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INTeatro 2022 un concentrato di pensiero e bellezza sulla narrazione del mondo. Il resoconto di Nicola Arrigoni

Sotterraneo. Foto Giulia Di Vitantonio Sotterraneo. Foto Giulia Di Vitantonio

Il battito d’ali dell’Angelo della Storia per raccontare il presente
INTeatro 2022 un concentrato di pensiero e bellezza sulla narrazione del mondo
Il resoconto di Nicola Arrigoni

Dal buio delle caverne in cui gli uomini lasciarono la loro rappresentazione del mondo alle stories di Instagram c’è una costante: l’uomo ha bisogno di narrare, di raccontarsi per ri-conoscersi e per conoscere il mondo che abita. Attraverso la narrazione abitiamo il mondo, abitarlo vuol dire possederlo: non è un caso che il verbo abitare sia strettamente connesso al verbo habeo, avere. Ma non solo: le immagini del mondo non si limitano a raffigurare il mondo, ma formano il mondo conformemente alla percezione che il singolo o una società, o un’epoca hanno della realtà. Perché questa premessa? Perché INteatro Festival 2022, diretto da Velia Papa, ha regalato una rara intensità di pensiero e di estetiche che si è offerta come discorso sul nostro tempo e soprattutto sul racconto che l’uomo fa di sé e della realtà in cui vive. Prima di cercare di entrare nel merito di quanto visto piace sottolineare come quanto inanellato in quattro giorni di festival – dal 15 al 18 giugno scorsi – abbia goduto di una potente coerenza espressiva, con intrecci e richiami che hanno contribuito a creare un discorso sulla necessità di raccontare una storia per bloccare il tempo e lo spazio, cercare un disperato senso nelle costellazioni degli avvenimenti, nelle storie e nel loro divenire.
In questo i Sotterraneo con L’Angelo della Storia danno corpo, movimento e racconto a una stellare sintesi della necessità dell’uomo di costruire una narrazione di sé e del mondo, dai tempi delle caverne a oggi. Un display in cui compaiono delle date: 10.000 a C e il racconto degli uomini preistorici alle prese con la sopravvivenza e le prime forme di immagini dipinte nelle caverne; 1943 Carla Capponi, antifascista, suona Chopin per coprire una riunione di partigiani; 1944 Hiro Onoda, 22 anni, soldato dell’esercito giapponese è lasciato nell’isola di Lubang con l’ordine di non arrendersi mai al nemico; 1983 Stanislav Petrov deve decidere se schiacciare il pulsante rosso per il lancio di testate nucleari e rispondere alla minaccia statunitense segnalata sullo schermo; 1255, Eleonora di Castiglia partorisce la prima di una serie di figli per dare successione al regno di Inghilterra, e ancora 1518 i piagati di Strasburgo danzano fino allo sfinimento, oppure 500 a C., i pitagorici ammazzano su una spiaggia della Magna Grecia Ippaso perché con la scoperta dei numeri irrazionali metteva in crisi la concezione dell’universo elaborata da Pitagora. Sono questi alcuni dei racconti che i Sotterraneo – e in particolare la scrittura controllatissima e acuta di Daniele Villa – intrecciano ne L’Angelo della Storia, un tessuto di accadimenti concreti e verificati: dal naufragio del Titanic allo spiaggiamento delle balene, dalla fake news del gattino Tommasino alla spedizione russa nel 1958 in Antartide per porre una statua di Lenin come segno di conquista. Racconti e rappresentazione di mondi perseguiti fino alla fine, letture di realtà in cui abitare e in cui sentirsi a proprio agio fino a diventarne vittime, i Sotterraneo raccontano il bisogno dell’uomo di raccontarsi storie, di avere una narrazione coerente con quello che sono o vorrebbero essere. L’uomo è vittima e carnefice di sé stesso, è personaggio delle sue storie e ne è condizionato, fino alla fine, fino, a volte, a esserne prigioniero. E allora si assiste a L’Angelo della Storia godendo di un piacere intellettuale che ci mette in crisi, che dice di come il potere dell’immaginazione ci guidi e ci condizioni. La compattezza frammentata della narrazione è direttamente proporzionale all’intensità e pulizia scenica e coreutica di Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati, Giulio Santolini che sono un corpo unico, sono segni e racconti essi stessi e si muovono al battito delle ali dell’Angelo della Storia di Walter Benjamin, che vola con lo sguardo rivolto al passato, dando le spalle al futuro: macerie di edifici e ideologie si accumulano davanti ai suoi occhi e l’angelo vorrebbe fermarsi a ricomporre i detriti, ma una tempesta gonfia le sue ali e lo trascina inesorabilmente avanti: questa tempesta è ciò che chiamiamo progresso». Ciò che fanno i Sotterraneo è sbatterci in faccia la nostra coazione a ripetere narrazioni in cerca di un senso, di una ragione plausibile sulla casualità e sul divenire, in cui il nostro stare al mondo è un definirsi e ridefinirsi continuamente rispetto ai racconti che incontriamo e abitiamo. E tutto ciò accade in scena con grande leggerezza, incredibili intensità e compattezza esecutiva che fa rimanere a bocca aperta, che regala piacere e inquieta, che coinvolge e respinge, che chiede di partecipare ma al tempo stesso sa tenere con intelligenza le distanze, proprio come i grandi racconti in cui è bello muoversi perché ci si sente al tempo stesso un po’ di casa e un po’ estranei. Ma non è forse questa la situazione che è data all’uomo, ospite della Terra e non suo signore e padrone?

Liv Ferracchiati Uno spettacolo di fantascienza 17 06 2022 ph Giulia Di Vitantonio 18

Liv Ferracchiati - Uno spettacolo di fantascienza. Foto Giulia Di Vitantonio

La narrazione di una fine prossima ventura del mondo con tanto di scioglimento dei ghiacci e l’urgenza di mettere in salvo i trichechi s’intreccia con quella di definirsi e definire le nostre relazioni con l’altro e col mondo in «Uno spettacolo di fantascienza» di Liv Ferracchiati. Una rompighiaccio è diretta al Polo Sud, i trichechi continuano a rotolare dalle rocce e l’asse del mondo si sta spostando: a quest’emergenza se ne affianca, se ne intreccia un’altra, universale, costante nel tempo e dello spazio, l’urgenza a rispondere alle domande «Chi sono?», «cosa e come mi definisco?». Uno spettacolo di Fantascienza di Liv Ferracchiati, con la stessa regista a fare da interprete insieme ad Andrea Cosentino e Petra Valentini viaggia su una doppia linea narrativa: il trasporto dei trichechi e lo scioglimento dei ghiacci e la relazione di una coppia, il tutto in un chiaro e ostentato gioco scenico che disvela la finzione e fa della messinscena un valore aggiunto al racconto, una paradossale distanza con ciò che viene narrato, ma anche una modalità per prendere coscienza di ciò che accade e di ciò che siamo. Il rischio di estinzione che corrono i trichechi è il medesimo che potrebbe correre il genere umano. Uno spettacolo di fantascienza di Ferracchiati è un bell’esercizio di analisi e autoanalisi, di scrittura metateatrale che si gode come un bicchiere fresco in un’estate incandescente, una pièce leggera, divertita e divertente che si avvale di un trio d’interpreti in bella sintonia, con Liv Ferracchiati che si confonde sempre più col personaggio di sé stesso, un Andrea Cosentino che dimostra una solida maturità autoironica e una camaleontica Petra Valentini. Ciò che mette in scena Uno spettacolo di fantascienza è una sorta di ragionamento per assurdo, è la definizione e lo svolgimento di un teorema che fa coesistere universale e particolare. L’atmosfera giocosa e surreale della pièce ammanta la vicenda di un aspetto surreale che intriga e diverte, ma al tempo stesso inquieta un poco, si offre – nell’intrecciare il salotto di casa della coppia con la spaccaghiaccio che traporta trichechi – come irrealistico banco di prova nei confronti di una condanna all’estinzione che rimane come minaccia più o meno latente e che non consola.

Jaha Koo Cuckoo 17 06 2022 ph Giulia Di Vitantonio 21

Jaha Koo - Cuckoo. Foto Giulia Di Vitantonio

Il doppio piano narrativo dell’universale e del particolare, della piccola e della grande storia caratterizza anche Cuckoo dell’artista Jaha Koo, un viaggio nella storia della Corea del Sud degli ultimi vent’anni vissuta attraverso la storia biografica dell’attore e performer e il suo rapporto con una batteria di cuociriso inclini alla conversazione. Koo percorre la storia degli ultimi vent’anni della Corea del Sud, la crisi del 2008 che ne ha mutato i destini e lo spirito, lo strapotere della finanza, il dramma della disoccupazione e l’impennata del tasso di suicidi, soprattutto fra i giovani. Jaha Koo racconta di sé e alle sue spalle proietta documenti video della sua Corea fra scene di rivolta e di disperazione. Esperienze personali e fatti collettivi si intrecciano un tutto continuo, in una sorta di docu-drama in cui l’universale si rispecchia nel particolare e viceversa e alla fin fine quei cuociriso parlanti sono destinati a fungere da testimoni, da coscienze attive nei confronti non solo di Jaha Koo, ma di un intero Paese. In tutto questo vige una leggerezza e un’ironia controllate e molto ficcanti che colpiscono nel segno, rendono gli effetti della crisi economica del 2008, la perdita dell’indipendenza gestionale del Pese concreti, incarnati nella storia del protagonista, nel suicidio dell’amico danzatore, in storie di ordinaria quotidianità, stravolte da una straordinaria crisi economica che ha mutato il volto del mondo, accentuato il divario fra le classi sociali, fra ricchi e poveri, non solo in Corea del Sud. E in quanto racconta l’attore coreano, quanto è accaduto in vent’anni in Corea del Sud rischia di apparire molto simile a ciò che potrebbe accadere nelle nostre latitudini: ed è con questo timore che cala il sipario su Cuckoo.

Andrea Costanzo Martini PayPer Play 18 06 2022 ph Giulia Di Vitantonio 23

Andrea Costanzo Martini PayPer Play. Foto Giulia Di Vitantonio

Identità che coincidono con ciò che consumiamo, solitudini in un mondo on demand, scatole che nascondono oggetti, che sono parti del tutto, che fanno casa e prigione al tempo stesso: è questo il perimetro all’interno del quale si muove il protagonista di PayPer Play di Andrea Costanzo Martini, in scena con Avidan Ben-Giat e Gill Geva. Ancora una volta e in sintonia col discorso che attraversa l’edizione 2022 di INteatro, in gioco è il posto dell’io nel mondo, è la sua dipendenza dalla realtà, la costruzione che l’io fa della realtà, il condizionamento che la realtà esercita sul singolo. PayPer Play narra la condizione solitaria di un uomo/marionetta. I suoi bisogni, il suo orizzonte, le possibilità di vita hanno come referente un venditore online che suggerisce bisogni e asseconda desideri, immancabilmente recapitati all’interno della casa. In tutto questo prigione e mondo coincidono, Andrea Costanzo Martini sviluppa una narrazione coreutica che procede lineare, ma poi si fa prendere la mano ed esplode in un virtuosismo metacoreutico interessante e sovrabbondante che rischia di far perdere il filo del racconto, l’evolversi di un pensiero felice che si sfilaccia in un eccesso di segni. Peccato, ma forte rimane, comunque, l’immagine di una figurina post-umana, una supermarionetta, una creaturina futurista che è vittima di sé stessa, del troppo desiderare e del precludersi la possibilità di uscire da sé stesso, o semplicemente dalla prigione di beni e bisogni da acquistare online che si è costruita.

Olivier De Sagazan Transfiguration 18 06 2022 ph Giulia Di Vitantonio 17

Olivier De Sagazan - Transfiguration. Foto Giulia Di Vitantonio

Ed in tutto questo la chiusura del festival con Trasfiguration di Olivier De Sagazan ha qualcosa di ancestrale, ha la potenza di un rito sciamanico, la forza del sacrificio del corpo e del sé per la creazione dell’eidolon che salva, che dischiude l’eterno divenire della natura. Trasfiguration di De Sagazan è un rito potente e materico. Il performer è al centro della scena, dietro tre lamiere, davanti, fra le gambe, un pane di creta e intorno alcune ciotole con colori: rosso e nero. De Sagazan è officiante di un rito di trasfigurazione, di cancellazione di sé per far esplodere il mondo, attraverso i segni dell’arte, attraverso il fare sacro della creazione poetica. Olivier De Sagazan si fa scultura di creta, tavolozza su cui incidere il non-io e l’universale. Con la creta si copre il volto, si annulla, si disegna occhi e bocca su una maschera di terra che inquieta, diventa lupo e uccello, si fa donna con seni posticci e sembra la Venere del Botticelli, si fa capro smembrato e racconta dei corpi consunti di Francis Bacon. Le tre lamiere alle sue spalle diventano supporto iconico di un’action painting che compone un trittico, una crocifissione di materia e di colore. Si assiste al gesto creativo dell’artista, al performer che si annulla nella narrazione, che è corpo di trasmissione dell’atto creativo, demiurgo di un mondo che prende forma dalle sue mani, che si plasma nell’azione davanti a un pubblico ammutolito dalla bellezza che sorge nel buio della scena. Olivier De Sagazan si trasfigura, è sacerdote di una cerimonia che nel gesto e nell’intensità del fare è vera e irripetibile, è rito performativo che ci riporta alle caverne degli uomini di 10.000 anni fa, e la luce fioca ricorda quella dei fuochi accesi per rischiarare il buio degli antri cupi e incogniti. Ecco Trasfiguration regala l’intensità dell’agire e del performare, regala emozioni che mettono a confronto con l’atto puro e gratuito del fare arte, dell’essere arte, del theatron, come luogo della visione e dell’azione. E alla fine non si può che rimanere in silenzio, attoniti, sbalorditi e stupiti della potenza della poesia in azione che racchiude da migliaia l’urgenza dell’Uomo di narrare il mondo che lo circonda, di dargli forma per possederlo, per abitarlo, per averlo, nella consapevolezza che l’inafferrabile del mondo sta nell’inatteso che si compie nell’atto creativo.

Ultima modifica il Venerdì, 08 Luglio 2022 22:21

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