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TEATRO AL TEMPO DEL CORONA. -di Errico Centofanti

"La Notte del Gran Rifiuto", il piú recente spettacolo della Compagnia della Contessa, prodotto al tempo del Corona. "La Notte del Gran Rifiuto", il piú recente spettacolo della Compagnia della Contessa, prodotto al tempo del Corona.

 Il debutto era per il 18 Aprile: una scelta di data poi rivelatasi infelice, carica com’era di avversi presagi, non solo per la malasorte che affligge gli anni bisestili come il corrente 2020 ma pure per l’apparentamento con quel 18 Aprile del 1948 in cui s’era prodotta la bruciante sconfitta della coalizione di Sinistra nel voto per l’elezione del primo Parlamento repubblicano.
Tant’è che, poco dopo l’avvio delle prove a tavolino, con gli spartiti per le musiche di scena già pronti e i laboratori già sul punto di trasformare i bozzetti in scenografia e costumi, ecco il 5 di Marzo: il Corona sta falciando vite umane con un ritmo terrificante: per arginare la pandemia, tutta l’Italia finisce sotto chiave.
Ogni giorno, centinaia di morti. La Bergamasca diventa un luogo dove i cimiteri non hanno piú posti liberi. È difficile accettare come vere, come attestazioni di fatti realmente accaduti, certe immagini che dalla memoria non se ne andranno mai, mai piú: quella notte di tristezza disperante, di angoscia oppressiva, l’asfalto lucido di pioggia, gli spettrali coni di luce gocciolanti dai lampioni stradali, il lancinante corteo senza fine di camion dell’Esercito carichi di bare in viaggio verso chissà quali ignoti cimiteri.
Le prove vengono sospese. Tutti a casa. Chissà se e quando si potrà ricominciare, se quel che si stava provando potrà andare in scena: interrogativi che non riguardano solo L’Elefante di Raffaello, cioè lo spettacolo per i cinquecent’anni dalla morte di Raffaello Sanzio che la Compagnia della Contessa stava preparando. Tutti i palcoscenici d’Italia sono vuoti. Tutte le luci sono spente. Tutti gli attori, tutti i musicisti, tutti i tecnici di teatro sono chiusi in casa, senza lavoro, senza prospettive né a breve né a lungo termine.
Tuttavia, quelli della Contessa non vogliono lasciarsi imbrigliare dal terrore: ci sarà una via per sentirsi e farsi sentire vivi? Quel che è entrato prepotentemente in scena è il concetto di “distanza”. Ovviamente, non si tratta di “tenere a distanza” per evidenziare una sciocca superiorità rispetto a persone considerate non all’altezza di sé: è la necessità di rinunciare ai contatti interpersonali, per evitare la diffusione del contagio. Non è solo questione del chiudersi dentro casa: subentra un drastico abbattimento di qualsiasi interazione tra gli esseri umani. È la negazione d’una delle essenze costitutive del teatro: in palcoscenico come in platea non si può prescindere da quella distanza “giusta” tra un attore e gli altri, tra uno spettatore e gli altri: non si può prescindere da quella vicinanza fisica che attraverso gli occhi, i gesti, l’olfatto lascia fluire l’andirivieni di messaggi corporei, lo scambio, integrativo o sostitutivo delle parole, fatto di emozioni, sentimenti, intenzioni.

Compagnia La Contessa
Una delle cene-spettacolo prodotte dalla Compagnia della Contessa nelle estati antecedenti il tempo del Corona.

Recitare senza pubblico e in assenza di vicinanza fisica? Quelli della Contessa si cimentano subito con un primo esperimento: all’inizio d’Aprile creano, per un canale tv, Cinque minuti su WhatsApp, un surreale racconto delle loro giornate senza palcoscenico, un racconto costruito con dialoghi intrecciati, attraverso videotelefonate, ciascuno stando in casa propria.
Nel frattempo, è andata prendendo forma l’idea di utilizzare in qualche modo il lavoro svolto per il forzatamente abbandonato spettacolo su Raffaello. Lo stato dell’arte è: niente palcoscenico, niente scene, niente costumi, niente spettatori. Tuttavia, di materiale disponibile ce n’è piú che a sufficienza: il testo e le musiche di scena e inoltre le prove attoriali e musicali che erano già pervenute alla fase terminale. È quanto serve, a prescindere da qualche ritocco del copione, per cavarne un radio-dramma. Si procede e L’Elefante di Raffaello diventa anche una smagliante esibizione dell’impegno tecnico e del talento con cui quelli della Contessa riescono a superare le difficoltà del blocco operativo e del distanziamento fisico imposti dalla lotta contro il Corona.
Infatti, gli attori e i musicisti coinvolti, non potendo trovarsi l’uno accanto all’altro negli studi di registrazione, hanno dovuto incidire tutti singolarmente i rispettivi interventi. Poi, è sopraggiunto il lungo lavoro in cabina di regia per montare ogni blocco nella corretta sequenza, interpolare in dialoghi e monologhi la musica e l’effettistica, equalizzare le caratteristiche del suono e imprimere il complessivo “smalto” al tutto, offrendo un’ennesima riprova della creatività e determinazione con le quali il mondo dello spettacolo – Corona o no - sa onorare la tradizione che vuole “the show must go on”.
Nei primi giorni di Giugno, mentre il radio-dramma va in rete, sopraggiunge per la Compagnia della Contessa una nuova proposta: uno spettacolo a tutto tondo, da creare per fine Agosto. Occorre partire da zero, a cominciare dalla scrittura del testo. Davanti, ci sono meno di tre mesi, però la posta è irresistibile: finalmente, si torna in palcoscenico e con il pubblico in sala!
Gli attori che recitano in solitudine, ognuno rinserrato nell’isolamento di una stanza, sono deprivati di una componente essenziale del loro lavoro. Il palcoscenico è tutt’altro: sprigiona una magia antica, dovuta non secondariamente al piacere di recitare potenziato dal calore umano del pubblico. La platea affollata, d’altra parte, offre agli spettatori il privilegio di stare insieme, specialmente nel contesto attuale di un mondo alienato, insensato, dove i contatti umani vengono per lo piú filtrati da uno schermo tv o da un segnale wi-fi.
In genere, non ci si rende conto di cosa significhi veramente recitare dal vivo, in pubblico: sviluppare un dialogo metafisico con gli spettatori, percepire i silenzi o il brusio, gli sbadigli, i sospiri, le risate, i borbottii, gli starnuti, i colpi di tosse: tutti micro-eventi che racchiudono un significato rispetto a quanto accade sulla scena e animano quella magia che per tanta parte scaturisce dall’interazione platea-palcoscenico.
Altrimenti, che necessità ci sarebbe d’andare a teatro? Non basterebbe starsene comodamente in casa a leggere Eschilo, Shakespeare o Pirandello? Senza essere parte attiva del linguaggio dei corpi, senza l’entusiasmo e la forza generati dallo stare insieme, senza l’ascolto che coltiva e raffina l’esercizio dei propri strumenti critici. Non basterebbe.
Infatti, si torna in palcoscenico, si lavora per La Notte del Gran Rifiuto, spettacolo dedicato al dramma intellettuale e etico di Celestino V, il papa protagonista delle piú clamorose dimissioni della storia. Si creano copione e musiche di scena, si fabbricano scenografia e costumi, si prova con l’energia e l’intensità rimaste per mesi soffocate dalla pandemia, s’inventa un modo per stare in scena che, adottando tutte le cautele imposte dalle misure di prevenzione del contagio, nulla sottragga all’estetica e alla pregnanza dell’azione, si attiva il botteghino e nell’arco di poche ore la fame di teatro del pubblico manda in esaurimento tutti i posti disponibili per tutte le repliche programmate.
Grande successo, “di pubblico e di critica”, come s’usa dire. Ma, il teatro dov’è? Giorno dopo giorno, la platea si riempie. Si riempie? In realtà, si riempiono le poltrone messe in vendita, cioè il 33% di quelle inchiavardate sul piancito della platea, cioè tante quante le norme contro il contagio da Corona consentono di tenere a disposizione del pubblico.
Nonostante il “tutto esaurito”, quel che gli attori si trovano davanti è peggio di un “forno”, cioè peggio di quel che sarebbe una serata andata male, con il teatro desolatamente semivuoto e pochi spiccioli sparpagliati in fondo ai cassetti del botteghino.
Lí davanti non c’è un pubblico, ci stanno tanti volenterosi teatrofili, con due poltrone vuote in destra e sinistra di sé e pure sul davanti e alle spalle, mummificati dalle mascherine e dalla solitudine. Nel buio della sala, le individuali solitudini non lasciano che qualsiasi pur minima reazione a quanto va accadendo in palcoscenico erompa verso i lontanissimi vicini e tanto meno verso gli attori. Alla fine applaudono, anche calorosamente, ma è difficile capire se soltanto per autentico entusiasmo apprezzativo o pure per un piú o meno liberatorio riscatto della propria fisicità rimasta ibernata per un paio d’ore.
Pare il trionfo di quella marginalizzazione della volontà partecipativa, diretta e vivente, che i mass-media fraudolentemente alimentano e che il Corona malauguratamente rafforza, mentre invece il teatro proprio su quella partecipazione diretta e vivente fonda, da millenni, la propria ragion d’essere, amabilmente miscelando l’espressione pubblica della creazione artistica con la funzione d’educare al libero arbitrio e alla socialità.
Anteporre a tutto l’angoscia del pericolo di contagio, anche nel caso d’una cosí diluita concentrazione di persone quale quella di una sala teatrale, potrà stroncare le piú determinate volontà di stare insieme e potrà minare la sostenibilità economica del seguitare a far teatro, se a un certo punto qualche proficua escogitazione non sopravvenga nel corso della presumibile ancor lunga nostra necessità di convivere con la pandemia.
Tuttavia, da questa esperienza non è escluso possa emergere una inedita capacità di interagire con gli altri che, inaugurando nuove qualità dei comportamenti, renda piú lieve il nostro male di vivere e delinei la prospettiva di un mondo meno afflitto da cupidigia, ottusità e cinismo.
Almeno, questa è la speranza fiorita in seno alla Compagnia della Contessa, la quale questo nome s’è dato in trasparente evocazione di quei Comici raccolti intorno alla Contessa Ilse che Pirandello pone al centro dei Giganti della Montagna: una scelta denominativa e un progetto culturale che esprimono un omaggio gratulatorio e un fermo ancoraggio al mondo del teatro, problematico e meraviglioso sempre, come la vita.
Perché, come scriveva Giorgio Strehler negli appunti di regia per la prima edizione dei suoi Giganti della Montagna, quella del 1947: «Sta a noi capire che nella sgangherata carretta che trasporta la Contessa morta, nel viaggio lento dei Comici, in questo corteo funebre per la Poesia uccisa, viaggia sí tutta la nostra storia di teatranti in pena, con tutti i nostri errori, con le nostre frenesie, ma viaggia, forse, anche tutta la miseria di questo nostro povero mondo alla deriva».
La Compagnia della Contessa è una formazione teatrale che all’Aquila s’è raccolta da qualche anno intorno al regista Fabrizio Pompei, incontrando l’apporto collaborativo del Teatro Stabile d’Abruzzo, che in tal modo bene interpreta quell’ufficio maieutico doverosamente implicito nella funzione dei teatri a gestione pubblica. Della Compagnia sono parte attiva il compositore Sabatino Servilio, lo scenografo Attilio Carota, la costumista Francesca Tunno e un gruppo di artisti e tecnici nel quale interagiscono l’esperienza di alcuni veterani e il talento di molti giovani: Rita Alloggia, Fausto Antonetti, Alessia Centofanti, Iaia Centofanti, Federico Colapicchioni, Alberto D’Amico, William Giannone, Gemma Maria La Cecilia, Roberto Lattanzio, Claudio Marchione, Claudia Muzi, Roberto Pace, Stefano Picella, Diego Sebastiani, Alessandro Sevi, Giuseppe Tomei, Giacomo Vallozza.

Ultima modifica il Martedì, 06 Ottobre 2020 17:23

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