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Concerto di Capodanno: la rinascita dell’autentica anima viennese. -di Grazia Pulvirenti

In vero il Concerto di Capodanno è un articolo ormai inflazionato: vuoi per la spocchiosa retorica della sala dorata del Musikverein, vuoi per il melenso ossequio a inanellati galop, polka, Marsch e quadrille, eseguiti con consapevole disillusione direttoriale nei confronti del loro carattere frivolo e popolare.
Eppure quest’anno qualcosa è cambiato. Il Waltz ha riconquistato e mostrato al mondo quella sua funzione teneramente consolatoria di antidoto al disamore, alla disillusione, al disincanto. E questa era stata la sua autentica natura, negli anni in cui le generazioni degli Strauss, i von Suppé, Lehàr etc., coprirono con il loro consolatorio smalto la paura, sempre più crescente e angosciante del nulla, della fine, della catastrofe.
Non è un caso, a nostro avviso, che ciò accada in questo passaggio fra un anno che si sperava risolutorio per le tristi sorte della pandemia e quello nuovo, sul quale ci si affaccia con speranza e terrore. E, ancora una volta, come in reiterate epoche di crisi, la musica crea una nicchia in cui consolare con la bellezza la tragedia. O, al contrario, un’isola in cui dare voce all’orrore e sublimarlo. Alla prima funzione risponde il gusto viennese per la musica popolare della seconda metà dell’Ottocento, con cui decantare e smaltare, a tinte tenui e malinconiche, la percezione del nulla. Lo smalto sul nulla, ma pur sempre smalto.
Il miracolo di questa rinascita lo dobbiamo a una nuova sensibilità, certamente figlia della pandemia, che ha guidato le scelte di istituzioni musicali che, con un ampio arco, vanno da Vienna a Palermo. In primo luogo il Concerto di Vienna: affidato a Daniel Barenboim ha dismesso (a parte nei bruttissimi balli, il primo soprattutto) il suo volto più trito e consumistico: scelte raffinate sin dai primi due brani, che ci trasportano in un mondo altro, con una evocazione delle virtù di rinascita dell’Araba Fenice (Josef Strauss: Phönix-Marsch, op. 105; Johann Strauss II: Phönix-Schwingen. Walzer, op. 125) e del canto incantatorio delle sirene (Josef Strauss: Die Sirene. Polka mazur, op. 248). Poi sei novità con brani eseguiti per la prima volta al Concerto, come il Kleiner Anzeiger. Galopp, op. 4 di Josef Hellmesberger figlio e il Nachtschwärmer. Walzer, op. 466 di Carl Michael Ziehrer. Infine brani della famiglia Strauss, ma di più rara esecuzione, come il Tausend und eine Nacht. Walzer, op. 346 di Johann Strauss II, o il Gruß an Prag. Polka française, op. 144 di Eduard Strauss, alludendo a una commistione di linguaggi fra Occidente e Oriente e alla dimensione cosmopolita della monarchia absburgica al declino. Di queste musiche Baremboim è riuscito a recuperare la nobiltà, le tinte soffuse, la malinconia, poi disciolta con eleganza nei ritmi incalzanti di Polke e Waltz. Sobrietà, rigore ed estrema eleganza hanno caratterizzato un’esecuzione incomparabile e impareggiabile, che con la sobrietà del gesto ha donato colori e timbri mai uditi prima.
Anche altrove, e qui ci riferiamo dell’estremo Sud di quest’Europa che cerca di riabbeverarsi alla piccola gioia di momenti di oblio e vanità, ovvero al Politeama di Palermo, il concerto di Capodanno dell’Orchestra Sinfonica, punta sulla scelta non scontata del programma e sul virtuosismo del solista. Protagonista dell’evento è il violinista Stefan Milenkovich, che dal suo Guadagnini del 1783 riesce ad estrarre suoni incredibili e inarrivabili, come nel caso dell’Andante malinconico e dell’Allegro ma non troppo dell’Introduzione e Rondò capriccioso di Camille Saint-Saëns, o nei Tre Preludi (arrangiamento per violino e archi di Vladimir Korac). L’esordio del concerto, anch’esso sobriamente diretto, non senza eleganza, da Neil Thomson, è nel segno dell’ironia, del sarcasmo e del paradosso regalata dall’Ouverture della Leichte Kavalerie (Cavalleria leggera) di Franz von Suppé, in cui non è solo la parodia dei suoni militari a farla da padrona, ma una vera e propria decostruzione della cultura magniloquente ottocentesca, con evidenti allusioni wagneriane: come a ricordare quanto di inutilmente grave e grottescamente sovrastrutturato ci portiamo dietro per tentare du definire una identità e un modo d’essere che tracollano sotto i colpi inflitti da prove e sfide più grandi di noi.
E con la musica di questi “diversi” concerti di Capodanno sembra che si affermi la ricerca di una nuova identità, di un nuovo senso comunitario e di un nuovo umanesimo, non solo come messaggio veicolato dalle note, ma soprattutto come pratica comune, destinata, con le parole di Barenboim, a “trasmettere serenità e allegria”, insegnando l’arte più antica e difficile per i nostri tempi: costruire qualsiasi cosa è possibile solo attraverso un’opera comune, attraverso la riconquista di un sentimento condiviso di collettività, finalizzato al perseguimento di un fine ricercato non per propri interessi, ma per il desiderio di un bene condiviso. Così Barenboim nel suo augurio in inglese al pubblico in eurovisione: “Vedere così tanti musicisti che suonano insieme come un’unica comunità, condividendo lo stesso pensiero e lo stesso sentimento, ci fa capire che il Covid non è soltanto una catastrofe sanitaria, bensì anche umana, umanitaria, in quanto ci allontana gli uni dagli altri. Noi tutti dovremmo prendere esempio da questa orchestra, da questa comunità di musicisti, e cercare di vivere insieme e uniti questa catastrofe. Per me l’orchestra è un grande invito a essere solidali, a essere uniti, ad avere un pensiero per tutta l’umanità”. 

Ultima modifica il Sabato, 08 Gennaio 2022 12:35

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