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Utopie infrante e bellezze sfregiate sulle «Vie» del teatro. Dalle cinque ore di «Imagine» di Krystian Lupa a Gli anni di Marco D’Agostin. -di Nicola Arrigoni

Foto Krystian Lupa Foto Krystian Lupa

Ci sono contesti che vanno applauditi, malgrado i testi che portano in sé non convincano pienamente. Questa distinzione è sostanziale per cercare di leggere Vie 2022, il festival di teatro contemporaneo di ERT che il direttore Valter Malosti ha voluto riportare all’antico, in un contesto profondamente differente rispetto agli anni in cui nacque per verve creativa e possibilità produttive. Il merito di Malosti è quello di aver fatto in modo di riprendere le fila di un festival che negli anni della direzione di Pietro Valenti fece di Modena, insieme a Carpi, Vignola e in seconda battuta Bologna, la capitale della scena contemporanea italiana. Non si poteva prescindere da Vie Festival, allora… oggi quella strada è ripresa. In questa direzione va anche il rinato European Theatre Project Prospero che vede nove teatri europei e il canale Artè lavorare insieme per la produzione, promozione e comunicazione di spettacoli internazionali, nel segno di una condivisione di linguaggi e incontri di culture. In tempi di sovranismo e barricate nazionali il teatro ribadisce con forza il potere universale dell’arte che feconda, che coltiva sogni ed utopie più o meno realizzabili o irrealizzabili. Ed è la forza dell’immaginazione che frequenta lo spettacolo/mondo di Krystian Lupa, Imagine, liberamente ispirato all’omonima canzone di John Lennon e affresco di una generazione e del declino dei sogni rincorsi nell’Era dell’Acquario e dalla cultura Hippy. Il lavoro di Krystian Lupa è un lavoro monstruum, per la durata – cinque ore – e la mole di informazioni, di rimandi, di linguaggi che mette insieme, nel segno di una bulimia del dire tutto, dell’esaurire l’argomento e forse lo spettatore stesso che rischia di andare in overdose.
Il punto di partenza e di pensiero è Imagine e la morte di John Lennon: da un lato il manifesto di un’utopia per un mondo migliore e dall’altro la fine violenta di quella stessa utopia, di cui Lupa individua l’origine in Antonin Artaud. Nella prima parte di Imagine è come se si condividesse con Allen Ginsberg, Patty Smith, Susan Sontag e altri protagonisti di quella generazione lo sconcerto per la morte di Lennon, sconcerto di una comunità di sognatori e artisti che vegliano un Antonin Artaud malato. Il regista polacco ri-costruisce quel mondo, ne ricerca gli umori e gli eccessi, usando i corpi nudi e hippies dei suoi attori che vivono la consapevolezza della fine delle utopie collettive con un abbandono a sostanze stupefacenti, al sesso come condivisione di corpo ed energia. La seconda parte dello spettacolo – l’intervallo gioca da pesante cesura temporale – documenta l’inquieto e solitario nostro presente. La scena domestica e da comunità hippy della prima parte lascia il posto ad un vuoto in cui si muove una sorta di novello Adamo, in cui prendono corpo tutte le paure contemporanee: dalla distruzione nucleare, ai riferimenti alla guerra in ucraina, alla necessità di rinnovare l’umanità, fino all’arrivo degli extraterrestri che trasformato Adamo in Eva… La narrazione di fondo è quella di una sorta di amara consapevolezza che l’individuo da solo, il solipsisimo della nostra contemporaneità portano all’annullamento, sono il viatico di un’implosione che l’utopista Lupa racconta e vorrebbe scongiurare proprio facendo suoi gli ultimi versi di Imagine: «Si potrebbe dire che io sia un sognatore/ Ma io non sono l’unico/ Spero che un giorno vi unirete a noi/ Ed il mondo sarà come un’unica entità». In Imagine c’è tutto e troppo di tutto, gli attori sono presenza viva in scena, sono stakanovisti del dirsi, sono corpi che nudi o vestisti trasudano energia, cercano essi stessi di incarnare quel mondo e quell’utopia che il regista vorrebbe cambiare, a cui non si rassegna e, per questo, va cercando nuovi adepti per una nuova utopia possibile.

GLI ANNI Marco D Agostin foto di Alice Brazzit

GLI ANNI Marco D Agostin. Foto  Alice Brazzit

Il riferimento è allo scultore Yanoulis Halepas, considerato l’Auguste Rodin della Grecia, ma ciò non si evince, se non leggendolo dalle note di sala e dal titolo, assistendo allo spettacolo Halepas di Argyro Chioti. Fra danza e teatro la messinscena si offre per la sua suggestione arborea che crea una sorta di ombroso paradiso terrestre in cui si muovono anime non meno cupe, in cui il riferimento va – forse – al monumento funebre «La fanciulla dormiente» che si trova nel primo cimitero di Atene. Ciò che mette in scena Halepas è un teatro fisico e musicale di una certa suggestione, ma non si va oltre a questo. Gli anni di Marco D’Agostin con Marta Ciappina: il titolo è preso dal racconto biografico di Annie Ernaux, Premio Nobel per la letteratura e, per certi versi, è indicativa e fa da guida alla visione la citazione in esergo del programma di sala: «La sua vita potrebbe essere raffigurata da due assi perpendicolari: su quello orizzontale tutto ciò che le è accaduto, ha visto, ha ascoltato in ogni istante, sul verticale soltanto qualche immagine, a sprofondare nella notte» Marta Ciappina gestisce lo spazio scenico attraverso le due direzioni, un andare in orizzontale e, a tratti, un procedere in verticale verso il pubblico. La conta dei limoni come gioco, i frammenti di un’esistenza normale come indizi sulla scena del delitto: la vita è la vittima, l’autore del delitto il tempo? Un interrogativo che sorge vendendo quegli indizi esistenziali: un tavolo, un telefono per le conversazioni col fidanzato, alcune tessere numeriche rappresentano il correlativo oggettivo di un discorso che Marco D’Agostin costruisce su e per Marta Ciappina. Ecco allora che l’interprete è essa stessa detective del proprio vivere, è insieme a lei che componiamo i tasselli di quel delitto che si chiama vita, che termina sempre e comunque con una morte, ma che ha in sé i segni di un percorso, segni che forse si spiegano solo in quel contare i limoni, in quel gioco che appartiene all’infanzia. Sarà ma Gli anni di D’Agostin/Ciappina è uno di quei lavori che per pensiero e intensità d’azione coreutica sono destinati a rimanere impressi, se non a germogliare nella memoria degli spettatori.
Bella è l’installazione vocale/visuale di Daniele Spanò, in cui le musiche originali di Angelo Elle, la presenza non solo vocale del soprano Arianna Lanci costruiscono una riflessione sul cambiamento climatico, prendendo spunto dalla Tempesta di Giorgione per mostrare una Venezia procellosa, vittima dell’acqua granda, corpo fragile di un mondo al collasso, bellezza sfregiata e oltraggiata. Che si tratti delle utopie infrante di Imagine o della Serenissima sott’acqua di Spanò, Vie Festival conferma come il teatro nelle sue diverse declinazioni abbia in sé il valore del pensiero in azione e per questo il ritorno di Vie non può che essere applaudito e sostenuto.

Ultima modifica il Lunedì, 31 Ottobre 2022 17:53

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