, non va tutto in quella direzione, e il pubblico fa poi la sua parte. Se tu credi nel tuo lavoro e lo sai difendere, non puoi omologarti agli altri. L’autenticità di un’artista è tale che non si possa dire “appartengo a quella corrente”, anzitutto perché “appartenere” suona davvero anacronistico. Anche per questo io cerco di insegnare ai miei allievi che non esiste più il danzatore classico e quello contemporaneo, ma esiste “Il danzatore”, poliedrico e capace di adattare il proprio corpo a qualsiasi stile e richiesta del coreografo. Negli anni ’90, quando vivevo in Francia, o eri un danzatore classico o contemporaneo. Guai, nell’ultimo caso, a fare la sbarra! Lo vediamo anche nelle programmazioni dei grandi teatri lirici, dei teatri d’opera: all’Opéra de Paris danzano La Bayadère e Il lago dei cigni, ma anche Sagra di Pina Bausch, e contemporanei come Crystal Pite, di recente. Lo stesso in Scala e negli altri teatri.
Non bisognerebbe mai elevare barriere culturali o artistiche, a qualsiasi livello e settore. L’Arte non ha confini; ha certo modalità d’espressione differenti, che meritano ciascuna rispetto nella propria costitutiva ed espressiva individualità. Eppure, quali che siano le sue singole manifestazioni, nelle arti è possibile cogliere un principio unitario che le sostiene tutte, e che è alla base della loro trasversalità. A priori, dunque, non c’è differenza fra un danzatore e un musicista.
GT — La nostra società continua a costruire steccati e divisioni, pur non avendo un criterio sensato della gerarchia dei valori. Per questa ragione, per alcuni le parodie d’artista divengono equivalenti all’artista stesso. Io scrivo piccoli brani di musica strumentale per un famoso grande editore radiotelevisivo con lo stesso impegno nella strutturazione interna drammaturgica, narrativa, discorsiva e di complessità proporzionata alla brevità del prodotto finale, al massimo delle mie capacità, come se scrivessi una sinfonia. Non cerco e offro un surrogato musicale, non posso mentire a me stesso e al mio stile. La forma è importante, e ancor di più lo è la veridicità, l’intensità del pensiero dell’artista. Non sono contro la musica commerciale, ma contro il fatto che non ci sia la possibilità di costruire una semplice “canzone” con lo stesso criterio artistico di una sinfonia; combatto contro il cliché della presunta semplicità che è solo una semplificazione e riduzione di pensiero musicale. Penso che possa esistere bellezza condivisibile anche nella complessità: la complessità non è un nemico della piacevolezza, se è trasparente nella sua dinamica narrativa, se lavora sul piano emozionale e sensuale.
Il problema è a carico di quanti si accontentano della superficialità, sovente privi di guide che insegnino a cogliere e riconoscere i valori. L’apparenza, purtroppo, ha un sorriso che talora seduce, e talaltra pare essere conveniente.
GT — C’è poco tempo, e in fretta c’è chi desidera mettere la propria ambizione sul palcoscenico, guadagnare, insomma “esserci”. Prima di “esserci”, bisogna “essere”. È difficile far comprendere questo a un giovane, che è giustamente ambizioso, ma per “esserci” bisogna “essere”, e per “essere” occorre faticare e studiare e sentire dentro di sé la propria urgenza e verità artistica, se c’è davvero.
ET — Magari non sarai un danzatore, ma potrai essere un buon maestro. La formazione è importante, così come non avere la pretesa di essere tuttologi, senza nutrire una conoscenza critica. Fortunatamente nei miei corsi, anche di scrittura coreografica, vengono persone con la voglia di mettersi in gioco e che nel loro mestiere non vogliono cadere nella mediocrità, perciò cercano di aggiornarsi. Il che è tutt’altra storia rispetto a chi è convinto di diventare maestro o professore in due giorni.
GT — Essere veri maestri, di vita anche, è un’enorme responsabilità.
I buoni maestri educano, e l’educazione è un processo di “trazione”, il “tirare fuori” dall’allievo il meglio di sé. Si pone allora la domanda. Da un lato, una persona prima deve “essere” e poi “esserci”, e dunque è lui stesso anzitutto a comprendere se è un artista e, eventualmente, in che modo, ambito e livello. Dall’altro, Emanuela ha detto di essere consapevole che alcuni allievi non diventeranno danzatori. Nella definizione e nell’affermazione di “artista”, come conciliare l’aspetto introspettivo e personale con questo sguardo valutativo esterno?
ET — Al danzatore che a venticinque anni vuole fare il ballerino classico, a meno che non abbia doti spaventose, gli si fa prendere coscienza che magari deve pilotare le proprie energie su altro, se davvero vuole danzare. In ogni caso dipende, perché la danza è sì fisicità, ma bisogna associare pensiero e corpo. Noto che molti allievi non hanno coscienza di quello che sono; occorre dunque far scoprire a ciascuno le sue doti, sempre invitando a perfezionarsi e a non accontentarsi di quanto appreso. Lo dirò sempre, in primis a me stessa: non bisogna mai smettere di studiare, nemmeno quando si ha un diploma.
GT — È un concetto di vita molto, molto, impopolare.
ET — Studiare non significa soltanto leggere, ma avere sete di conoscenza, andare alle mostre, vedere gli spettacoli. Intraprendere un certo tipo di vita è studiare.
Io credo che il sentimento dell’Arte sia innato, e che per questo occorra averne grande e costante cura per farne fiorire i semi, in sé e negli altri. È una continua inesauribile rievocazione del Bello. Quanto all’assenza di rinnovamento, la normalità si esaurisce da sola.
ET — E con ciò si esaurisce anche la passione, la voglia di entrare in sala prove, quell’energia che dovrebbe esplodere in qualche modo. Questo è importante a tutti i livelli, dal ragazzo che comincia a studiare a quello appena diplomato, alla persona che lascia perché al primo fallimento o delusione non regge. Il carattere conta molto, così come non avere come obiettivo il successo o il confronto con l’altro. Ciascuno deve fare il proprio percorso.
Nella frase “l’importante è esserci” manca infatti una parte decisiva: il “come”.
GT — È una tragedia epocale, che investe tutta l’arte, e la vita in generale. In questi giorni Emanuela sta svolgendo un lavoro fantastico con alcuni allievi della Scala, con risultati davvero interessanti, perché, fa loro capire che si trovano in una situazione anomala di costrizione, ma li ha aiutati a lavorare come coreografi e non solo come interpreti. Se c’è una cosa che in loro rimarrà di questo periodo, e che li cambierà e influenzerà nel loro modo di essere interpreti, è proprio l’averli stimolati alla parte creativa su stessi: un esperimento da vero buon maestro.
ET — Mentre con la Paolo Grassi e la SPID faccio lezioni online, con gli allievi diplomandi della Scala ho pensato a un lavoro di “atelier”, di seguirli in un percorso creativo. Ho deciso di assegnare brevi composizioni, brevi cellule coreografiche – titolo “For Small spaces” – in ambienti chiusi e piccoli, con un limite che però può dare origine a qualcosa di più introspettivo, ma anche più originale. La prima volta presentano quasi la sequenza al suolo mostrata per il riscaldamento. Già snaturare completamente quell’aspetto, e far loro capire che il processo di creazione, anche solo di due minuti, non sono i passi imparati, ma la vita, è un traguardo. C’è chi si è ispirato a un libro, chi a un film, chi ha immaginato di essere fra mura di cristallo, chi fra le mura in cui vivono e riscoprire la tranquillità della casa persa da quando erano entrati in Accademia. Mi inviano brevi video, che io correggo, e poi rimando. Alcuni ragazzi che in sala vedo deboli, nella tecnica e nelle proposte, da soli, nel rapporto one-to-one, maestro e allievo, si sono lasciati andare, e il risultato mi ha riempito. È venire a contatto con l’intimità di un allievo, e sentirsi come un traghettatore, non un giudice, ma il mezzo per una loro crescita.
Sono stati positivamente costretti a non riprodurre il tuo linguaggio, ma a scoprire e crearne uno proprio. Quando un coreografo propone delle sequenze, è inevitabile che ciascuno le danzi e le interpreti in modo differente, e ciò è possibile nella misura in cui ci “mette del proprio”. In una coreografia d’insieme, in cui occorre mantenere un certo ensemble tecnico e musicale, tante volte si ricercano danzatori con la medesima fisicità per dare proprio un’idea di unitarietà: lì, probabilmente, lo scopo non è far emergere il danzatore, ma l’idea che sostiene la coreografia, quasi “annullare” l’individualità dei singoli per far trasparire un qualcosa di più elevato. È forse giusto considerare il danzatore, o un altro artista, “solo” come un esecutore?
GT — Non bisogna misconoscere l’idea della mera “esecuzione”. Un vero interprete, rispettoso dell’indicazione, come un musicista in un’orchestra, compie uno sforzo di immedesimarsi nella correttezza e nell’espressività di quanto scritto, uno sforzo che richiede una grande capacità di ascolto, grande intelligenza per mettersi a disposizione del fine ultimo generale. Si tratta di diventare parte dell’opera d’arte, essere dentro quel pensiero. Il ballerino di fila che balla male, o il musicista che suona svogliato, sta commettendo un errore enorme.
ET — Nel caso di balletti classici, di momenti come le ombre in Bayadère, c’è bisogno di quel tipo di coralità.
GT — Torniamo alle gerarchie. Un interprete, un esecutore, non è un creatore vero, ma è parte stessa della creazione, e più riesce a essere parte integrante della creazione, più è un grande interprete. Senza i grandi interpreti non esistono i grandi creatori.
Concordo sull’importanza di non stravolgere il progetto, l’idea, per una smania personale, ma di coltivare piuttosto il desiderio di avvicinarsi al pensiero di chi crea. Mi domando inoltre se, quando qualcuno riesce ad eseguire bene, lo fa perché si svuota della propria personalità per venire totalmente in contatto con quella del coreografo o compositore, oppure perché ha raggiunto un livello talmente elevato di consapevolezza di sé che è in grado di ascoltare l’altro e farsi strumento di quella voce.
GTi — Sono per questa seconda versione. Tra un esecutore e un interprete c’è una differenza: il vero interprete è quello che riesce a fare esattamente quello che gli viene richiesto, e questo non è sminuire se stessi, anzi. Penso a Balanchine e alle sue grandi muse: è riuscito a creare cose così meravigliose per la danza al femminile, perché aveva davanti a sé interpreti meravigliose, sue muse ispiratrici, incarnazioni del suo stile. Quando Suzanne Farrell se ne venne in Europa a lavorare con Maurice Béjart, Balanchine cadde in depressione, e non creò più nulla per le altre sue danzatrici. Questo per dire che il vero grande interprete è fonte di ispirazione insostituibile per il creatore, nella danza come nella musica.
ET — Il coreografo ha bisogno di questo genere di interpreti, e lo stesso vale a qualsiasi livello. A differenza che nella coralità richiesta dal balletto classico, nelle creazioni contemporanee c’è maggiore spazio per l’apporto personale. Anzi, in questo caso, la personalità dell’interprete serve al coreografo per costruire.
Nel balletto classico sarebbe una sbavatura, una perdita di efficacia artistica ed estetica, proprio nella misura in cui viene meno la forma.
GT — Quel partecipare, diventare un’unica linea – penso ancora a Bayadère – è uno dei momenti più sublimi di tutto il balletto classico, anche dal punto di vista musicale. Il genio di Petipa elabora quel linguaggio perché ha a disposizione un vocabolario che messo in mano agli interpreti di quell’epoca dà vita esattamente all’idea di romanticismo che ora noi conosciamo. Per questo quella scena delle ombre è uno dei simboli più alti e rappresentativi del romanticismo, dell’arte in generale e non solo del balletto.
ET — Anche il secondo atto di Giselle, che è quasi il manifesto del romanticismo.
GT — Pina Bausch, invece, ha bisogno che ogni suo interprete sia diverso, ma, in fin dei conti, i suoi interpreti sono lei, sono tanti pezzi di lei, senza i quali Pina Bausch artista non esisterebbe. Nella danza contemporanea questo scambio mutuale fra il creatore e l’interprete è molto forte.
ET — Ed è sempre in funzione della “materia” che hai di fronte.
GT — Faccio un esempio. Emanuela, tu hai cominciato a lavorare con Luciana Savignano nel 2007 con Luminare minus, quando Luciana era già una danzatrice matura, per cui hai optato per un lavoro più teatrale, che valorizzasse a pieno il suo carisma.
ET — Anche ferma, lei è danza, e per me rappresenta la sacralità.
L’Arte possiede un magnetismo che si autoalimenta, e diventa forza, in chi crea e in chi la riceve, poiché crea consapevolezza e bellezza, anzi Bellezza consapevole. L’Arte salverà il mondo – lo credo –, ma non bisogna accontentarsi di pronunciare questo augurio, poiché non basta non fare il male per credere di fare il bene; ciascuno, a proprio modo, con i propri mezzi, deve agire. Ecco, rimedi per alleviare questo “torpore”, e convertirlo in gioia per il creare?
ET — Per me la formazione, dare l’esempio. A volte, anche stare fuori determinati circuiti e non avere paura di stare nell’ombra, continuare la propria strada con coerenza, senza omologarsi, senza necessità di un’appartenenza, agendo con impegno, correttezza e determinazione ovunque, che sia una lezione in una scuola privata o in Accademia. Penso che la gente non sia restia a priori ad accettare insegnamenti e consigli. Occorrono semplicità e autenticità: insegnare è un atto di grande generosità, che l’allievo può cogliere o no, in qualunque momento del suo percorso, anche dopo anni.
GT — Anche per me: dare l’esempio, essere un esempio vivente. Per i tuoi allievi o per coloro a cui parli, devi cercare di essere vero, non ingannarli. Guardando in faccia i tuoi allievi più giovani, se non sei cinico, comprendi la tua responsabilità morale, non li puoi tradire, loro pendono dalle tue labbra, hanno bisogno di idee e di credere che esistano delle idee per cui lottare, vogliono sapere che cosa è bene e che cosa è male. Il grande valore dell’insegnamento risiede nel non tradire queste aspettative, nel dare e meritare fiducia e sentire la responsabilità di questo ruolo senza essere gelosi del proprio sapere. Il vero maestro trasmette i segreti, e se nega una parte fondamentale di verità ai propri allievi commette un crimine.
Come nei circoli virtuosi migliori, tutta questa verità è più facile da cogliere quando è sorretta da conoscenza.
GT — Certo, ed è per questo che bisogna trasmettere i valori dell’umiltà e del mettersi a lavorare e conoscere. Incoraggiarli, e poi dir loro che devono guadagnarsi la tua fiducia se vogliono aumentare quella in loro stessi.
Nel Piccolo principe, si legge, assai significativamente, che se si vuole costruire una nave, bisogna anzitutto risvegliare negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Eppure, ogni mare suona e danza in modo diverso, pur essendo unico il suo Direttore artistico, perché è bello cogliere la varietà degli stili e, nella loro molteplicità, assaporare un briciolo dell’Arte, che è una. Rivolgendo lo sguardo a voi stessi, quale chiave di lettura usereste per definire il vostro stile?
ET — Il mio stile è la risultante delle mie esperienze come danzatrice, e poi come insegnante di tecnica contemporanea. Molti dicono che nel mio stile c’è leggerezza e fluidità, un senso quasi poetico del movimento. Io, in effetti, non saprei definirlo. C’è stata sicuramente un’evoluzione, e ogni volta rispecchiava come io ero in quel momento, perché il corpo subisce gli stati d’animo. Nel mio stile, un altro elemento è l’aver lavorato con danzatori molto diversi. Non saprei dare una definizione del mio linguaggio coreografico: so che quando mi muovo sento un movimento non più crudo, staccato, spigoloso – come in passato –, ma una circolarità del movimento, un flusso interiore. Recentemente ho lavorato sul frammento, e ora mi interessa soprattutto lo spazio fra i corpi, il modo in cui interagiscono. Quanto a Giampaolo, lo voglio dire, ha uno stile ricco e virtuoso, perché tutti i musicisti che affrontano la sua partitura devono studiare!
Tutti i poeti devono sapere tenere in mano un calamo, altrimenti l’inchiostro macchia la pagina.
GT — Il difetto della mia musica è che se sbagli una nota si sente. Quando ho cominciato nel 1978, mi sono ribellato al linguaggio delle avanguardie. Definirono il nostro piccolo gruppo “neoromantici”, prendendo questo prestito da una definizione che un critico americano diede a un gruppo di compositori americani di poco precedenti il nostro. Per traslazione e semplificazione ci affibbiarono questa definizione, ma in verità fu tutto un movimento, agli inizi degli anno ’80, di rinascita e ribellione dalle avanguardie, ben visibile anche nella pittura, per esempio con la Transavanguardia, con grandi come Sandro Chia e Enzo Cucchi, che si misero a ridipingere in un tempo in cui si facevano solo (o quasi) installazioni. Nella poesia lo stesso: contro il Gruppo 63, allora dominante, era nato un gruppo di poeti intenzionato a tornare alla poesia come espressione, come Canto. Io ero molto giovane, avevo ventidue anni, ma avevo compreso che potevo ricollegarmi ai grandi autori del Novecento, e non solo, che tanto amavo solo approfondendo il più possibile la mia tecnica di scrittura musicale. Senza tecnica non si può esprimere nulla, o non in modo compiuto. Negli anni delle avanguardie, quando questa tecnica era quasi considerata superflua, un peso contro la libera creatività, chiunque volendo, poteva comperarsi la sua legittimità, la sua “patente d’artista”… Non sto negando l’importanza di quel momento storico, nel dopoguerra ci si doveva pur liberare della mancata libertà d’espressione, ma per eccesso di libertà, si crearono questi nuovi “mostri”, nichilisti e mistificatori, urlatori e sbeffeggiatori, distruttori della Memoria. Per questo l’idea assolutamente classica di elaborare uno stile che partisse dalla padronanza della scrittura era in realtà innovativa e contraria a questa nuova autoreferenziale convenzionalità e progettualità nell’arte. Il mio stile è costruito sull’assimilazione appassionata di tutti i maestri di tutte le epoche che ho amato rielaborandoli, loro come eterni miei contemporanei, mia fonte inesauribile di ispirazione. L’Arte è fatta di memoria, non ha una sola darwiniana direzionalità, è un gesto amoroso potente.
L’auspicio, allora, è che l’Arte faccia sentire la propria voce universale, l’accordo delle sue Muse, se è vero che, come ricorda Cicerone, «la memoria è tesoro e custode di tutte le cose».
Selene I.S. Brumana