«Sentirsi vivere è forse il senso del teatro»
Le Apocalissi gnostiche di Lenz teatro: tassello di un pensare scenico
Conversazione con Maria Federica Maestri e Francesco Pititto
A cura di Nicola Arrigoni
Ci sono artisti che fanno regali preziosi, che dimostrano una generosità nel darsi che è unica perché mossi da conoscenza, come Maria Federica Maestri e Francesco Pititto che a Parma portano avanti con determinazione il loro percorso artistico che ha racconto e vita in Lenz Teatro. E sembra di poter dire che l’urgenza e la persistenza di essere e dire sia individuabile nella citazione della Prima Apocalisse di Giacomo quando si legge: Ma io invocherò l’intramontabile conoscenza, cioè Sofia (…) lei è femmina da una femmina’. E da qui piace partire dall’essere femmina, dall’esser fertile, dal donare senza chiedere altro in dietro, questo hanno regalato alla rivista Sipario Maria Federica Maestri e Francesco Pititto nell’accettare non solo di rispondere alle domande del cronista teatrale, ma facedo di quegli interrogativi un’occasione preziosa e feconda del loro lavoro. Per questo chi scrive non può che lasciar spazio al loro dire, ringraziando di questa testimonianza, scaturita dagli interrogativi che da sempre suggerisce il teatro d’arte.
Apocalissi Gnostiche chiude il progetto sulle sacre scritture. Come siete giunti ad interrogare i Codici di Nag Hammadi?
«Dopo La Creazione (2021), Numeri (2022) e Apocalisse (2023), Apocalissi Gnostiche prosegue la nostra ricerca sulle scritture del sacro e apocalittiche, dando corpo scenico ad alcuni Codici di Nag Hammadi, un antico tesoro testuale di recente e casuale ritrovamento (Egitto, 1945), costruito con sequenze narrative oscure e lampeggianti, denso di immagini criptiche, radicali e brucianti, che indicano strade ignote per arrivare alla nuova conoscenza. La ragione della ricerca di Lenz nelle pieghe dei codici gnostici, la cui datazione risale al I e II secolo dopo Cristo, sta nel bisogno di essere narrati da una diversa apocalittica - così già processata dalla storia passata e presente - di essere ‘illuminati’ da una nuova e divergente rivelazione. Le Apocalissi Gnostiche annunciano con parole-immagine l’avvento di un’altra sapienza umana_non-umana, senza età, senza ordine, senza volontà, una Sophia che ci invita a percorrere la via del paradosso linguistico per tornare alla radice ed essere guidati nelle tempeste della materia del presente da una ‘femmina nata dalla femmina’».
Come è cambiato il percorso dal primo tassello La Creazione, passando per Numeri e Apocalisse? Come i lavori dialogano fra loro alla distanza?
«Soprattutto nella forma della rappresentazione, nella sua sembianza ‘esteriore’. Nella Creazione l’immagine dell’istante in cui il tutto fu luce – prendeva forma in un impianto visivo costituito di trasparenze, uno spazio curvo, centripeto, velato, un’installazione scenica indifferente al luogo in cui avveniva la mise-en-act. E le antiche eloquenze oscure, le evocazioni romantiche di una natura perduta, le folgorazioni scientifiche contemporanee, componevano un grande affresco di pitture e stati sensitivi sonori e visuali ispirate ai testi della Genesi, dei Salmi e al poema Paradiso perduto di Milton. Le immagini riportavano ad un tempo che implode, come l’angelo che ci guarda precipitando all’indietro o cadendo verso l’alto, come le galassie che si mostrano com’erano un tempo di miliardi di anni fa, come un capovolgersi della linearità che procede verso l’apparire del primo volto, dal caos del primo giorno. Prima il volto, poi un’alba capovolta che è già tramonto, la prima materia filiforme, i primi vegetali, i primi vertebrati, la vita che inizia a volare, la creazione del primo uomo e della prima donna, il volo degli angeli beati e quello degli angeli caduti. Poi il ritorno, la ricaduta nel liquido amniotico, dentro una pancia calda e nutriente di uno spazio materno che tutto risucchia, riduce, concentra. Fino a quel punto nero, sempre presente in ogni macro o microcosmo di atomi cadenti, in ogni istante vitale, fino alla dimensione incalcolabile prima del nuovo inizio. Di nuovi universi. Sono immagini già presenti, già nate, tra il milione di miliardi di sinapsi del cervello, come tra le somiglianti miliardi di galassie e stelle dell’universo, interconnesse e rapide, sovrapposte sequenze sfuocate che ingoiano l’agire dal vivo di canto e parola. Immagini cristallo dentro una bolla di senso, dentro un inizio di tutti gli inizi, come una contemporanea Rosebud wellsiana di memoria infinita. Il doppio velo trasparente e semicircolare della scena ospita l’immagine, la contiene e la curva come lo spaziotempo si piegava alla massa dei corpi, nella scena quadridimensionale dove il tempo fluttua tra un prima e un dopo, e insieme materia e immagine fluttuano tra passato e presente».
Apocalissi Gnostiche Lenz Fondazione
Quale è stato il processo che vi ha portato ad affrontare il Libro dei Numeri?
«Numeri solo idealmente riferito al Libro dei Numeri, il quarto libro dell’Antico Testamento è stata una riflessione artistica sulla numerazione degli esseri, il censimento che elenca e denomina corpi da ri-conoscere, i viandanti nel deserto come testimoni alla prova del dolore e del riscatto sono stati nuova materia di riflessione, dopo la Genesi, un nuovo concentrarsi sul senso del teatro contemporaneo e sul significato di rappresentazione. L’opera scenica prendeva forma nello spazio desacralizzato, dissacrato di una chiesa – oggi galleria d’arte – per tracciare attraverso la parola-corpo-immagine dell’errante nel deserto (Marcello Sambati nelle tre evocazioni di Mosè, Aronne, Miryam) il ‘confine’ della presenza di Dio, cercando di rivivificare le tracce del sacro nell’edificio ecclesiale scomparso. L’altare perduto, depauperato della sua mensa celebrativa, desertificazione della parola-corpo e sangue del Cristo, si faceva recinto anti-sacrificale e camera di adorazione dell’animale, spazio di ebrezza, di rinvigorimento del vecchio Aronne, di rivendicazione del fisico sul metafisico. Diverse sono le immagini imponenti contenute nei capitoli, la nube sopra la tenda di Dio, le trombe d’argento, la giovenca rossa, il serpente di bronzo, l’asina, le conseguenze contenute nelle nuove leggi. Immagini e situazioni che configurano diverse affinità con il nostro presente, così precario sui principi, sul rispetto della terra, timoroso delle diversità e propenso più a chiudersi che ad aprirsi al rischio del nuovo. I due pilastri della drammaturgia, però, si rivolgevano in particolare alla questio della quantità intesa come somma di individui accomunati da una missione profetica – tra conquista e terra promessa - e a quella dell’acqua, elemento vitale al raggiungimento degli scopi divini e umani, alla rappresentazione conscia e inconscia di questo elemento».
Nel vostro lavoro l’aspetto testuale si intreccia e si potenzia con l’immagine, dando vita a una vera drammaturgia visiva.
«La ricerca sulle immagini generate dalla scrittura del testo originale di Lenz – imagoturgia – e viceversa i versi rigenerati dalle immagini si riferiscono principalmente all’acqua, alla sua mancanza, alla sua forza di determinare il paesaggio, ivi compreso il paesaggio degli umani e non umani. Poi la quantità prosciugata e ristretta in una individualità, in un essere solitario – unico bipede nel quadro – in una reciprocità di contrari che creano un vuoto colmo di presenza, come se tutta l’umanità fosse implosa in quell’unico essere vivente. Il luogo prestato al testo d’immagine, alla drammaturgia visuale, è uno spiaggione del Po in secca, dove calura e arsura delineano forme prospettiche e onde d’aria che muovono i contorni. Solitario in quel paesaggio abita il Poeta».
Siete poi passati all’Apocalisse di Giovanni.
«L’Apocalisse dell’Evangelista Giovanni è stata al centro della terza fase del progetto, una riflessione/azione/visione contemporanea sull’essere umano al tempo della sua massima crisi e delle sue minime prospettive di sopravvivenza nell’era dell’Antropocene. Si è scelto di trasferire l’Apocalisse in un luogo di riferimento storico-culturale della nostra città: il Padiglione Nervi e l’area Workout Pasubio, un imponente complesso architettonico di archeologia industriale, ex sede dell’opificio meccanico Manzini, situato nella periferia storica di Parma, un’area caratterizzata dalla prima espansione industriale degli inizi del ‘900, a poche centinaia di metri dalla sede di Lenz Teatro. Un cammino fisico e mentale all’interno degli enormi spazi sacrificali ancora fortemente segnati dall’origine industriale; un campo visuale che si sviluppava in consonanza e contrasto con la trasfigurazione pittorica dell’Apocalisse nella cupola del Correggio (nella magnifica Chiesa di San Giovanni Evangelista) evocando due luoghi simmetrici e opposti: i paesaggi montani dove pascolano liberi pecore e agnelli e le riprese realizzate nello slum di Nairobi Dandora / Korogocho, discarica a cielo aperto ritenuta l’area più inquinata del pianeta e divenuta fonte di reddito per le organizzazioni criminali, attraverso il riciclo e la rivendita di rifiuti raccolti dalla popolazione locale, in maggioranza donne e bambini. La composizione installativa di questa Apocalisse è stata l’esito di un atto estetico di rivelazione, significato primo di αποκάλυψη, e doveva essere originato da un’azione artistica separatrice: levare il velo e separare le cose nascoste dall’involucro opaco che le avvolge per vedere l’estensione fisica del sacro dove immediatamente non appare: individuare la fabbrica come il corpo architettonico in cui si compiono sacrifici meccanici. Per misurare il nuovo tempio sono stati ‘trafugati’ elementi strutturali dalla vicina abbazia dedicata a S. Giovanni Evangelista e i pilastri rinascimentali sono stati posizionati sospesi in attesa della visione della città celeste».
Ed ora le Apocalissi Gnostiche…
«Queste nostre Apocalissi Gnostiche hanno ulteriormente spostato il nostro pensiero concettuale sull’immagine-spazio. Nessun paesaggio esteriore, nessuna peripezia meccanica dello spettatore, nessuna concessione ai falsi lirismi del nostro tempo, nessun appello sentimentale per un’autoassoluzione morale. Tutto è ‘dentro di me’, il male, il bene, l’intelligenza, la deità, il riso, il dolore, l’indecenza, la morte, in un transito rizomatico di sapere e sentire. Nel grande spazio di archeologia industriale di Lenz Teatro, le colonne esfiltrate dalla facciata della Chiesa veneziana della Maddalena, la discepola sapiente prediletta da Gesù, sono sospese orizzontalmente in un interno segnato dal lavoro operaio al tempo del primo macchinismo industriale. Istituiscono uno spazio esorbitante, eccedente, deviante dalla regola della verticale utile ai fedeli inginocchiati, obbedienti e senza sogni. Si oppongono, così sdraiate e disarmate, all’ordinativo basso→alto, dura norma che gerarchizza la salita e la discesa nella piramide plastico-morale di corpi e volumi. Così inutilmente allineate, ci consentono di sfuggire alla vertigine del doppio collo lungo di madonna e marmo illuminazione del Parmigianino e all’orrore sublime del troncone annerito nel flagello di Caravaggio. Non c’è gloria nella realtà dell’Uomo che soffre sulla croce, ma solo tremendo, insopportabile dolore, per questo amiamo il Cristo raccontato nell’Apocalisse di Pietro che ci sorride dall’albero a cui è appeso e che, nell’ineluttabile sofferenza del supplizio, si fa sostituire da un ‘prestacorpo’ a sua somiglianza. La parola è immagine e la visione di sé alla ricerca della verità si raddoppia in quella porta che si fa soglia tra essere e apparire, stare e andare, esistere e ricordare».
Che cosa vi ha affascinato dei codici di Codici di Nag Hammadi?
«Sapere è sentire. Le Apocalissi gnostiche di Adamo, Pietro, Giacomo e Paolo rappresentano una fonte drammaturgica e imagoturgica inesauribile e potente, aldilà delle molteplici interpretazioni filosofiche e teologiche, poiché riconducibili alla realtà del mondo che viviamo, alla condizione umana di ogni singolo essere umano. “Gnosi” in greco antico “conoscenza”, il percorso di conoscenza che l’individuo acquisisce da sé e sul potere – il controllo sul mondo e sugli altri – che questa conoscenza gli procura. Per gli gnostici cristiani il mondo in cui viviamo non è creato da un Dio infinitamente buono e onnipotente, ma il prodotto di una divinità imperfetta e spesso malvagia – il Demiurgo – identificato col Dio dell’Antico Testamento. L’anima deve liberarsi dalle prigioni create per lui dal Demiurgo – il corpo e la materia – per approdare al regno della mente e dello spirito. Per ottenere questo deve mangiare il frutto dell’albero della conoscenza proibito dal Demiurgo, la Mela. Le correnti di idee ispirate allo gnosticismo non sono relegate nell’antichità - la scoperta dei Codici di Nag Hammadi in Egitto nel 1945 ha chiarito alcune complesse teorie che riguardavano origini pre-cristiane, religioni misteriche, miti esoterici - ma fanno tuttora parte dell’immaginario collettivo contemporaneo. Queste teorie hanno prodotto nel tempo arte - basti pensare a William Blake o John Milton -, letteratura, poesia, filosofia, cinematografia, tecnologia, visioni apocalittiche del presente. Anche la figura femminile nel Pistis Sophia (Fede Sapienza), uno dei testi fondamentali della gnosi, come in Maria Maddalena, la Madonna, Salomè e Marta diventa oggetto di ricerca drammaturgica sorprendente considerando che l’autorità, la facoltà di chiedere e la presenza delle donne non compare in nessun altro scritto religioso antico. In particolare, Maria Maddalena, incarnazione umana della conoscenza - gnosi - parla sessantasette volte, riceve le lodi di Gesù, spiega i passaggi che gli Apostoli maschi non capiscono e nella visione gnostica rappresenta la Sposa e controparte femminile di Cristo».
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Perché occuparsene?
«Il pensiero gnostico ‘sulla fine della fine’ introduce rivelazioni divergenti rispetto all’Apocalisse dell’Evangelista Giovanni: il campo di battaglia dell’immaginazione è ampio quanto l’universo, il rombo sismico che travolge ogni confine del reale raggiunge l’apice di un concerto di luce e di buio dove tutto pare fermarsi, le forme mutanti e lo spazio intorno, all’unisono con le strabilianti onde elettromagnetiche. Poi viene l’Agnello e il tempo si ferma, come sull’orizzonte degli eventi. Questo pensiero introduceva l’Apocalisse di Giovanni nella visione di Lenz e con le Apocalissi Gnostiche quell’orizzonte sarà varcato, quando ingoiate nel vortice del ventre oscuro saranno tutte le meravigliose luci delle battaglie catastrofiche e delle prospettive del nuovo mondo che l’opera rivelava agli esseri mortali. Dall’altra uscita del grande antro scuro, ancor più luminose risorgono immagini di altri mondi, altri universi, riemergono materia ed energia colossali, l’insieme degli eoni, la pienezza e totalità dei poteri divini, la scoperta della luce di verità, il Pleroma come grande illimitato buco bianco dal quale sono espulse, emanate e non generate nuove entità divine. L’immaginazione, la conoscenza, la filosofia si appropriano di nuovi archetipi, i testi originari diventano complessi composti alchemici, misteriosi, il verbo diventa criptico e necessita di nuove rivelazioni, di nuovi apostolici testimoni e profezie».
Questa riflessione matura in un nostro tempo apocalittico.
«La questione dello scenario catastrofico, che sia la distruzione dell’ambiente o l’autodistruzione bellica, è stato tradotto in segni e nitide visioni nel precedente allestimento dell’Apocalisse di Giovanni (2023). Il pensiero che muove queste Apocalissi Gnostiche si concentra sulla rivelazione della crisi interiore: la perdita della nostra umanità. Qui si evoca la necessità di ristabilire la differenza tra bene e male, di distinguere tra le cose materiali che ‘generano passione di possesso’ e le nostra ‘natura vera’; in questa nuova creazione cerchiamo di rendere visibile un pensiero critico e salvifico: un pensiero che ci spinge ad ibridarci con lo sconosciuto e l’estraneo, alla ricerca di una nuova radice, di una nuova umanità in armonia con gli elementi che ci circondano. Nel nuovo tempo apocalittico della gnosi l’attraversamento delle riflessioni/visioni immaginali che compongono il mondo arcaico e i nuovi mondi non sono per tutti. Solo chi ha la “punta fine dell’anima” o “l’angelo nell’anima” può accedervi. Solo chi rende reale il sogno sarà salvo. Nuove figure emergono, una in particolare, quella di Maria di Magdala. Attraverso un mondo intermedio, in una mediazione tra il divino e l’umano, in un luogo e tempo immaginali Maria Maddalena vede, ed è la prima a vedere quel che nessun altro può vedere. Può ascoltare e potrà rivelare, non può toccare ma solo potrà amare ancora di più colui che già ha amato e ama».
Tutto questo chiama in causa il linguaggio, ma anche un mutamento di pensiero e prospettiva d’azione, attraverso la fascinazione dell’immagine che rivela.
«Il linguaggio delle scritture sacre è quello delle immagini e dei simboli che appartengono ai sogni, piuttosto che ai concetti propri delle scienze. L’apparizione che si manifesta a Myriam di Magdala – interiormente ed esteriormente – è Spirito e Corpo, è ciò che fa di Myriam un ánthropos, un essere umano completo» (Il Vangelo di Maria, Maria di Magdala, Jean-Yves Leloup, Servitium editrice, 2011). Si pensi a come potrebbero mutare le sorti del mondo attuale se “gli esseri umani completi” attraverso l’immaginario collettivo, l’inconscio collettivo che rende l’io uguale al noi, lo stesso identico gesto originario, potessero rendere reale un’esistenza sempre sognata, un altro essere umano ancora più completo dentro una Natura da sempre completa. La poesia che scrive del bene e del male, dell’Angelo che sale e dell’Angelo che cade, dell’Angelo geloso di Lermontov che scaccia l’Angelo del Cielo “_e nell’etere celeste/lento/sprofondava.”, l’arte in ogni forma complessa quanto complesso è l’essere umano, e in particolare il teatro che emana pensiero e azione tramite un corpo mortale come quello di Cristo e della Maddalena, queste rifrazioni di forma e materia e conoscenza rigenerano lo stato delle cose e del mondo, avvertono e formulano profezie sui destini di ognuno, come sentinelle che scrutano l’orizzonte per nuove apocalissi, per nuove immagini da immaginare e rendere reali. Vi è una rigenerazione ed una immagine della rigenerazione. Bisogna veramente rinascere per mezzo dell'immagine. Cos'è la resurrezione? L'immagine deve risorgere per mezzo dell'immagine... (Vang. Fil 67,10). Trasportati da queste turbolenze dell’immaginazione, convertiti al ‘divanetto dei pensieri di tortora’ e ai baci senza corpo, gli spettatori galleggiano insieme alle quattro colonne, come fanno i bambini quando sospendono con la mano le barchette o gli aeroplanini di carta e le spingono nel vuoto col soffio dell’innocenza. Per la ragion fisica del vero-finto anche lo spettatore – sempre ostaggio della realtà quotidiana – vive in uno spazio-tempo di pura intuizione, in un campo di pura sensazione in cui abbracciare l’ombra e ridere del buio».
Come questo lavoro in quattro tappe si pone all'interno della vostra produzione?
«Nel solco di una ricerca drammaturgica e imagoturgica che necessita di tempi lunghi di approfondimento e opera di trasformazione, trasfigurazione, pensiero. È da sempre la nostra rischiosissima pratica di lavoro, così come la stanzialità, l’operare spesso site-specific in altri luoghi monumentali, ambientali, architettonici contemporanei per poi ritornare nella nostra Fábrica del Universo, come direbbe Calderón de la Barca, a Lenz Teatro. Cerchiamo dove non sia già stato edificato un pensiero, un modo, una forma. Proviamo a creare mondi, per dare vita a nuove geosofie, a campi del pensiero artistico non impagliati e impigliati nelle retoriche del momento».
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Vi siete posti il 'problema' se c'è di una ortodossia nei confronti delle Sacre Scritture accolte dalla Chiesa?
«L’interpretazione esoterica, scientifica e spirituale delle immagini e dei simboli dell’Apocalisse di Giovanni da parte di Rudolf Steiner, l’approfondita lettura di Dostoevskij e l’Apocalisse di Jurij Karjakin, la visione critica di D. H. Lawrence del cristianesimo come religione del Potere - lontana dalla dottrina evangelica dell’amore cristiano - approfondita nella prefazione di Fanny e Gilles Deleuze all’edizione francese, la vicinanza critica di Lawrence con l’Anticristo di Nietzsche e i diversi rimandi e connessioni con la filosofie e religioni orientali, l’interrogarsi sulla Fine e la Morte di Ingmar Bergman nel Settimo Sigillo, gli ultimi appunti di Roberto Calasso sull’Agnello di Dio, la drammatica situazione ambientale a più livelli dello stato attuale della Terra, la ricerca di nuove vie oltre l’antropocentrismo e la crisi dell’identità individuale nel contesto sociale, sono solo alcune fonti della ricerca di Lenz sulla letteratura apocalittica. Naturalmente insieme alla straordinaria iconografia che, nei secoli, ha tradotto per immagini e simboli i diversi capitoli dell’Apocalisse di Giovanni. La questione principale però - e inutile sarebbe ricercare il senso compiuto di tale Libro che va dal cataclisma iniziale fino a quello finale dell’Agnello di Dio e della nuova Gerusalemme poiché solo apre e mai chiude interpretazioni univoche sullo svelamento e sulla rivelazione – rimane il logos teatrale, la parola e il corpo d’attore e attrice che assumono la sfida rituale della comunicazione polisemica. A chi dico, a cosa dico, come dico, come sto unico e sommo sacerdote dentro il Cubo divino, dentro il mio spazio apocalittico? In quale tempo mi trovo a rivedermi in te che mi stai ascoltando, guardando, al riparo dietro la tua parete – quinta? - fuori dal Cubo e senza più tempo se davvero l’avvento dell’Agnello che scende dal cielo con la chiave dell’Abisso ci avverte che il tempo di Dio ha altra misura dal nostro».
E in tutto questo intrecciarsi di dotti riferimenti e immagini alla fine che cosa romane?
«Quel che rimane è il tempo breve del rito, della rappresentazione incompiuta, della terra desolata che ci costringe vis-à-vis a relazionarci con il presente, ognuno davanti a sé, ognuno di fronte alla propria apocalittica immagine. Allora per delineare un quadro/immagine drammaturgico che tenesse in conto il significato esteso, e molte volte frainteso, di Apocalisse come termine esiziale di età primordiali e umane, con al centro il consumo stesso in tempi brevissimi e suicidi della Natura, degli elementi fondamentali di questo Mondo insieme al crescere sproporzionato degli esseri umani occorreva forse tornare al senso stesso di Rivelazione, dopo lo svelamento di catastrofi già avvenute e prossime a venire».
Eppure alla fine rimane se non una speranza, almeno la possibilità di agire, in potenza c’è la disponibilità a cambiare le cose.
«Solo la conversione può salvare il salvabile che rimane, ognuno può decidere da sé se trasportarsi da questo luogo ad altro luogo, guardare e vedere qualcosa di assolutamente nuovo dal già visto, mutarsi nel pensiero, nel comportamento, nella pratica delle religioni in cui l’essere singolo può rivolgersi senza mediazione al divino, una modificazione radicale che possa riunirci alla Natura e all’essere universale, trasfigurarsi nella Natura stessa e sentirne, come unico corpo, il dolore e la forza. Come gli elementi primordiali di questa nostra Apocalisse uomini, donne, colonne, statue, visioni stanno nell’unico elemento che possa davvero pulsare sangue vivo, risuonare di carrelli e ganci ferrosi, di catene tra voci urlanti nelle sale di una fabbrica ora teatro: un altro luogo per un tempo limitato, un Tabernacolo contemporaneo dove vedere pascolare agnelli di pastore erranti, alzare lo sguardo a vedute di Giovanni del Correggio, vedere beccare carcasse le cicogne becchine di Dandora, ri-vedersi nei corpi attorali come lacerti poetici blakeniani, e infine ascoltare echi belanti di voci mutate come tragedia antica e canti sacri verdiani».
Un riferimento personale, all’incontro con voi che risale a K* da Kleist. Come è cambiato il Lenz da quegli anni, inizia anni Novanta? Quanto ancora c'è di quello spirito iniziale, come è evoluto, come è cambiato?
«Mantenendo intatti i fondamentali, come già detto del metodo di ricerca e sperimentazione pluriennale, c’è stato nel tempo un arricchimento derivato dall’incontro con persone dotate di ipersensibilità nell’agire artistico, oltre le normali capacità tecniche attorali, in continuo agone con le forme tradizionali della rappresentazione, alla ricerca del vero senso del teatro contemporaneo».
Che cos'è oggi il teatro per Lenz?
«Sentirsi vivere è forse il senso del teatro. ‘Quel che rimane è il tempo breve del rito, della rappresentazione incompiuta, della terra desolata che ci costringe vis-à-vis a relazionarci con il presente, ognuno davanti a sé, ognuno di fronte alla propria apocalittica immagine’ abbiamo scritto dopo aver attraversato Genesi e Numeri e Apocalisse, e così costruiremo, installeremo la nostra gnosi sul senso del limite invalicabile, dell’impreciso, dell’indeterminato, del corpo che prima ancora della parola parla ad altri corpi, della Maddalena la prima degli Apostoli. Scrivevamo molto tempo fa: ‘Due cose irriducibili a ogni razionalismo: il tempo e la bellezza. È da qui che occorre partire. Il teatro è pulsazione che scandisce il tempo. La materia che pulsa è il cuore, il ritmo risuona nel respiro. Il tempo prende forma nella voce. La voce sale, ma è arrestata. Si è creduto che essa sarebbe salita indefinitamente, ma contemporaneamente si è sempre saputo che si sarebbe arrestata. Prima che si sia stanchi del suo salire, ma quando ormai il presentimento che sta per arrestarsi è già forte, essa si arresta e cambia direzione. Il teatro è attesa e compimento dell’arresto. Lo sguardo e l’attesa, è l’atteggiamento che corrisponde al bello. Finché è possibile concepire, volere, desiderare, il bello non appare. Per questo in ogni bellezza c’è contraddizione irriducibile, amarezza irriducibile, assenza irriducibile. Il bello è nudo, non velato d’immaginazione. Il teatro è nudo e rugoso. Vi si trovano gioie, non piaceri. Il teatro è liquido, acqua, materia che somiglia al nulla. Il teatro è nella vulnerabilità delle cose preziose. Fiori, angeli, bestie.’ Ancora pulsa di verità».
Oggi si parla di teatro performativo. Che cosa vuol dire per voi la parola performance? Come vi relazionate con le possibilità offerte dalle nuove tecnologie?
«Rimangono sempre sopra ogni cosa, ogni atto, ogni fatto sempre le stesse domande: perché fare, perché per-formare, perché teatr-agire, a quale fine, superato ogni intento comico-tragico delle più svariate forme della finzione, ricercare infine quel che dovrebbe essere sinceramente la verità vera; il mondo come io lo vivo e vedo? Serve un corpo altrui per svelarmi il mio interno? il mio esterno mondo? Anche se io sono cieco io vedo di dentro, immagino e creo il mio mondo fuori. Movimento empatico non verso l’altro ma con l’altro».
In tutto questo i corpi nel vostro teatro si fanno immagini e le immagini veicolo di emozioni e di pensiero. Una scelta?
«Sono immagini quelle che vediamo, ogni istante immagini che si fanno toccare, intoccabili e irreali, ma anche al tocco una pietra è sempre, prima, una pietra-immagine. Tra l’Io e il mondo il dialogo è per immagini, e anche oltre, nell’inconscio di un sogno, nel delirio di una patologia, di un rito sciamanico, di un haiku 7+5+7 sillabe poi immagini, la Natura e il pensiero. Ma immaginare per dare uno scopo al fare forse non è abbastanza, fare altre immagini-pensiero, immagine_emozione, riflessi e rifrazioni, immaginazione al potere per il tempo del per-formare. Ma non è sufficiente, forse creare realtà dal fare immagine, ma quale immagine? Immaginarsi l’utopia, una realtà che verrà mai? Divisa dal nostro tempo interiore che la desidera adesso e non domani? L'immaginazione non è soltanto pensiero ma il luogo dove abitano insieme la realtà esterna, concreta e tangibile, e la realtà interna, invisibile e intangibile. L'immaginazione è il tramite tra le due, comunicano tra loro. E comunicare forse non basta, serve il fare nel suo habitat».
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Che cos’è l’habitat che andate cercando e creando?
«Un luogo originario, quello del cuore e del pensiero insieme. Dove si fa l’anima. ‘Nelle tradizioni sapienziali e spirituali antiche l'anima selvaggia, l'io istintuale, si esprime nell'immaginale o “liminale” la zona tra inconscio e conscio dove immaginazione e realtà operano congiuntamente. In questo “luogo”, che è un non luogo, troviamo i simboli e gli archetipi, che sono le forme dell'esperienza umana…Prende le sue radici dalle tradizioni spirituali, i rituali sciamanici delle tribù animiste, la mitologia greca, l'arte, la letteratura, la poesia, l'ecologia profonda. Capacità di stimolare una percezione differente degli eventi, considerando la realtà come una proiezione della propria psiche e trovando in se stessi le risorse per agire costruttivamente su questa. Quindi utilizzare un approccio immaginale significa, in primis, lavorare con le immagini.’ (Rifrazioni da Mundus Imaginalis, o l'Immaginario e l'Immaginale di Henry Corbin e James Hillman). Lavorare con le immagini dentro se stessi per cambiare lo stato di cose fuori, di ognuno e per ognuno. Nello stato di rappresentazione del Sé, nel tempo per-formativo, l’agente artistico può tendere a vivere una realtà ricreata in un tempo percepito che non corrisponde al tempo codificato. E, rifratta, farcela vivere. Ogni capitolo creativo di Lenz pone al centro queste questioni fondamentali per l’arte teatrale, coinvolge persone artistiche per le quali cambiare lo stato di cose diventa l’opera più compiuta, o incompiuta ma sempre permanentemente in costruzione. L’utopia è capovolta, il Potere - per questa nostra stagione dei progetti 2024 - è all’Immaginale»
Che cos'è la bellezza?
«A che serve la bellezza? – ad aspettare la morte. Tutto si paralizza nello specchio perfetto dell’incipit – ah poter gridare ancora è nato! - e nel suo ineludibile controcanto dell’essere alla fine. Essa è libera dal dolore aggrappata con mani piccole e occhi chiusi agli ultimi bagliori - che subito si spengono. Galleggia ormai senza peso tra dismorfopsie e formicolìi, tra assenze e spasmi, tra jamais vu e ipermnesie, tra vertigini e tremori in attesa dell’epifania della sindrome acuta, felice al punto che è solo crudele esistere fuori da quell’approssimarsi al morire. Ma in un momento di confusione io invocherò l’intramontabile conoscenza, Sofia, lei è femmina da una femmina, e se si mostrerà con il suo mantello rosso e i piedi scalzi forse sarà bello guardarla e aspettare ancora un po’».
E il sublime?
«Il bello oltre il limite? Oltre la soglia? Il superamento del limen? Il pieno-vuoto? Credo sia più utile pensare ad un indicativo dinamico. Andare verso, spingersi ancora, sprofondare, risalire, oscurarsi nell’altro sconosciuto, muto, lontano. Condizione di spaesamento, vertigine dell’ignoto, essere due, essere con Lei. La crisi che solo il linguaggio teatrale può mantenere in bilico sull’orlo dell’evento più importante, sentirsi viventi, sapersi immortali oltre il presente poiché elementi primi della complessità del microcosmo e del macrocosmo. Da qui la bellezza e il sublime della poesia teatrale».
La vostra estetica è spesso feroce, respingente, disturbante. Perché?
«La complessità della vita, e perciò del teatro che vive l’arte, non può fingere armonia, luce, pacificazione. Questo non significa ferocia, repulsione e crisi per lo spettatore. Nei riscontri avuti in tanti anni di relazione dialettica con le persone che guardano e vedono l’opera in atto sentiamo che si è costruito un legame intellettuale e umano autentico e prezioso. Chi continua a seguire la nostra ricerca è in cammino con noi, si pone le nostre stesse domande e cerca nella condivisione dell’atto artistico di dare forma all’inquietudine, di dare corpo estetico al turbamento, ma anche di rispecchiarsi emotivamente, di avere re-visioni del proprio mondo sentimentale».
Qual è lo sviluppo che immaginate per Lenz?
«Dopo il quadrittico sui testi sacri, quel che avviene nel mondo e quel che ci hanno consegnato in termini di scritture e immagini-immaginazione-immaginale ci conduce, per ora come interesse di studio, verso un’analisi della violenza, dell’atto violento, dell’eroe mitico e della guerra. Una serie di riscritture performative connesse con l’epica dell’Iliade. Ci vengono in ausilio, come sempre, i pensieri e gli scritti di Simone Weil e i grandi poemi fondativi del pensiero occidentale, per indagare la relazione profonda tra la materia e lo spirito, tra la natura e l’essere umano. Le riflessioni filosofiche sulla violenza del potere di Hannah Arendt per capire il gesto morale e politico che può indicarci una possibile strada di traduzione estetica ed etica. Dopo il lavoro su Gina Pane – Over Gina Pane_4 Azioni Sentimentali – appena concluso, nel prossimo triennio le riscritture performative ispirate a tre artiste decisive per la nostra visione del fare artistico: Louise Bourgeois, Marisa Merz, Leonora Carrington».