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DEBUTTI DI PRIMAVERA alla “Staatsoper unter den Linden” e alla “Deutsche Oper” di  BERLINO. - di Grazia Pulvirenti

"Daphne", regia Romeo Castellucci "Daphne", regia Romeo Castellucci

Daphne composta da Richard Strauss su un tormentato libretto di Joseph Gregor, andata in scena alla Semper Oper di Dresda il 15 ottobre 1938 sotto la direzione di Karl Böhm, cui l’opera è dedicata, è un eloquente esempio della sopravvivenza nella modernità di Pathosformel provenienti dal mondo antico, secondo la teoria di Aby Warburg. Tali nuclei di pathos avevano già costituito l’ispirazione delle “opere mitologiche”, secondo la definizione di Hugo von Hofmannsthal, che con Strauss aveva felicemente collaborato nella realizzazione di Ariadne auf Naxos e Die Ägyptische Helene. Tali capolavori assoluti erano nati dopo il primiero interesse nutrito da Strauss per una tragedia  dello scrittore viennese, Elektra, da lui messa in musica nel 1909. 

Dafne si colloca quindi dopo la fine di un percorso congiunto dei due artisti, interrotto dalla prematura morte di Hofmannsthal il 15 luglio del 1929. Nella solitudine in cui Strauss piomba, aveva creduto di trovare in Stefan Zweig un possibile sodale, ma le leggi razziali resero impossibile proseguire il lavoro avviato con Die schweigsame Frau che debuttò nel 1935. 

Era un percorso di auscultazione psicologica, quello avviato con Hofmannsthal nella trattazione del mito antico, una riscrittura che affrontava il Nachleben dell’antico scavando nella psiche dei personaggi, che divenivano rappresentanti delle inquietudini dell’uomo moderno, esposto al disincanto e alla disillusione. Se Arianna assurge a incarnazione della solitudine della donna posseduta da un amore totalizzante destinata alla dimensione del tragico nonostante l’apparente lieto fine, Elena mostra l’ambiguità di una identità problematica, sospesa fra lo sguardo dell’altro e la propria autoconsapevolezza. 

A tali altezze non assurge Dafne, il cui sentimento di unità con la natura non costituisce un significativo tassello nella creazione di una identità che resta infatti sospesa nella metamorfosi finale. Né presentano validi orizzonti psicologici gli altri personaggi. Ma la musica è magnifica, sospesa fra sonorità rutilanti e affondi intimistici. E la qualità della resa musicale è il pregio dell’allestimento che ha debuttato alla “Staatsoper unter den Linden” in febbraio, con l’efficace direzione di Thomas Guggeius (si vocifera possibile successore di Barenboim) e la straordinaria interpretazione di Vera-Lotte Boecker nel ruolo del titolo, che riesce a dominare la parte con una solida emissione degli acuti e con una incredibile varietà di colori e timbri, sempre sensibile nella resa intimistica del personaggio. Al pari di lei ottime prove hanno dato il carismatico basso René Pape nei panni di Peneios e Anna Kissjudit nel ruolo di Gaea, mentre i ruoli tenorili risultavano entrambi piuttosto deboli.  Soprattutto Pavel Černoch risultava in difficoltà sia vocale che interpretativa, rendendo un Apollo piuttosto macchiettistico, certo non aiutato dalla regia. Come neanche il povero Leukippos di Linard Vrielink. Ebbene sì, perché la regia di Romeo Castellucci è del tutto priva di conduzione ed elaborazione dei personaggi. Che finiscono per cantare in proscenio, all’antica maniera. Ma Castellucci è moderno, è amato rappresentante del teatro d'avant-garde, del Regie-Theater, di cui era un antesignano e ormai egli stesso un epigono. 

L’idea registica per Dafne è la neve: nevica sempre durante l’intera pièce, mai vista tanta neve cadere dalla soffitta di un palcoscenico; i coristi indossano tute da sci, ma Dafne è nuda. Punto. Dietro a ciò si possono costruire tutte le possibili interpretazioni eco-critiche, tutte le possibili inferenze rispetto all’impossibilità dell’idillio nel mondo moderno, etc. etc. etc. Ma non funziona. Amen.

Funziona, invece, e magnificamente la regia di Philipp Stölzl, anche scenografo, di una ottima Turandot sempre alla Staatsoper. L’idea che conduce un vorticoso congegno scenico è che Turandot sia un simulacro, una costruzione prodotta dallo sguardo degli altri, un enorme fantoccio animato che opprime tutto e tutti per una sorta di inestinguibile coercizione a ripetere rituali e misteri. E per mantenere intatta un’identità costruita nella negazione della relazione con l’altro, con l’uomo, che qui più che una minaccia per l’integrità femminile, consacrata dalla vicenda dell’ava, è temuto come figura che rischia di far crollare le poche certezze costruite dal fragile personaggio nella negazione del sentimento d’amore. 

Nella recita che abbiamo visto Elena Pankratova, la prima cantante russa invitata anni addietro a Bayreuth per una apprezzatissima Kundry, dalla vocalità possente, timbricamente affascinante, ha affrontato senza alcuna esitazione gli aspetti più impervi della partitura, dispiegando un fraseggio accuratissimo e un temperamento scenico impressionante. 

Accanto a lei il Calaf di Ivan Magrì ha avuto vita dura. Esangue al fianco della abilità interpretativa della protagonista, poco espressivo e afflitto da un vibrato che rendeva precaria l'intonazione. Mentre hanno regalato due preziosi cammei René Pape nel ruolo di Timur e Olga Peretyatko nei panni di una temperamentosa Liù. La direzione di Maxime Pascal, timbricamente sontuosa e ritmicamente incalzante, ha mandato in visibilio il pubblico. 

Altrettanto egregia la prima alla “Deutsche Oper” di Simon Boccanegra, nella straordinaria regia di Vasily Barkhatov, un fenomeno del Regietheater, che al contrario di altri presunti maestri, con una solida esperienza costruita al teatro Mariinsky, è in grado di mettere la genialità dell’inventiva al servizio di una lettura intelligente dell’opera, scandagliata in maniera approfondita, a volte con tratti delicati, a volte con tratti crudeli, fino a un effetto di catarsi finale. Del Simon Boccanegra ha valorizzato il ritmo incalzante di una storia fosca e tenebrosa, incentrata sulla sete di potere che attraversa diverse generazioni, marcando la successione delle figure al comando con una scena rituale, ripetuta a ogni nuova investitura. Altrettanto interessante la sua capacità di gestire le masse, assecondando i loro movimenti con quelli di una rotazione dei due ambienti principali, un interno anni Sessanta e uno spazio pubblico, sovrastati da una galleria, mostrando la labilità della volontà popolare, sempre pronta a farsi accecare dal politico più abile e ingannevole. Forse mai come in questo allestimento le intrigate vicende politiche della Repubblica genovese sono emerse con tanta chiara efficacia narrativa Le incongruenze dell’opera, al cui libretto manca un efficace fil rouge, e appare ora protesa ad affrontare la dimensione politica, ora invece la vicenda privata di Simone con la sua travagliata storia amorosa e sentimentale, culminante nel suicidio, sono state evidenziate come squarci onirici, come nel caso della magnifica invettiva di Simone che apre un interludio utopico con il suo finale grido: “e vo gridando: pace! / e vo gridando: amor!”

Interprete efficace di Simone è George Petean, possente nel dispiegare una voce tornita e roboante, più capace di potenza che di raffinate sottigliezze. Altrettanto efficace Ante Jerkunica nel ruolo di Fiesco, cui conferisce un nobile ed elegante fraseggio, e una psicologia complessa e contrastata. Eccellente la Maria / Amelia interpretata dalla giovane Maria Motolygina al suo debutto nel ruolo, dalla voce potente e ben calibrata. Farà certamente parlare di sé, come anche il direttore Jader Bignamini, forse un po’ troppo bloccato dall’ossequio del metronomo, più incline a costruire e curare la struttura che gli effetti più lirici e sommessi della partitura. Certo manca il mare.

Ultima modifica il Lunedì, 27 Marzo 2023 21:49

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