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"HAMMAMET" di Gianni Amelio. -di Vittorio Giacci

Pierfrancesco Favino in "Hammamet" di Gianni Amelio Pierfrancesco Favino in "Hammamet" di Gianni Amelio

Hammamet di Gianni Amelio

La dolente evidenza di una morte al lavoro

Il vuoto si fa più esiguo della cella più angusta.
Finché la malinconia fronteggia il vuoto e non sprofonda nello stupore senza sosta,
un ricordo esaspera il vuoto: il ricordo dei poteri perduti,
il fantasma del vigore che non rinascerà.
Jean Starobinski, La coscienza e i suoi antagonisti

Chi cercava in Hammamet un film biografico su Bettino Craxi e sulla storia politica recente del nostro Paese, fermandosi alla soglia del pro-filmico, del pre-testo, di ciò che è prima del film senza entrare nel filmico, nel testo, in ciò che è dentro il film, sarà rimasto probabilmente deluso.
Ma Gianni Amelio, tra i più colti e preparati cineasti italiani, dopo un’adolescenza da accanito cinéphile trascorsa tra circoli e redazioni di riviste di cinema, senza mai essere transitato da una scuola (al Centro Sperimentale ci andrà da insegnante) ma forte di una solida pratica di set (è stato aiuto-regista di Vittorio De Seta, Gianni Puccini, Ugo Gregoretti, Liliana Cavani), non ama il cinema diretto, declamatorio, unidirezionale; rifugge dalla indignazione civile troppo esibita e dall’ insistenza inquisitiva; aborre “lo scadere nel dimostrativo”; è refrattario alle “cadenze nefaste della denuncia” e certamente con quest’opera non ha inteso realizzare né un docu-film né un’inchiesta né un manifesto o -come lui stesso ha precisato- “un comizio di parte”, e neppure fare “il resoconto esaltante o travagliato di un partito e men che mai un film che desse ragione o torto a qualcuno”, quanto piuttosto “rappresentare un comportamento, stati d’animo, impulsi, giusti o sbagliati che fossero, cercando l’evidenza e l’emozione”. Ed evidenza ed emozione: sono proprio le parole chiave per comprendere non solo questo film ma tutta la sua filmografia..
Lo dichiara apertamente e senza indecisioni quando afferma: “sono sempre stato incapace di raccontare il sociale secondo gli stilemi degli anni in cui si facevano i film di questa natura. (…) Non saprei da dove cominciare per raccontare un’assemblea, un comizio, qualsiasi cosa che esuli dall’angoscia di un singolo o dal sorriso di un singolo. In Colpire al cuore non ho raccontato il terrorismo, mi sono rivolto alla storia di un padre e di un figlio che poteva essere soprattutto edipica. Quando, in Ladro di bambini, mi sono posto il problema di come raccontare il mutamento dell’Italia da società agricola a civiltà industriale, questa mutazione radicale di cui ha sempre parlato Pasolini ho capito che non avrei saputo raccontarla in nessun altro modo se non passando attraverso l’inquietudine e le contraddizioni di esseri umani, attraverso le evidenze del gesto, lo sguardo, la parola, il sorriso, la lacrima. E, in Così ridevano, ho voluto “raccontare la Storia attraverso la passione, che è poi la mia costante. Qualcosa che passi quasi esclusivamente attraverso il privato”. (1)

"HAMMAMET" regia Gianni Amelio

Ancora tutto da onorare nei confronti del leader socialista il dovere storico e politico di riconsiderazione complessiva della sua figura e del suo operato, anche se fortunatamente iniziato (2) e che certamente non poteva spettare ad un film soltanto, Amelio, tra il Politico ed il Poetico, sceglie il Poetico; tra il Dato e il Sentimento il Sentimento, tra la Ragione e la Passione la Passione, realizzando un’opera poetico/politica dove è il primo elemento ad illuminare il secondo.
Non una cine-biografia, allora, genere che il regista detesta (“guai a fare le biografie se non diventano autobiografie” ha dichiarato a proposito de I ragazzi di via Panisperna) e che non era nelle sue intenzione svolgere, convinto che il cinema non registri ma guardi, con lo sguardo libero e soggettivo di un autore, e che suo compito non sia di sostenere assiomi ma di sollevare questioni, suscitare emozioni e passioni, soprattutto intervenire, come in questa occasione, sulla contrapposizione tra ricordo e dimenticanza.
Se Hammamet fosse letto alla stregua di un biobic non mancherebbero, come è inevitabile, omissioni, incoerenze, incongruenze, licenze più o meno accettabili, forse anche tradimenti, ma non è questo il caso, essendo niente altro e niente più (ma è tantissimo ed importantissimo) che uno sguardo dolente sulla sofferenza.
Amelio sceglie infatti di soffermarsi sugli imperativi morali del rispetto, della dignità, della pietas, in un procedimento a ritroso che “scavi nell’uomo per poter capire il politico”, e ciò in piena e ricorrente coerenza espressiva, dal suo primo cortometraggio, La fine del gioco, al suo ultimo lungometraggio prima di questo, La tenerezza, senza il quale Hammamet non avrebbe potuto essere neppure concepito.
Parco evocatore al servizio di una coscienza solcata da azioni e contraddizioni, di un dolore da esternare nell’evidenza concreta di un’immagine senza infingimenti, ipocrisie od indulgenze, Hammamet non privilegia il momento storico collettivo per metterne in scena le conseguenze individuali e le urgenze morali, quando le luci si mutano in ombra, le azioni in solitaria meditazione, l’ adulazione in dileggio, la calca osannante in assordante silenzio.
Il cinema di Gianni Amelio si iscrive nella figura geometrica di un quadrilatero i cui lati sono costituiti da centri tematici (confronti e conflitti padre/figlio; potere/giustizia, ragione/passione, passato/presente) ricompresi entro centri semantici (regole di linguaggio e tecniche cinematografiche come le forme del realismo, l’ellissi, la comunicazione indiretta, il fuori-campo), a loro volta racchiusi all’interno di centri relazionali le cui pietre d’angolo sono costituite da eminenti personalità autoriali (Renoir e Rossellini, De Sica e Antonioni), un fitto reticolo di incroci, connessioni e confluenze che ne localizzano la condizione fondante, ne attraversano il segno e ne ampliano il senso.
Amelio é “sempre ‘compagno di strada’ dei suoi personaggi - osserva Emanuela Martini- mai manipolatore, anche quando li guida verso abissi emotivi insostenibili. (…) Il suo cinema è ‘concreto’, i suoi personaggi esistono, sono di carne, anche nel disastro della loro identità, anche nella loro afasia affettiva anche nelle percezioni confuse e irrisorie della loro giovinezza e nei preconcetti della loro maturità. (…) Da un film di Amelio non si esce pacificati o soddisfatti di sé, ma piuttosto pressati dalle domande che i suoi personaggi ci pongono, dai problemi irrisolti che lasciano, dalle strade etiche che ci costringono ad imboccare”. (3) Di questo “metodo” Hammamet osserva scrupolosamente ogni raccordo mostrando non solo l’intricata tessitura del testo bensì anche la statura d’ autore del suo realizzatore.

"HAMMAMET" regia Gianni Amelio

Il film, che (quasi kafkianamente) omette i nomi (Craxi non è mai chiamato per nome) per i ruoli (Il Presidente, come nel romanzo di Simenon a cui, per qualche verso, il film si avvicina, la moglie, il politico, l’amante, il figlio) o li cambia (Vincenzo Sartori invece di Vincenzo Balzamo, Anita invece di Stefania), persegue, in uno sguardo più ampio fuori da ogni cronachistica contingenza, la relazione padre/figlio (con le sue varianti adulto/ragazzo, maestro/discepolo, giudice/imputato) che riguarda integralmente, in maniera esplicita od indiretta, la sua filmografia, da Colpire al cuore a Porte aperte, da La città del sole a Il piccolo Archimede, da Effetti speciali a I ragazzi di via Panissperna, da Lamerica a Così ridevano, da Le chiavi di casa a Il primo uomo, da L’intrepido a La tenerezza, immettendovi l’elemento autobiografico dell’assenza del proprio padre, espatriato in Argentina quando Amelio era ancora in tenera età.
E’ questo, senza dubbio, il nucleo profondo del film, quello che più sta a cuore al regista e gli fornisce l’accesso al soggetto politico. “L’ispirazione è arrivata dal mito, da Cassandra e Priamo, Elettra e Agamennone, Cordelia e Re Lear” -fa notare- richiami che inseriscono nella universalità tematica dell’ascesa e del declino, della gloria e dell’oblio, del potere e del suo venir meno, leggendo nel “caso C.” (così lo chiama il figlio) non un fatto inedito ma un evento immerso nel Tempo, tramandato dal Mito, narrato dalla Storia e raffigurato dall’Arte.
Indissolubilmente intrecciato ed affrontato anch’esso nelle precedenti opere è, infatti, come nel capolavoro shakespeare evidenziato dallo stesso Amelio, il potere, nelle sue ebbrezze e nei suoi eccessi e ne apporto tra potere ed individuo, tra potere e giustizia, tra giudizio e condanna, tra innocenza e colpevolezza, da La città del sole sul filosofo utopista Tommaso Campanella accusato di eresia agli inizi del XVII secolo a Porte aperte, dal romanzo di Sciascia ispirato ad un famoso processo degli anni Trenta, un caso giudiziario da trasformare, da parte del regime, in caso esemplare con la richiesta di condanna a morte solo temporaneamente mitigata, grazie all’intervento di un giudice popolare, un contadino acculturato che mostra di conoscere Dostoevskij e di aver letto Delitto e castigo, opera che si riverbera nella produzione di senso che ne offre Amelio in Hammemet.
“Ho raccontato di figli che non erano figli ma era come se lo fossero -spiega il regista- o di figli che erano figli ma qualcuno non li riconosceva. In la fine del gioco un adulto e un ragazzo si parlano, non sono padre e figlio ma figurativamente hanno l’età per entrare in quei ruoli. Poi La città del sole, dove vedi le cose a specchio: un monaco incontra un pastorello e gli trasmette un certo sapere e una certa coscienza. Poi si vede il suo vero padre, che disconosce il figlio. Quindi, nello stesso racconto qualcuno che non era padre naturale dava delle cose e qualcun altro che invece l’aveva messo al mondo le toglieva, e questo dare e questo togliere è un filo rosso che lega tutte le paternità e le figliolanze dei miei film e certamente nasce dalla mia vita”. Si ricorda che Gianni Amelio è autore di un romanzo, Padre quotidiano, in cui racconta la sua esperienza di padre adottivo, quando in Albania stava girando Lamerica e che Luan Amelio Ujkaj, il ragazzo da lui adottato, è diventato operatore cinematografico ed ha curato la fotografia, ellittica anch’essa come l’andamento del film, di Hammamet. (4)
Ma Amelio non è esattamente un “regista di bambini”, appellativo che è più corretto lasciare a Comencini, ma di adulti. “Nei miei film -precisa infatti l’autore- il protagonista vero è sempre l’adulto, spesso il bambino è la maschera dell’adulto non cresciuto, comunque più duro e intransigente dell’adulto, meno disposto a patteggiare. Bambini e ragazzi sono specchi più o meno deformati degli adulti che hanno di fronte”.
In Hammamet, tra padri e figli, se ne contano addirittura sei: Il Presidente; suo padre; Vincenzo, voce critica inascoltata; e altrettanti figli: i due del Presidente e Fausto, il figlio di Vincenzo. Destinati o ad uccidere il padre od a tentare di salvarlo, essi sono in relazione dialettica continua con i propri genitori, pur se legati a loro da un fortissimo legame affettivo. Craxi, nel film, per marcare una sua diversità esistenziale rispetto alla figlia che lo accudisce amorevolmente fino al termine della vita tentando in ogni modo di convincerlo a rientrare in Italia per farsi curare, afferma, a proposito dei limiti alimentari che gli impone per la sua salute: “Anita dice che bisogna aggiungere gli anni alla vita. Io dico che bisogna aggiungere la vita agli anni” per poi commuoversi al ricordo di quando le dava, da bambina, la mancetta o davanti al figlio che tenta di raggiungere il medesimo risultato del ritorno in patria perseguendo la via politica, quando gli intona alla chitarra Piazza grande di Lucio Dalla. Vi è poi Fausto, personaggio di fantasia che a tratti assume il ruolo di deuteragonista, il quale fa irruzione nella residenza del Presidente per consegnargli una lettera postuma del padre, in realtà con l’intento di vendicarne la morte uccidendolo, e che Craxi invece riconosce, abbraccia, ospita, rivelandogli persino segreti che nessuno, nemmeno Anita, conosce.
La complessità dei legami affttivi e parentali per Amelio non consegue soltanto dall’antagonismo generazionale o dalla spigolosità caratteriale ma è più sottile e riguarda, ad esempio, “l’irritazione che a volte hai con le persone che ti vogliono bene quando diventano troppo premurose. Perché ti fanno sentire un’età che tu dentro non senti. Ti avvertono che non sei più giovane”. Così, ne La tenerezza, il protagonista Lorenzo, un analogon del Presidente in Hammamet in quanto uomo di successo caduto poi in disgrazia, ha una reazione brusca verso la figlia, proprio come quella che Craxi ha nei confronti di Anita sull’atrio dell’albergo nel quale si reca per rivedere l’amante, un gesto certamente non ostile, dettato solo dalla comprensibile volontà di dimostrare la propria autosufficienza, un tocco umano che accresce la sensibilità del personaggio, come l’accenno alla golosità che ricorre in diverse sequenze. E la frase che Amelio fa dire a Craxi: “restare senza figli è la cosa più atroce” non fa che ribadire l’importanza che il regista attribuisce a questa tematica.

"HAMMAMET" regia Gianni Amelio

Hammamet si apre con un prologo in cui si vede un bambino che infrange i vetri di una finestra e, dopo una didascalia (“alla fine del secolo scorso”) che sottrae la vicenda alla temporalità breve della cronaca, inizia con un incipit sul Congresso del Partito Socialista all’ex Ansaldo di Milano nel 1989 quando Craxi, dopo essere stato il primo presidente Socialista della Repubblica, viene plebiscitariamente rieletto segretario del partito raggiungendo l’acme del potere e della popolarità ma dove avviene anche un poco piacevole incontro con il direttore amministrativo Vincenzo che lo mette sull’avviso (“il morbo è diventato epidemia”) del terremoto giudiziario che si sarebbe abbattuto da lì a qualche anno, e nei confronti del quale reagisce, nonostante un legame di sincera amicizia, con indisponenza, scena alla quale seguono i titoli di testa ad enunciare, anche iconicamente, la traumatica frattura che segnerà la fine della Prima Repubblica.
Dopo, tutto si svolgerà soltanto ad Hammamet, nella dimora di Craxi (parte delle riprese sono state effettuate in quella autentica) durante i suoi ultimi mesi di vita, in un altrove spaziale sospeso dentro una storia che abbandona il tempo fisico per accedere a quello mentale, in una prospettiva cronologica senza futuro dove il presente è cocente memoria di un trascorso rimosso e l’esistenza rabbia e rimpianto, rancore e rammarico, con la cinepresa a pedinare, zavattinianamente, un corpo fantasmatico, colpito dalla malattia e, più ancora, ferito dai percorsi accidentati della Storia, in un luogo altro, astratto, soggettivo, differito, antitetico rispetto all’evento scatenante, rigorosamente “fuori-campo”, non visto e non rappresentato ma soltanto rievocato nella cifra stilistica del discorso indiretto, monologhi interiori di qualcuno a confronto con sé stesso che “scompare”, un pò come il Majorana de I ragazzi di via Panisperna ma che, lungi dal voler sparire, lotta per riscattarsi, per tornare ad essere.
Nota Alessandro Cappabianca (a proposito de Lamerica ma l’osservazione, grazie all’unitarietà tematico-espressiva del cinema di Amelio, è pertinente anche qui: “L’interrogativo sul dove si rivela qual è, interrogativo sull’essere. Il luogo è l’essere, perdere il luogo è perdere l’essere”. (5) Ed essere fuori dal proprio Paese, fuori dal partito, fuori dalla politica, fuori dal contesto istituzionale, è lo spaesamento totale, una catastrofe emotiva alla quale è impossibile sopravvivere.
E’ un processo formale che sembra eludere il Fatto ma lo trascende nell’evidenza di una tragica drammaturgia che sa toccare punte di atroce tenerezza e rende l’atto narrativo e lo svelamento figurativo di quel “conto in sospeso” semmai ancor più comprensibile e doverosamente decifrabile a vent’anni dalla scomparsa del suo protagonista.
La cinepresa tallona un corpo affaticato, carne viva che rende palpabile la sofferenza, e nelle pieghe del volto manifesta quel lento lavorio della morte che sembra appartenere, ontologicamente, alla natura stessa del cinema. Jean Cocteau lo aveva infatti definito “morte al lavoro” (e La morte al lavoro è il titolo di uno dei primi film di Amelio) ma, così facendo, fa paradossalmente trasformare in una presenza referenziale una assenza reale, in virtù anche della potenza mimetica dell’attore (un incomparabile performance di Pierfrancesco Favino) il quale “preso possesso” degli aspetti esteriori di una persona grazie alla sorprendente tecnica del prosthetic make-up (designer Andrea Leanza), ne acquisisce la fisicità, la postura, i gesti, il caratteristico caracollante incedere, il timbro della voce, persino il respiro affannoso per restituirne con impressionante verosimiglianza sia le asperità di un carattere aggressivo e sincero, di una personalità a volte sprezzante, i soprassalti di orgoglio, di fierezza e di insofferenza ma anche gli abbandoni alla tenerezza, all’ironia, non per farne un calco ma per consegnarne la dimensione interiore e con essa l’umana angoscia dell’ uomo caduto e abbandonato.
E mentre la macchina da presa, tanto è forte l’impressione di realtà, sembra non essere diegesi ma farsi mimesi, non raccontare ma osservare, diventare attività non più rappresentativa ma discorsiva, quasi ridotta a quel “grado zero della scrittura” di cui parla Barthes, lo sguardo dell’autore interpella non solo un corpo ma anche un’anima, destinataria di una solitudine, che non agisce ma rammenta.

"HAMMAMET" regia Gianni Amelio

“Mostrare non dimostrare”: mai come in questo film Amelio attua la lezione del “padre sapiente” Roberto Rossellini, così come non tralascia l’influenza esercitata dai suoi autori di riferimento, ad esempio l’Ernst Lubitsch maestro della regola del discorso indiretto. A questo dispositivo, di derivazione shakespeariana, il regista fa ricorso infatti nella sequenza centrale dell’incontro tra Craxi ed un vecchio rivale politico (interpretato da Renato Carpentiere, memorabile figura paterna ne La tenerezza), un navigato ex-parlamentare volutamente non identificabile in una precisa individualità ma vera e propria summa dell’opportunismo, del trasformismo e della convenienza, che gli consiglia, “in amicizia” ed in nome di una pragmatica realpolitik tutta italiana, di rientrare in patria, dichiararsi colpevole anche per colpe non commesse ed attendere pazientemente la smemoratezza, se non la riabilitazione e la riconciliazione.
In questa istanza narrativa il ruolo catalizzatore viene assunto da un soggetto secondario, che entra in scena e ne esce immediatamente dopo aver esaurito la propria funzione diegetica, in qualità di personaggio ripetitore che amplia le possibilità interpretative del personaggio principale, permettendogli di esternare il proprio punto di vista. Da monologo il dispositivo comunicativo si fà dialogo, interlocuzione, e Craxi, che con Fausto aveva potuto esprimere la propria concezione di un socialismo democratico, liberale e riformista sinteticamente racchiusa nell’espressione “il politico deve aiutare tutti”, ha l’opportunità di illustrare le vicende che lo hanno portato all’esilio ed i propri convincimenti, dal costo della democrazia alla corruzione eletta a sistema, dalla diffusione generalizzata del finanziamento illecito ai partiti al sentirsi chiamato a rispondere -lui solo- per fatti commessi da tutti, al meccanismo dell’eliminazione politica per via giudiziaria.
Ugualmente indiretti sono altri riferimenti interni all’opera, dalla brutta pagina del lancio delle monetine all’uscita dall’Hotel Raphael, qui ribaltata nella reazione verbale di Craxi al gruppo di turisti che lo insulta sulla spiaggia, al ricordo sotto forma di gioco di soldatini dell’episodio di Sigonella che mostrò al mondo la sua statura di statista di levatura internazionale, a Garibaldi, della cui figura Craxi era un appassionato ammiratore, trasposta nel personaggio del nipotino che indossa un cappello da garibaldino ed a cui si rivolge con gergo militare chiamandolo “Generale”, al nome della figlia -da Stefania in Anita- al suo intonare i versi della canzone “Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba”, con allusione alla propria infermità, condivisa con l’Eroe dei due Mondi”.
Per Amelio, saldamente radicato nel cinema dei grandi autori, illuminante è anche l’esempio di Renoir del quale mette in pratica la sua idea di “realismo interiore” da opporre al “realismo esteriore” che si ferma alla superficie delle cose senza sondare l’animo dei protagonisti e da cui fa scaturire una rappresentazioneche della figura del Presidente consideri prima l’uomo e poi il politico e che pertanto fa permanere l’opera sui personaggi più che sull’azione. Così come attua il sogno renoiriano di uno spettatore talmente “complice” del regista da farlo sentire libero di “costruirci sopra una sua storia”, proprio come la configurazione narrativa di Hammamet invita a fare. (6)

"HAMMAMET" regia Gianni Amelio

Amelio non rinnega mai gli autori che ha amato e che lo hanno guidato nella sua maturazione espressiva, al contrario, si fa indicare da loro (magari fosse questa una prassi costante nel cinema italiano) il percorso lungo cui intraprendere la propria personale poetica, come l’Antonioni del quale, in Ladro di bambini, emula il finale de L’avventura (1960). “La Vitti rocca delicatamente la spalla del suo uomo -racconta- in qualche modo assolvendolo e perdonandolo; nel mio film il gesto della bambina è un pò analogo: la pacificazione tra due fragilità”. Nel film -continua- “c’è L’avvenntura a piene mani soprattutto per il concetto della donna che ti deve lenire il dolore, deve tenersi dentro un pò del suo e consolare te, perché tu maschio sei più debole mentre lei è più consapevole. Rosetta si porta addosso una croce come i personaggi femminili di Antonioni”. Difficile non intravvedere in questa convinzione la stessa che lo orienta nella costruzione del rapporto tra Craxi e la figlia in Hammamet.
Ma è ancora dal magistero di Antonioni ed a Il grido (1957) che Amelio imbocca la strada di raccontare un personaggio a valenza sociale rappresentandolo nella sfera del sentimento. “Quel film, nel tema, nel soggetto violava un tabù ben radicato. Era la storia di un operaio che non riesce a rassegnarsi alla fine di un amore e sceglie il suicidio come soluzione del suo malessere. Ma certe crisi erano allora appannaggio della borghesia, e la figura dell’operaio sembrava più opportuno affrontarla in termini di lotta di classe che non di disagio esistenziale”. (7) In Amelio questa sfida si trasferisce dall’operaio al politico, un’analogia che può costare ancora oggi ed essere causa di incomprensione od anche di rifiuto, come si è ripetuto, in qualche caso, anche con Hammamet.
Altrettanto significativa è la lezione del Neorealismo umano di De Sica. “Negli anni sono passato attraverso vari amori cinematografici e da adulto -confida il regista- sono approdato a De Sica. (…) Se dovessi indicare una cosa che mi da il senso del cinema che vorrei fosse fatto e che spererei di fare, è il finale di Ladri di biciclette. (1948) E’quello che domando al cinema, come spettatore e come regista”. Amelio si riferisce alla sequenza finale quando il bambino, colpito dalla umiliazione del padre dopo il tentato furto della bicicletta, lo incoraggia prendendogli la mano ed assumendo così su di sé quel senso di responsabilità che fino a quel momento era stato del genitore.
“In poche inquadrature -scrive- scopriamo che la vera anima del film non è di raccontarci il furto di una bicicletta di seconda mano, ma come un bambino diventa grande di fronte a suo padre, come insieme riconquistano la dignità perduta attraverso l’umiliazione. La bicicletta era un mezzo, non solo di trasporto. Le lacrime e la mano di Bruno sono il fine necessario”. (8) Questo gesto così emblematico Amelio non l’ha dimenticato sia in Laro di bambini (che lo richiama già nel titolo) sia nel descrivere la relazione tra Craxi e la figlia, fatta anch’essa, iterativamente, di mani che si stringono. Anche qui esse diventano il mezzo e il fine necessario.

"HAMMAMET" regia Gianni Amelio

Decisivo è un altro film di De Sica, Sciuscià, di cui ammira la coraggiosa “intrusione” del fantastico nel codice espressivo neorealista . “Quello che caratterizza Sciuscià è l’elemento fantastico, che in genere viene considerato secondario ed è invece la vera ragione del film”. Stroncandolo alla sua uscita, un critico arrivò per primo a svelarne, senza volerlo, la grandezza. Non piacque, a quel critico, il cavallo. Non potevano -scrisse- il regista e i quattro sceneggiatori trovare un movente più plausibile di quello della sfrenata passione dei due ragazzi per un cavallo bianco? Certo che potevano, ma non l’hanno fatto per un motivo molto semplice: conoscevano più profondamente del recensore la natura dei loro personaggi, sapevano che i ragazzi hanno ‘moventi’ che spesso sfuggono agli adulti tutti d’un pezzo; che fare il diavolo a quattro per il possesso di un cavallo su cui andare in groppa per le strade di Roma, è la cosa più naturale del mondo nell’età in cui i sogni sono importanti come il pane. Il cavallo bianco è un’invenzione. Ma il cinema (e il Neorealismo) non vive di fatti di cronaca”. (9) Ed Hammamet, affrontando una vicenda politica con l’umanità del Neorealismo e rifiutandosi di ridurla a fattispecie didascalica, ha rinnovato, attualizzato, valorizzato questo prezioso insegnamento.
Ma la cinefilia, struttura portante e materiale connettivo del suo cinema, non si ferma qui. In Hammamet Amelio mostra per ben tre volte la moglie del Presidente intenta a guardare dei film in tv che lascia scorrere il tempo necessario perché anche lo spettatore possa avvedersene ed è evidente che non siano a caso ma debbano in qualche modo relazionarsi con il tessuto narrativo dell’opera, come la scelta delle canzoni della colonna sonora (Cento anni di Caterina Caselli; Vorrei incontrarti tra cent’anni di Ron, e Piazza grande di Lucio Dalla che si fondono sia con il clima degli Anni Sessanta, Settanta e Novanta sia con quello delle situazione emotive, e della composizione musicale di Nicola Piovani, bella e avvolgente, tanto quanto i movimenti della cinepresa, che “varia” ellitticamente sulla melodia de L’internazionale
Si tratta di Le catene della colpa (Jacques Tourneur, 1947); Là dove scende il fiume, Anthony Mann, 1952); Secondo amore (Douglasi Sirk, 1955): un noir, un western, un mélo. Cosa unisce questi tre film, in apparenza così distanti per genere, stile e contenuto? Il grado di conformità riconducibile al film che fa loro da contenitore e che il regista utilizza in funzione meta-linguistica.
Il primo, il cui titolo originale Out of the Past è sicuramente più rivelatore, ha per protagonista un personaggio sul quale incombe un tragico destino che riemerge dal suo passato; il secondo narra le vicende di un uomo, disarmato a abbandonato, che deve riscattarsi ed a proposito del quale Amelio stesso, in una sua recensione, aveva scritto: “trascinato nella polvere, ferito a uno qualunque degli arti, così che per tutta la storia il dinoccolato protagonista è ridotto male, sanguina o zoppica o non ha l’uso di una mano, il che rende la sua lotta più impari” (10); il terzo tratta di una donna innamorata di un uomo più giovane di lei che non vorrebbe sposare per non causare disagio ai propri due figli. Dunque film di perdenti in lotta per redimersi e di contrastate relazioni parentali e filiali.
Con lo stesso coraggio di De Sica con Sciuscià Amelio, nello spirito di moderna “neorealtà! che caratterizza il suo stile, costruisce, in Hammamet, come aveva già fatto ne Lamerica, un percorso che ha una partenza realistica ed una progressione fantastica, onirica, metaforica.
Nelle ultime sequenze sequenze Craxi, dopo aver sognato di essere tornato in Italia ed essersi recato, alla Camera dei deputati dove tutti i parlamentari, ipocritamente, corrono sorridenti a salutarlo, compreso il giudice nel frattempo sceso anch’egli in politica, si imbatte nel padre (Omero Antonutti, qui nella sua ultima interpretazione, ad evocare una figura paterna “assoluta” come quella di Padre/padrone (Paolo e Vittorio Taviani, 1977) che incontra sulla sommità del Duomo di Milano, sua città natale, per poi essere esibito, ormai agonizzante, in un teatro e su una sedia a rotelle, esposto alla gogna mediatica ed alla irrisione volgare di due comici da avanspettacolo che lo apostrofano con l’epiteto di “leader-lader”. Due immagini speculari di Craxi, rispecchiate entrambi nella piramide di Panseca, quella trionfante dell’inizio e quella dolente della fine, costituiscono la duplicazione visiva che suggella, con fulminante sintesi, la sua parabola politica.
In questa scena visibilmente eccedente rispetto allo stile sobrio, essenziale, trattenuto, della pellicola, Amelio si riprende tutta l’autonomia d’autore necessaria per esprimere con il film, così come il protagonista ha fatto nel film, la propria “verità”, altrettanto poetica, estetica, innaturale quanto quella a cui aveva fatto ricorso Marco Bellocchio con il Presidente Aldo Moro in Buongiorno, notte, ipotizzando, contro ogni attendibilità storica, che potesse vagare, incolume, in una Roma di periferia, grigia, deserta e indifferente.
Il film si chiude con l’immagine iniziale del bambino (ora sappiamo di chi si tratta) dal sorriso impertinente, un piccolo ribelle alla Zero in condotta (Jean Vigo, 1933) che rompe con la fionda i vetri di una finestra del collegio e viene duramente redarguito da un sacerdote che lo chiama “malvivente” e “malfattore”. E poi ancora, dopo che Anita si è congedata da Fausto il quale, ricoverato in una clinica psichiatrica, gli ha consegnato un video contenente le “verità” che il Presidente ha voluto rivelare solo a lui, un'altra finestra va in frantumi. Come ne Il monello (Charlie Chaplin, 1929) che parla di padri, figli e vetri rotti. Perché ci sarà sempre qualcuno che quel gesto lo rifarà.

Vittorio Giacci

Note
(1) Le dichiarazioni virgolettate provengono da conferenze stampa, interviste e conversazioni rilasciate da Gianni Amelio in occasione dell’uscita del film o tratte da pubblicazione precedenti: Mario Sesti-Stefano Ughi (a cura di), Gianni Amelio, Dino Audino Editore, Roma, 1995; Gianni Volpi (a cura di), Gianni Amelio; Scriptorium, 1995, Torino; Emanuela Martini, Gianni Amelio, Il Castoro, Milano, 2005; “Filmcritica”, n.404, aprile 1990; n.424, aprile 1992. .
(2) In questa recentissima riconsiderazione si segnalano: Marcello Sorgi, Presunto colpevole, Einaudi, Torino, 2020; Fabio Martini, Controvento. La vera storia di Bettino Craxi, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2020; Claudio Martelli, L’antipatico, Craxi e la grande coalizione, La nave di Teseo, Milano, 2020.
(3) Emanuela Martini, Gianni Amelio, Il Castoro, cit., pag. 29.
(4) Gianni Amelio, Padre quotidiano, Mondadori, Milano, 2018.
(5) Alessandro Cappabianca, Il luogo e l’essere, “Filmcritica”, n. 449, ottobre 1994, pag. 460-461.
(6) Gianni Amelio, Jean Renoir e lo spettatore, in: Il vizio del cinema. Vedere, amare, fare un film, Einaudi, Torino, 2004, pag. 75.
(7) Gianni Amelio, Un grido disperato, in: Il vizio del cinema. Vedere,cit., pagg. 238-239.
(8) Gianni Amelio, La mano di Bruno, in: Il vizio del cinema. Vedere, amare, fare un film, cit., pagg. 8-9.
(9) Gianni Amelio, Scuscià a cavallo, in: Il vizio del cinema. Vedere, amare, fare un film, cit., pagg. 221-222.
(10) Gianni Amelio, Jimmy prende il fucile, in: Il vizio del cinema. Vedere, amare, fare un film, cit. pagg. 89-90.

HAMMAMET
regia: Gianni Amelio; sceneggiatura: Gianni Amelio, Alberto Taraglio; fotografia: Luan Amelio Ujkaj; scenografia: Giancarlo Basoli; costumi: Maurizio Millenotti; montaggio: Simona Paggi; personaggi e interpreti: Il Presidente (Pierfrancesco Favino); Anita (Livia Rossi); il figlio (Alberto Paradossi); Fausto (Luca Filippi); la moglie (Silvia Cohen); il politico (Renato Carpentieri); l’amante (Claudia Gerini): il nipote Francesco (Federico Bergamaschi); Roberto De Francesco (il medico della clinica psichiatrica); l’attore (Adolfo Mangiotta); l’attore vestito da donna (Massimo Olcese); il padre del Presidente (Omero Antonutti); Vincenzo Sartori (Giuseppe Cederna); produzione: Pepito Produzioni, Rai Cinema, Minerva Pictures; distribuzione: 01; nazionalità: Italia; anno: 2020.

Ultima modifica il Martedì, 30 Giugno 2020 18:40

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