martedì, 19 marzo, 2024
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Carmelo Bene… dietro la tenda rossa dell’incontro mancato. A vent’anni dalla morte dell’attore il saggio di Jean–Paul Manganaro. -di Nicola Arrigoni

Jean–Paul Manganaro Jean–Paul Manganaro

Carmelo Bene è una tenda rossa, è la sua voce che dice: «Non, non posso», alla richiesta impudica del giovane cronista che chiede di incontrarlo dietro le quinte del teatro Carcano di Milano, dopo La cena delle beffe da Sam Benelli con Raffaella Baracchi e David Zed nel febbraio 1989. Carmelo Bene è il suo teatro, Carmelo Bene è come il suo teatro «esiste a partire da una condizione di assenza, e rincara la dose attestandosi sulla deliberata organizzazione della differenza, come senso mancato che è qualcosa di più e di diverso della mancanza di senso. Il senso mancato è, precisamente, l’ordine della sfasatura fra lettera e senso, fra significante e significato, fra simbolo e cosa; ma anche fra cosa e soggetto, fra inorganico e organico, fra automatico e vivente», scrive Maurizio Grande ne La lettera mancata di Maurizio Grande sulla Cena delle beffe di Carmelo Bene. Piace allora partire dall’immagine potente della Cena delle beffe di Sem Benelli in cui Bene immobile dice l’in-dicibile, sfoglia il copione come il corpo di attori/automi in cui lo scarnificare ripetuto si coniuga con lo sfogliare in un gioco «che si fa beffe della mano che lo aziona a vuoto e del gioco che illude. Giocattolo macchina che sottomette alla sua logica snaturata e scellerata il residuo testuale (Sem Benelli) e l’attore, anzi gli attori tutti, come automi che giocano se stessi»1. Immobile eppure in movimento Carmelo Bene è presenza/assenza e in merito ha osservato Franco Quadri: «Guadagnata l’immobilità a dispetto di una propria immagine fisica in cui più non voleva riconoscersi, ingoffata quale la vedeva e data in garanzia all’inserto di organi artificiali, il suo traguardo era la voce da elevare al canto e da forzare come uno strumento per cavalcate poetiche da brivido»2.
Da questi ricordi piace partire perché rivivificati, restituiti alla loro primigenia potenza dalle parole di Jean-Paul Manganaro nel volume pubblicato da Il Saggiatore, Oratorio Carmelo Bene (pagine 194, euro 19) e non oratorio su Carmelo Bene, ma Oratorio Carmelo Bene, laddove il genere dell’oratorio è un genere che coniuga il binomio parola e musica in uno spazio scenico assente eppure persistente, un fluire di logos e melos nel cuore del non-luogo del teatro. Manganaro con una lingua tanto precisa quanto avvolgente ci immette nel cuore dell’universo beniano partendo dalla immagine di Bene, dal suo essere in scena, dalla camicia bianca «che deve essere comoda, né larga, né stretta. Semmai un po’ larga, soprattutto al colletto, e anche all’attacco delle maniche. Evitare la seta, è troppo calda in scena. Per i polsini è diverso, meglio stretti, cinque bottoni, sempre dispari». È l’incipit potente e dolcissimo di Oratorio che fa scivolare il lettore a cospetto dell’immagine di Carmelo Bene, del suo stare e del suo essere in un abito da dandy che si decostruisce perché «l’abito crea la distanza e la distanziazione, l’esternazione, non gioca a fare la regia o a fare l’attore, gioca a sottrarlo», scrive Maganaro.

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Oratorio Carmelo Bene procede per illuminazioni, dà poche informazioni storiche su Carmelo Bene, fornisce poche coordinate che aiutino il lettore a orientarsi, ma ciò non interessa all’autore, almeno apparentemente. Manganaro sembra puntare alla potenza e alla volontà di evocare e forse farci ri-udire la voce di Bene, riportare il lettore al cuore di quell’esperienza unica che era l’incontro con il teatro di Bene in una tensione continua alla negazione e all’assenza del teatro per costruirne una nuova presenza. Da ciò parte l’invito in Pettinare le comete per definire quella scrittura di scena, quell’essere in scena negandosi «la tecnica scenica, l’arredo, hanno sconvolto, assoggettandolo, l’attore, ne hanno eliminato il carattere e le caratteristiche, ne hanno fatto appunto un semplice interprete testuale – osserva Manganaro -. Bene sconvolge questi rapporti, riassoggettando all’attore anche il teatro come fatto tecnologico: la scena, il guardaroba, le luci, la fonica riassumono il valore trionfalistico al quale viene però negata la finalità e la comprensione del fatto scenico: possono avere valore di suggerimenti, più ancora di suggestioni, ma in sé non esplicitano niente. Sono semplicemente dei rivelatori, mentre il carisma è altrove, e se c’è e quando c’è, è nell’attore, egli solo è il portatore dello spettacolo».
Nel raccontare poetico di Manganaro si gode della lingua e del suo suono, si vive o si ri-corda nel cuore l’emozione del teatro di Bene, la sua voce quella voce che è essenziale «che tessa e orchestri instancabilmente non una lingua che già si conosce, ma un linguaggio di cui si ignora tutto e che si rivela all’attore - e allo spettatore – nel momento stesso della sua enunciazione». Manganaro ci porta a «scoprire, se mai fu nostro, un mundus che abbiamo disappreso a udire o che non è mai stato udito, in-audito: questa è scena, questo è teatro come sempre in Carmelo Bene». L’inaudito – inteso come in mai osato oltre che il mai udito – è l’errare che muove Carmelo Bene che ci conduce in spazi inesplorati ed è ancora la prosa di Manganaro che allude e apre scenari a indicare questa possibilità: «Ciò che deve interessare non è tanto la rappresentazione, quanto la possibilità di manifestare e svelare ogni volta un paesaggio celato all’interno di un altro, scoprendolo, scoprendo ogni volta un corpo che ne ricopre un altro».
Oratorio Carmelo Bene di Jean-Paul Manganaro non è solo un saggio, non è solo un contributo alla storia beniana da parte del suo esegeta a vent’anni dalla morte dell’attore, è testimonianza, è parola che si confronta con l’assenza e con l’eternità della poesia di Bene che germina proprio nella sua assenza. Leggere Oratorio Carmelo Bene è avere la possibilità di rivificare l’incontro con il teatro di Bene, con il suo pensiero, con la determinazione di indagine sul linguaggio e il potere del dire e non del già detto, un’azione volta a frequentare quella scrittura della scena che vive e muore eternandosi nell’attore che è pur negando sé stesso. Perché la grande arte, e grande arte fu quella di Carmelo Bene è quella che «sa riversarsi non nei contenuti, ma nei vuoti che crea attorno al proprio incessante sillabarsi». A vent’anni dalla morte di Carmelo Bene c’è bisogno ancora, disperatamente di questo incessante sillabare che nel giorno del ventennale della scomparsa dell’attore pugliese Rai 5 ha voluto proporre in una lunga, emozionante maratona beniana che per un’intera giornata ci ha illuso della sua presenza, meglio ci ha confermato della sua persistenza esistente.

Jean-Paul Manganaro, Oratorio Carmelo Bene, Il saggiatore, pagine 194, Euro 19.

1 La lettera mancata di Maurizio Grande, Marchesi Grafiche Editoriali, Roma, 1989, p. 7.

2 F. Quadri, Fu dissacratore del teatro e custode della scena antica, in «La Repubblica», 17 marzo 2002, p. 34.

Ultima modifica il Venerdì, 18 Marzo 2022 00:29

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