Tour nell’Italia delle lingue con Bernard Marie Koltès
B-Motion 2024 e le mille facce dei linguaggi performativi
Nicola Arrigoni
In tempi di Ius Scholae, ovvero il diritto di acquisire la cittadinanza italiana in base al percorso formativo e linguistico, il progetto Koltès, voluto e ideato da Michele Mele, direttore artistico di B-Motion di Bassano del Grappa, entra nel cuore dell’attualità, dimostrando come le arti performative possano offrire occasioni di riflessione e pensiero. Tutto ciò si colloca nel focus dedicato alla drammaturgia contemporanea che ha per tema lo Straniero, ma ciò che interessa, in questa sede, è l’atto della traduzione, ovvero passare attraverso, da una lingua all’altra, dal francese di Bernard-Marie Koltès de La nuit juste avant les forêts, al veneto di Babilonia Teatri con Foresto, al napoletano di Domenico Ingenito con Nuttata e al siciliano di Dario Mangiaracina, Giuseppe Massa con Canzuna segreta. Mele ha chiesto agli artisti di tradurre il testo di Koltès in cui un misterioso straniero abborda un uomo e lo inonda di parole, un monologo verboso a tratti, ma che nella lingua materna dei dialetti trova una sua corporeità ed efficacia sorprendente che non ha nella traduzione italiana. È interessante soffermarsi su questo aspetto della traduzione che permette di passare attraverso una lingua per rendere nostro ciò che non ci appartiene. E’ questo che accade nella traduzione di un testo nella lingua che ci è familiare e ci apre mondi sconosciuti, culture ignote.
Babilonia Teatri - Foresto. Foto Giancarlo Ceccon.
In Foresto di Babilonia Teatri Daniel Bongioani è lo straniero, sordo dalla nascita, traduce il testo di Koltès nella lingua dei segni, testo a sua volta tradotto in veneto da Enrico Castellani e Valeria Raimondi. Enrico Castellani al microfono rappa e incalza il performer Bongioani e dà corpo letteralmente al ritmo della lingua, al ritmo del racconto in un gioco speculare con quello straniero che usa le mani per parlare. E se Foresto ha la generosità dello spettacolo compiuto, Nuttata di Domenico Ingenito ha la forza del work in progress che trasforma il testo di Koltès in corpo che si muove, in lingua che si fa carne, quello straniero è un ragazzo di vita, Ingenito porta lo spettatore nei bassi napoletani, ma fa di più: mostra il lato notturno di una lingua che suda e che è un tutt’uno con il movimento basculante, col sudore del volto, il tutto con suggestioni che richiamano il miglior Enzo Moscato. Così come per Castellani anche per Ingenito è la ritmica della lingua che attraversa il corpo e si fa voce a dare carne al racconto. In Canzuna Segreta è il siciliano di Scaldati che Giuseppe Massa fa dialogare con la chitarra di Dario Mangiaracina dei Rappresentanti di lista, un mix che chiude la trilogia dello straniero, che con grande acume di-mostra come la lingua sia e debba essere veicolo d’incontro e di inclusione, perché la lingua è da sempre la casa dell’essere.
Domenico Ingenito Nuttata. Foto Giancarlo Ceccon.
Dalla lingua che traduce e include si passa – senza soluzione di continuità – alla lingua che cura e che costruisce comunità. È quanto accade con i dancer di Dance Well, pratica per persone con Parkinson, ma aperta alla comunità. Nella sala di palazzo Bonaguro il movimento si fa occasione di incontro, si fa controllo di un corpo che a tratti non appartiene più a sé stesso, si fa linguaggio armonico che attutisce una disarmonia che si coglie in un tremore, in un piede che non ne vuol saper di star fermo. Capelli grigi, occhiali, signore i cui corpi non nascondono l’età e l’estraneità alla fisicità della danza, eppure il loro muoversi all’unisono vive di una leggerezza e di una serenità che commuovono. In CrePa di Sara Sguotti (interprete e coreografa) e Arianna Ulian (dancer e poetessa) portano in scena quella crepa sottile che è fa da discrimine, che ferisce il corpo, «che ha disassato gli arti / aumentano le dosi/ ha un codice esenzione/ la spingono a piegare/ deve essere idiopatico/ chi se ne prende cura/ le porgono una sedia/ maledice ogni vivente / se fa discinesia/ il blocco delle braccia/ maledicono il dosaggio/ si muove lentamente/ non vedo alternativa/ perdendo automatismi/ se ipersessualizza/ procede discinetica/ la degenerazione/ fa parte della vita», scrive Ulian. I corpi delle due performer si cercano, s’intrecciano e mostrano crepe che spezzano l’unitarietà, ma aprono pure ad altra luce, ad altra possibilità. Parola e musica danzano insieme a Sguotti e Ulian per di-mostrare come quella crepa nel corpo e nell’anima non sia solo una ferita, ma possa essere il punto che non teine da cui ricominciare, da cui ricostruire una vita dolorosa certo, ma possibile.
CrePa di Sara Sguotti. Foto Giancarlo Ceccon.
In fondo è quanto chiede agli spettatori Baptist Cazaux in Gimme a Break!!! in cui il performer chiede a sé stesso di quietarsi, di avere una pausa nello scorrere frenetico della vita quotidiana. Cazaux entra in scena, fissa negli occhi gli spettatori e modifica la posizione degli amplificatori nello spazio. È come se cercasse l’armonia adatta, il suono giusto, lo spazio sonoro in cui agire il suo rito, in cui placare la sua frenesia, in cui cercare uno stordimento possibile che possa condurre all’oblio di sé e del mondo. L’artista non smette di gettare gli occhi sul pubblico riunito nella chiesa di San Giovanni. Lo sguardo è di sfida ma a tratti sembra pure chiedere aiuto, i movimenti sono veloci e nervosi, la camminata decisa, l’atmosfera da rave, ossessivo è l’headbanging (i violenti movimenti della testa a tempo di musica), tutto porta a una sfinitezza che accomuna l’artista e chi assiste al suo lavoro. Alla fine ciò che rimane è il sudore, la fatica, lo sguardo perso di Baptiste Cazaux, giovane performer che offre tutto sè stesso, in cerca di una pausa possibile che lo riappacifichi col mondo o lo allontani momentaneamente dalla realtà per smettere di soffrire.
Healing Together di Daniele Ninnarello. Foto Giancarlo Ceccon.
Healing Together di Daniele Ninnarello propone una faticosa e respingente riflessione sul tempo della performance, sul linguaggio del corpo per conseguire l’obiettivo di guarire insieme. Ma da cosa? Viene spontaneo chiedersi. Dalla ritualità del consumo degli oggetti d’arte, dalla codifica del movimento e di quel linguaggio della danza che ci porta ad approcciare qualsiasi performance con la sicurezza di categorie precostituite e indiscutibili. L’effetto è raggiunto. Infastidiscono l’attesa che quei corpi facciano qualcosa, la stasi che impone di ascoltare il silenzio, lo scartare una caramella, lo sconcerto del pubblico in sala, i corpi che sembrano vagare senza un senso nello spazio e che nulla concedono a qualcosa che sembra concepito nei canoni. Tutto ciò accade, compreso la voglia dei performer di uscir fuori dal teatro, in un atto liberatorio, ma al tempo stesso artificioso e non nuovo. All’atto del fare Healing Together lascia perplessi, fa incazzare, poi, pian piano, il pensiero fa breccia sull’approccio emotivo. Quel guarire insieme vuol dire liberarsi dall’ottica di un consumo di svago dell’atto creativo e al tempo stesso operare all’unisono perché la convocazione dello spettacolo dal vivo – teatro o danza che sia – possa essere motivo di trasformazione, sia consapevole della propria unicità e non si conceda all’ottica del puro consumo, della tranquillizzante funzionalità. E viene da pensare: a questo servono i festival, a cercare di stimolare visioni alternative, costruire feste di senso che ci affranchino dall’effimero.