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BIENNALE TEATRO: la verità nella finzione svelata. Seduzione del corpo e tentazioni cinematografiche. Il resoconto di Nicola Arrigoni

"Triptych" dei Peeping Tom "Triptych" dei Peeping Tom

C’è l’odissea dei migranti di The Lingering Now / O Agora que Demora (L’eterno ora) della brasiliana Christiane Jatahy, Leone d’oro della Biennale Teatro 2022, odissea raccontata in un dialogo fra video/cinema e presenza, c’è l’odissea identitaria del Leone d’argento Samira Elagoz con Seek Bromance, storia d’amore trans, una storia in cui lo sguardo sul corpo e la mediazione video sono tratti caratterizzanti un’estetica borderline fra teatro e cinema. E viene da chiedere se sia ancora necessario porre una distinzione fra teatro e cinema, se la chiusura di Biennale Teatro 2022 è affidata a The New Gospel di Milo Rau, un lavoro che porta sul grande schermo la tragedia dei migranti e il messaggio salvifico del Cristo, chiedendo: «Oggi, se tornasse fra noi, per chi lotterebbe Cristo»? Il punto di vista – naturale o mediato – è l’ossessione di Biennale Teatro 2022, un’ossessione che si tinge di rosso per i direttori Ricci/Forte, un rosso, Rot in tedesco, che gratta in gola, è il rosso di un set porno per Brief interviews with hideous men - 22 types of loneliness di Yana Ross, è il rosso della passione intesa come spinta ad agire, ma anche furia che travolge e uccide. 

Il corpo come orizzonte di senso si ripiega spesso in suggestioni vetero/erotiche, questo è accaduto nella Biennale Teatro 2022, ma è un tratto costante di molte performance in cui il corpo diventa l’ultimo, l’unico territorio in cui agire una qualche minima pro-vocazione, nel vano tentativo di fuggire la condanna ad essere semplici e ininfluenti funzioni di un mercato/meccanismo produttivo che riduce tutto in merce. L’unica libertà che ci è data è agire sul nostro corpo, lo sanno bene gli adolescenti, lo si capisce dall’ossessione dei tatoo fino alle azioni di autolesionismo, sempre più frequenti. Questa premessa per dire che spesso il come raccontare è più interessante del racconto stesso, magari superato dalla realtà e rincorso dal performer di turno. Da qui la decisione parziale e consapevolmente parziale di mettere l’accento sulla voglia di cinema della Biennale Teatro, in un momento in cui il cinema languisce, la decima musa va in cerca dell’effimero del qui e ora. Al tempo stesso l’arte della scena – non è una novità, ben inteso – sempre più deve fare i conti con la memoria visiva, con la mediazione del video, sia questo cinematografico o l’occhio di vetro di uno smartphone.
Detto questo e nella consapevolezza di una lettura parziale, piace riflettere ed evidenziare come questa suggestione cinematografica possa essere evocativa, strumentale o intimamente creativa. Ed evocativo è Sovrimpressioni di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini che mette insieme pensiero e azione, finzione e realtà per farsi verità di parola e di corpi. Un lungo tavolone e due attori: l’uno di fronte all’altra, sono al tavolo del trucco e si raccontano, raccontano il loro rapporto artistico di una vita, il trascorrere del tempo, il mutare del loro corpo, il darsi la mano e poi il braccio, l’interrogarsi di due sessantenni. Il camerino e le lunghe sedute di trucco sono da sempre spazio e tempo di un confronto con sé stessi per ogni artista il cui volto si specchia e muta sotto i gesti leggeri del truccatore, un tempo sospeso in cui dirsi e svelarsi, mettersi in discussione. Liberamente ispirato a Ginger e Fred di Federico Fellini, in Sovrimpressioni agisce il bisogno di sovrapporre artificio e natura. Chi sono quell’uomo e quella donna, sono semplicemente un uomo e una donna, sono due artisti che hanno il privilegio di nascondere il tempo sotto un trucco e che più di altri percepiscono il trascorrere del tempo nel corpo, nella capacità di danzare, di chiedere al corpo di rispondere alle sollecitazioni del pensiero. Il dire di Deflorian è un dire a cascata, quello di Tagliarini è un secco far sintesi che ti mette con le spalle al muro. Ginger e Fred, gli aneddoti del set, la figura di Federico Fellini sono evocati come memoria di un mondo che vive nei confini indistinti della fiaba e del mito, sono i resti di una mitopoietica che Deflorian e Tagliavini non solo evocano, ma a cui guardano con dolente nostalgia, la nostalgia per un mondo che non è più, per un tempo che è stato e che la distanza rende più fecondo di quanto in realtà non sia stato. Sovrimpressioni – che debuttò un anno fa all’interno del festival di Santarcangelo – è un lavoro delicato, intimo, alla seconda visione, a distanza di un anno, si ha avuto l’impressione di una certa artificiosità, di una costruzione consapevole, precisa, matematica che vorrebbe essere confessione naturale e spontanea. Così non è, è finzione, ma a tratti verità che commuove per toni, gesti e parole che arrivano dritto al cuore e non è cosa da poco.

milo rau la reprise

La reprise Histoire(s) du théâtre (I) di Milo Rau

Il cinema come strumento per documentare, per inseguire un’oggettività che si costruisce, paradossalmente, in soggettive, in zoommate che imprigionano il particolare per farne un segno universale. La reprise Histoire(s) du théâtre (I) di Milo Rau già nel titolo dice che in gioco c’è il modus narrandi e non il plot della storia, per quanto la vicenda del ragazzo di origine magrebina, Ihsane Jarfi ucciso perché gay alla periferia di Liegi da un gruppo di ragazzi annoiati abbia una sua centralità. La centralità del racconto come testimonianza di realtà – si racconta di una vicenda realmente accaduta nell’aprile 2012 – s’intreccia infatti con la modalità del narrare, con la riflessione sul teatro, sul suo linguaggio, sulla credibilità che esso va inseguendo nello sguardo dello spettatore, come nell’agire dell’attore. La chiave di lettura è triplice. C’è la condizione teatrale: lo disvelamento del mettere in scena, il reclutamento degli attori, il regista che interroga i suoi interpreti, la telecamera che ne indaga le espressioni del volto, il video che proietta azioni registrate che finiscono col sovrapporsi a ciò che viene agito. C’è il racconto della vicenda di cronaca nera, costruita come su un set, scena dopo scena, indagata con realismo voyeuristico dalla telecamera che amplifica il senso di realtà con una descrizione naturalistica e ossessiva. In ultimo c’è la scansione della vicenda, i cinque atti di una tragedia che si compie con la complicità del pubblico, in fondo la tragedia accomuna protagonista della vicenda di nera e l’attore, nel suo spogliarsi del ruolo di personaggio, nello scegliere di essere o non essere, complice lo sguardo dello spettatore. Il teatro e il suo linguaggio si dicono nel mostrare e nel chiedere agli attori non professionisti che fuggono dalla disoccupazione di essere altro, di incarnare i protagonisti di quella storia di violenza e sopruso, maturata nella Liegi depressa economicamente e oppressa dalla miseria sociale e dalla disoccupazione. C’è il racconto della violenza perpetrata ai danni di un giovane magrebino omosessuale, c’è l’infierire cieco e senza motivo su un corpo già cadavere, c’è l’attesa angosciante dei genitori che non vedono tornare a casa il figlio, c’è la banalità di quell’atto e delle conseguenze di quella violenza senza senso e fine a se stessa. Tutto questo viene raccontato e narrato con l’acquisizione sempre e comunque di una messa in scena, col disvelamento della finzione che fa da cortocircuito ad un approccio che potremmo definire iperrealista. A questi due aspetti si fonde la prospettiva di pensiero, sociologica a cui la drammaturgia di Milo Rau non vuole sottrarsi e chiede di ampliare lo sguardo a un mondo, alla banalità del male che non a caso è uno dei cinque capitoli del romanzo teatrale scandito in scena. E la chiusura dell’attore è la sfida al pubblico che alla scena dell’impiccarsi chiede alla platea di scegliere se chiudere il rito del teatro nell’applauso o leggere quella minaccia reale e intervenire perché l’attore non muoia. Buio.

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Sovrimpressioni di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini

La tentazione cinematografica, invece, è dichiarata dall’inizio in Triptych dei Peeping Tom, tre set per tre storie The missing door, The lost room e The hidden floor, tre lavori che Gabriela Carrizo e Franck Chartier hanno ideato per il Nederlands Dans Theatret e hanno voluto riportare in scena con i loro danzatori performer: Fons Dhossche, Lauren Langlois, Panos Malactos, Alejandro Moya, Fanny Sage, Eliana Stragapede, Roger Van der Poel, Wan-Lun Yu. Ciò a cui si assiste è un viaggio di strepitosa intensità tecnica e poetica. La scena si apre su un interno in cui c’è un corpo di donna riverso a terra e un uomo morto seduto al tavolo. Ad un certo punto entra un altro uomo che trascina via il corpo della donna e comincia a pulire il pavimento da una macchia di sangue… Da qui prende il via un movimento che fa sì che quelle figure diventino segni in balia di un tempo, ricordi che evocano, visioni che prevedono. Ciò che propone Triptych è un viaggio su un transatlantico, destinato a solcare le onde del tempo e forse destinato ad inabissarsi in un oceano di lacrime. Ciò che accade davanti agli occhi dello spettatore è il disvelamento tecnico della finzione e, paradossalmente, la potenza di una verità che respira nei corpi, nelle azioni, nell’essere in scena dei danzatori della compagnia belga che appaiono perfetti e credibili in ogni respiro, corpi in balia di un divenire che si nutre di immagini e suoni inediti, di uno spazio che muta come corpo vivo. Lo spazio condivide, infatti, la stessa fluidità, errante inquietudine dei suoi abitanti che di volta in volta sono risucchiati o respinti da quella stanza, dallo spazio comune su cui danno le porte di altrettante cabine, uno spazio che sarebbe piaciuto al vaudeville e che qui ha la potenza di un labirinto di angoscia, uno spazio in cui chi lo abita è prigioniero, in tensione perenne verso un altrove irraggiungibile. La stanza con al centro un letto, una grande finestra che improvvisamente si fa armadio e quella porta, che dà chissà dove, sono le coordinate del secondo set del film agito in presa diretta dai Peeping Tom e che chiede allo spettatore di farsi voyeur – questo il significato del termine peeping tom – anche nella costruzione dei diversi ambienti, che ha la forza e la potenza di una danza fatta di incastri, di spazi che mutano, mentre le maestranze e i danzatori agiscono con precisa e inusuale armonia. E così quell’uomo in lacrime che rimane solo e immobile sul grande letto della stanza, mentre i tecnici trasformano lo spazio circostante, vive di una potenza che si scioglie in lacrime che diverranno diluvio in una stanza nascosta in cui entra acqua in continuazione e su cui scivolano i corpi di anime in cerca di salvezza da un naufragio del tempo e dello spirito. Tutto questo accade in un continuum che non lascia fiato, in cui lo disvelamento della finzione cinematografica (e teatrale) diventano un di più di realtà, non disvelano, ma mostrano l’esatto contrario: come la finzione sia più vera del vero. E allora quei corpi, quegli uomini e quelle donne sono anime inquiete che sudano e trasudano dolore, sono presenze fisiche in balia di desideri mai soddisfatti, di sentimenti inariditi, solo loro stessa vita in viaggio, vite destinate a compirsi in una pietà laica che annega in un oceano di lacrime. Nella Biennale Teatro 2022 di Ricci/Forte il rosso è destinato a stemperarsi nel profondo buio, grigio/nero del naufragio dei Peeping Tom, un naufragio che non ha nulla di dolce, ma assomiglia a una lenta, inesorabile agonia da cui si fatica ad emergere. Un lascito non scontato quello di Triptych, destinato a ritornare in mente, a lasciare un segno vero, non mediato nell’anima di chi ha accolto l’invito sul transatlantico distopico dei Peeping Tom.

Ultima modifica il Giovedì, 14 Luglio 2022 08:27

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