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Tra vita e morte. Reportage da BERLINO. -di Grazia Pulvirenti

"Orfeo ed Euridice", regia Damiano Michieletto. Foto Iko Freese "Orfeo ed Euridice", regia Damiano Michieletto. Foto Iko Freese

Il mese della “Berlinale” è anche quello in cui debuttano nuovi allestimenti operistici e teatrali. Una vera festa di sorprese e meraviglie in quest’anno ancora così drammatico. Non si tratta di allestimenti consolatori, al contrario, tant’è vero che la “Komische Oper”, tradizionalmente dedita a un repertorio leggero, produce un nuovo allestimento di “Orfeo ed Euridice”, malinconico, poetico, con un bagliore di speranza finale. Il miracolo di questo spettacolo è la regia di Damiano Michieletto, con la scena intelligente e di grande impatto di Paolo Fantin: un ambiente abbagliante di luce e trasparenza, al tempo stesso capace di veicolare l’algida disperazione della morte e della separazione. La regia è condotta con un incessante susseguirsi di dinamiche che riguardano tanto le masse, guidate in un continuo movimento espressivo, ma mai invadente, e dei solisti, i cui personaggi vengono liberati da Michieletto dalla rigidità del mito e restituiti a una indagine psicologia da dramma ibseniano. La scommessa del regista è stata quella di raccontare una storia apparentemente fissata nel mito in termini di veridicità delle emozioni portate alla luce da uno scandaglio psicologico dei protagonisti in termini comprensibili alla modernità: l’allestimento ha inizio con un’ambientazione borghese, che vede esplodere il dramma di Euridice che non è tanto quello della morte, ma dell’abbandono, cui la condanna Orfeo, della separazione, della fine di un amore. La morte della protagonista è conseguenza del suo suicidio e l’ambiente in cui si consuma la prima parte dello spettacolo è quello sterile di una sorta di spettacolo-manicomio, in cui si incontrano e concentrano le varie dimensioni della disperazione umana. L’intervento di alcune figure con maschere di animali traghetta la vicenda negli inferi, ove un Orfeo (pentito) riscopre il suo amore e lotta per recuperare a esso la donna perduta. Anche qui i movimenti delle masse creano una sorta di straordinaria amplificazione emotiva dei sentimenti di angoscia e terrore del protagonista, fino alla catastrofe dell’epilogo. Il personaggio di Amore che recupera le condizioni del lieto fine della versione di Vienna, scelta per questa esecuzione, sembra concederci la consolazione di uno Happy end. Ma i suoi interventi da Capocomico durante tutto il corso dell’azione, ce lo consegnano come un mago delle scene, che può determinare le forme della finzione, non della realtà. Quindi il pubblico resta con l’amaro in bocca di un lieto fine percepito come finzione, come inganno scenico, che riconsegna i due protagonisti al loro ineludibile dolore, sebbene le atmosfere musicali celebrino un apparente tripudio della forza d’amore come vincitrice di ogni male. 

La tensione verso un effetto di amplificazione e potenziamento della sfera emotiva viene confermata dalla direzione di David Bates, specialista di musica rinascimentale e barocca, che ha dato una lettura molto giovanile e poco canonica della partitura, sottolineando i contrasti degli affetti, accentuando i cambiamenti nelle dinamiche e nei colori, a volta forse in modo piuttosto marcato, con eccessi nei forti e in una conduzione orchestrale sempre molto spinta sul fronte dei volumi, tanto da non far emergere in maniera congrua le voci. La più interessante è certamente quella del controtenore Carlo Vistoli, che seppur dimostra un registro medio solido e acuti squillanti, appare a volte poco potente. Al suo fianco ottima la prova di Nadja Mchantaf, che ha unito a brillantezza dei colori timbrici, un’emissione curata e un ottimo fraseggio.
L’insieme ha donato al pubblico uno spettacolo in cui il mito rivive con potenza ed efficacia in ambienti contemporanei, grazie a una narrazione registica eccellente, ricca di infiniti dettagli, non episodici, come accade nella scadente tradizione pretestuosamente modernistica, ma sapientemente studiati e condotti alle loro estreme conseguenze significative, e quindi in grado di accompagnare in maniera poetica ed emozionante lo spettatore in una dolente riflessione sull’amore, l’abbandono, la solitudine e il rimpianto.

L'affare makropulos B
"L'Affare Makropulos", regia Claus Guth

Non meno emozionante l’allestimento dell’”Affare Makropulos” che ha debuttato alla “Staatsoper unter den Linden” con la direzione ‘estatica’ di Simon Rattle, in vero stato di grazia, in grado di evidenziare ogni minimo dettaglio della sontuosa partitura, dando pieno respiro tanto ai ritmi incalzanti e mozzafiato, a sottolineare le azioni del plot realistico, quanto ai toni contemplativi dell’ultimo quadro. Tutto ciò in perfetto accordo con la condotta registica di Claus Guth. con le scene soprendenti di Étienne Pluss, che contrappone una camera asettica, bianco abbacinante, dove si muove nei suoi fuori scena Emilia Marty, ad ambienti dalle atmosfere Anni Venti, in cui si svolgono le trame degli eventi processuali (primo quadro), del backstage della “Madama Butterfly” che vede la diva Marty nel suo ruolo di prima donna (secondo quadro) e la lobby di un albergo, dove convergono le intricate vicende che vedono sviluppare parallelamente la vicenda giudiziaria, la frattura generazionale fra un padre e un figlio, gli amori che la Marty suscita in ogni uomo che incontra, secondo il prototipo della Femme fatale incarnato anche dalla “Lulu” di Alban Berg. In tali spazi il ritmo delle azioni condotte da un cast di grande livello, fra cui brilla Bo Skovhus nei panni di Jaroslav Prus, punteggiate da un gruppo di bravissimi mimi è vorticoso, incalzante, estenuante, a indicare i tempi accelerati della modernità. Per contro nella camera asettica abitata da Emilia Marty, che lì rimane congelata per lunghi brani di musica, e da dove riemerge con fatica per riprendere l’azione realistica, il tempo è immobile, scandito a inizio dell’opera e fra ogni quadro da un inquietante respiro amplificato, una sorta di metafora acustica della vita dalla quale la protagonista non riesce a liberarsi, vittima della pozione magica del padre, somministratele ai tempi dell’Imperatore Rodolfo II. Eccellente l’interpretazione di Marlis Petersen, di grande perfezione nell’intonazione, dagli acuti squillanti e dai colori sorprendenti, in grado di dare vita a un personaggio tormentato e combattuto, alla ricerca di una realizzazione che sa impossibile nella reiterata ripetitività delle sue esistenze. Fino alla liberazione dell’animo nella scena finale, nel passaggio verso la mortalità invocata e ambita, finalmente ottenuta nella sospensione del destino di reiterazione delle vite. L’estasi finale è conquistata nell’accettazione del limite e della fragilità umana, nell’improvviso arrestarsi di un ritmo infernale di vite condotte senza la possibilità di accedere a un senso più alto, scompaginando un desiderio di eternità che è solo condanna a una ripetitività senza scopo. Un epicedio sulla morte e sulla caducità celebrato dai colori finalmente consolatori della grande aria finale.

"Amleto", regia Thomas Ostermeier

"Amleto", regia Thomas Ostermeier

Ancora la morte, una morte combattuta e una morte ricercata come soluzione a una vita consumata fra esseri umani indegni, è al centro dell’energico e sorprendente allestimento di “Amleto” in scena alla “Schaubühne”, con la regia di Thomas Ostermeier, con un grandioso quanto imprevedibile di Lars Eidinger, il migliore mattatore delle scene berlinesi. Il testo è decostruito e rimontato, con le interpunzioni del celebre monologo, reiterato e frammentato, grazie anche all’uso di una steadicam, che consente inquadrature di volti e particolari inquietanti dei sei attori che interpretano più parti, come nel caso di Jenny König, sia Gertrude che Ofelia, di Urs Jucker, Claudio e e lo spettro del padre e così seguitando. La scena di Jan Pappelbaum è coperta di terra, che viene impastata da continui scrosci di pioggia, mentre gli attori la adoperano con allusione ora allo spazio sotterraneo della morte, ora come luogo in cui si ammassano i detriti della società consumistica, lanciati o dimenticati dai vari personaggi. Su questa landa di una umanità derelitta, simbolo del marcio che è ovunque, oltre che in Danimarca, avanza e poi si ritrae un grande tavolo, quello del banchetto delle nozze fra Gertrude e Claudio, ma anche dell’intero mondo moderno, raffigurato come prigioniero di ritualità sociali svuotate di ogni senso. Il dramma di Amleto è la tragedia di un intero mondo che si auto-consuma, che induce alla follia, ove l’unica scintilla di salvezza è garantita dall’ironia e dal disincanto, da quegli interludi che, come nel seppellimento della bara del Re assassinato, ad apertura dello spettacolo, culminano in sequenze accelerate di una comicità che ricalca l’assurdo in cui sembra sfociare ogni esistenza.

Ultima modifica il Sabato, 26 Febbraio 2022 11:29

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