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«E quindi riuscimmo a riveder le stelle»: 700 anni di Dante e il teatro che fa comunità. In margine alla Chiamata pubblica per la Commedia del Teatro delle Albe. -di Nicola Arrigoni

«E quindi uscimmo a riveder le stelle». E all’uscita dal Teatro Rasi di Ravenna trasformato nei gironi dell’Inferno, nell’estate 2017, rimane stampigliata nella memoria l’immagine di una scala illuminata, appoggiata a un grande albero ad indicare la salita al sacro monte… Il viaggio lungo i gradoni del sacro monte si è realizzato – teatralmente parlando – nell’estate 2019 con la cantica del Purgatorio. Tutto ha inizio con l’appuntamento davanti alla tomba di Dante, guidati da Catone e dall’invito, a noi spettatori, a purificarci con il giunco schietto prima di iniziare il nostro viaggio di oranti. Gianni Plazzi, scomparso domenica 21 marzo, nel primo giorno di primavera, era stato l’austero Cavalcate de’ Cavalcanti nell’Inferno ed era Catone nel Purgatorio, di lui si dirà più avanti, del suo essere severo e dolce, fragile essere umano e corpo carico di memoria.

"Purgatorio". Foto Silvia Lelli

Fra Inferno e Purgatorio… Ravenna terra di comunità
Oggi quella scala proiettata verso il cielo estivo di una Ravenna conquistata dal suo Dante è ancora ben viva, così ome la sensazione che quel mondo dantesco, fatto di certezze e di obblighi, di credenze e di una comune cultura ci sia, oggi, precluso. Dante e il suo viaggio della Commedia sono un mondo che aveva confini, norme, credenza e saperi (anche crudeli) in grado di imbrigliare uomo e realtà, motivi di sicurezza, orizzonti certi, comportamenti condivisi. In un tempo in cui nulla è più certo, in cui il qui e l’altrove coincidono, gli opposti si confondono e mescolano, la voce di Dante e della sua cultura: la chiesa, l’impero, i grandi classici, le Scritture, il nascente volgare raccontano di un altro mondo, di un Dio che faceva mondo, nel bene come nel male. Questi elementi raccontano – per opposizione e contrasto -  anche il nostro quotidiano essere solitari demiurghi di mondi, ci dicono come la liberazione, messa in atto dall’individualismo, ci abbia sottratto ai simboli della comunità per proiettarci in una comunicazione senza comunità.

Marco Martinelli ed Ermanna Montanari - "Inferno"

Perché festeggiare Dante?
Ecco allora che festeggiare i 700 anni di Dante Alighieri vuol dire forse tornare a specchiarci non nello specchio di Narciso, ma in quello di un io capace di tener conto dell’altro, di fare il viaggio insieme per una meta comune. La salvezza dantesca per noi è la salvezza del mondo che viviamo.  La frequentazione della scholè, il tempo libero dell’otium ci metta in sintonia col mondo, ci riconduca ad essere ospiti e non padroni della nostra terra, fratelli tutti, tutti sulla stessa barca. La chiamata pubblica del Teatro delle Albe – sotto la regia di due magici sognatori delle sfide impossibili come Marco Martinelli ed Ermanna Montanari – è in parte la risposta perché celebrare i 700 anni della morte di Dante, del perché il poeta della Divina Commedia ci parla ancora. E allora trovarsi in mezzo a centinaia di spettatori e insieme recitare le terzine di Dante prima di entrare all’Inferno o iniziare a scalare la montagna del Purgatorio nelle estati lontane del 2017 e 2019 racconta di un comune pregare

"Inferno"

La scholé… metafora della communitas
In quella scala proiettata verso il cielo, in quell’oltre/mondo che il Teatro delle Albe ha messo in scena chiedendo la complicità dei ravennati e costruendo un vero teatro di comunità c’è il senso di un’opera quale è la Commedia. Non è un caso che nel Purgatorio la metafora ricorrente sia quello della scuola, siano i banchi fra i quali si siedono gli spettatori incontrando i ragazzi della non-scuola di Teatro delle Albe, provenienti da Timisoara a Nairobi. Martinelli e Montanari hanno costruito una cattedrale di corpi e anime che si ritrovano e forse si riconoscono nella poesia di Dante, un patrimonio comune che risuona dai banchi di scuola di un tempo a quelli teatrali del viaggio delle Albe. Martinelli e Montanari hanno chiesto ai loro spettatori l’umiltà di farsi scolari per riassaporare il verso di Dante e per costruire insieme un mondo nuovo. In questo senso la politica è poesia, laddove la radice della parola poesia sta nel verbo greco fare. La parola poetica fa, agisce, induce ad agire e trasforma. Questo accade nell’Inferno e nel Purgatorio del Teatro delle Albe: ci si ritrova parte di una comunità, ci si riconosce nel comune ceppo di quella cultura di intrecci, di estetiche e civiltà che è la cultura occidentale, cultura della terra al tramonto, ma fiduciosa di una nuova alba. Il teatro fa comunità, fa scuola: questo lo sanno bene gli animatori del Teatro delle Albe che da quarant’anni hanno fatto di Ravenna e della Romagna il loro punto di osservazione e di partenza per fare e raccontare mondi. Per questo motivo davanti ai racconti smozzicati, ai brandelli di parole di una cultura afasica e che guarda con narcisistico solipsismo il proprio ombelico, il Dante delle Albe indica che una alternativa è possibile, percorribile, realizzabile. Il teatro – quando è visione reale e prospettica – non chiede di essere visto, ma di essere agito responsabilmente, non in balia di un futile protagonismo partecipativo, ma pregno di quel senso di res-ponsabilità che impone considerazione dell’altro, rispetto del pensiero, condivisione, ma anche contraddittorio e messa in crisi. Tutto questo si realizza e si esprime poeticamente nell’azione teatrale messa in atto dalla Chiamata pubblica per la Divina Commedia. E in questo 2021 pandemico si attende la chiamata per il Paradiso, una chiamata che Gianni Plazzi ha anticipato, lui che avrebbe dovuto vestire i panni di San Pietro. «Per lui pensavamo a San Pietro che interroga Dante: Dì, buon cristiano, fatti manifesto / fede, che è? – scrivono Marco Martinelli ed Ermanna Montanari -. Nella fede che gli apparteneva, Gianni avrebbe dentro di sé risposto come Dante: fede è sostanza di cose sperate / e argomento delle non parventi. La morte è sempre un passaggio verso la dimensione delle cose non parventi, l’invisibile che non appare, e che tutti attende. L’invisibile che, a tratti, come queste prime gemme di primavera, come in un lampo, si manifesta in forma di misterioso Amore, capace di muovere il sole e le altre stelle».

"Inferno". Foto Silvia Lelli

In exitu
L’in exitu di Gianni Plazzi racconta di un artista che seppe confrontarsi con il limite in All’Inferno! del Teatro delle Albe nel festival Santarcangelo, diretto da Leo De Berardinis, festival in cerca di un teatro popolare d’arte che all’attore come incarnazione della parola chiedeva di essere e chiamare a racconta la comunità. Austero e fragile al tempo stesso è stato nel Giulio Cesare prima e ne Sul concetto di volto di Figlio di Dio, entrambi gli spettacoli firmati da Romeo Castellucci della Societas Raffaello Sanzio, due lavori icastici, potenti, desituanti e non solo per le polemiche sorte intorno al Concetto di volto del Figlio di Dio a causa della presunta blasfemia, sollecitata da cattolici ultratradizionalisti. Le cronache vengono dimenticate, non così la pietas per quel vecchio padre assistito dal figlio, malato terminale con il pannolone che incarna un dolore contemporaneo, la consunzione di un uomo al termine della sua vita terrena. Ma Gianni Plazzi per la Commedia del Teatro delle Albe è stato l’imponente Cavalcati e lo ieratico Catone, due grandi vecchi, austeri e autorevoli al tempo stesso, che hanno trovato nell’eleganza e flebile voce di Plazzi la loro voce nel qui ed ora del teatro che si affaccia sull’eterno, sul simbolo, sulla koinè che ci fa sentire communitas. Questo è accaduto grazie anche a Gianni Plazzi che ha anticipato il viaggio verso l’empireo rilevarsi della grandezza di Dio creatore, in forma di misterioso Amore, capace di muovere «il sole e le altre stelle».

Ultima modifica il Lunedì, 12 Aprile 2021 08:58

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