mercoledì, 22 gennaio, 2025
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«SCRIVERE TEATRO È CELEBRARE L'INCONTRO TRA ESSERI UMANI». RAFAEL SPREGELBURD in scena al TEATRO DUE con "SETTE CAVALLINI". - di Nicola Arrigoni

Rafael Spregerburd Rafael Spregerburd

«Scrivere teatro è celebrare l'incontro tra esseri umani»
Rafael Spregelburd in scena al Teatro Due con Sette cavallini
Intervista a cura di Nicola Arrigoni

«L’autorialità teatrale non è un fatto privato; non tanto per la constatazione che l’immagine stereotipata dell’artista al tavolino del proprio studio non regge più, se applicata al teatro, quanto perché le regole del gioco (o quel che, più dottamente si intende per drammaturgia) sono dettate da una pluralità di fattori: la committenza, lo spazio teatrale per cui il testo vene pensato, attrici e attori che dovranno mettersi in bocca quelle parole, il pubblico a cui s’intende parlare…». Si apre così il volume di Rafael Spregelburd, Diciassette cavallini, pubblicato da Cue Press, come logica e doverosa, ma non scontata prosecuzione e memoria del progetto che sta vedendo Fondazione Teatro Due di Parma, diretta da Paola Donati, portare avanti una interessante riflessione sul ruolo della drammaturgia oggi e, verrebbe da dire, anche del teatro pubblico italiano rispetto alle nuove autorialità. In questo senso va letta la prima edizione delle Giornate d’autore, iniziativa inserita nel Reggio Parma Festival che ha avuto come momento inaugurale il focus sul drammaturgo argentino che ha presentato in prima assoluta la messinscena di Diciassette cavallini, realizzato con gli attori di Fondazione Teatro Due (in scena fino al 10 dicembre), affiancando la proposta di altri due suoi lavori: Pundonor di e con Andrea Garrote e il debutto nazionale di Inferno scritto e diretto dallo stesso Spregelburd. Tutto ciò si è inserito in altre due giornate in cui sono stati protagonisti i drammaturghi Tiphaine Raffier, Fausto Paravidino con un affondo su Drammaturgia e critica teatrale. Riflettere sull’azione drammaturgica, sulla relazione fra scrittura e messinscena, sul rapporto fra creatività autoriale e committenza, sono stati alcuni aspetti affrontati nelle giornate di studio e messi alla prova dalla produzione magniloquente dello stesso Teatro Due che sembra voler smentire i tempi previ della creatività finanziata, prendendosi il lusso di costruire relazioni. In questo senso anche l’azione editoriale messa a punta da Cue Press ha un suo senso. La cosa più ovvia – lo si ripete ma non scontata – è stata quella di dare dignità editoriale al testo che l’autore argentino ha costruito per e sugli attori del Teatro Due. A fianco di questo non appare meno interessante il contributo che sempre la scasa editrice diretta da Mattia Visani ha voluto offrire come racconta delle riflessioni teatriche di Rafael Spregelburd nel libro, Sul mio teatro: Contagio e DISintegrazione. A guidarci nel suo lavoro con grande disponibilità e generosità è lo stesso Spregelburd nelle giornate che hanno preceduto il debutto di Diciassette cavallini. 

Diciassette Cavallini foto 04089
Diciassette Cavallini

Perché Diciassette cavallini?
«E perché no? (in italiano nel testo, n.d.r.) Le condizioni di produzione erano quelle ideali per questo esperimento. Il Teatro Due, grazie alla sua unicità di essere basato su una cooperativa di attori, ha potuto permettersi un periodo molto lungo di sviluppo del testo (sono venuto già quattro volte a Parma per diverse fasi di prova con gli attori) e in questo modo il concepimento, la scrittura e la direzione di quest’opera italiana assomigliano un po’ a quelle che impongo nel mio modo di fare teatro nella mia città, Buenos Aires; ovvero: il teatro come laboratorio di produzione del senso, dove il processo è più importante della produzione del risultato. I diciassette cavallini si propongono come una metafora elusiva di estrema duttilità all’interno dell’opera: a volte, 17 sono i minuti della sessione di terapia che rimangono al paziente (minuti insufficienti per giungere a qualsiasi risultato); altre volte, 17 sono i soldati achei nascosti nell’ingannevole cavallo di Troia; a volte, invece, 17 sono i movimenti esatti della coreografia che gli attori devono percorrere in senso inverso alle lancette dell’orologio, a ritroso. Che siano 17 e non 10, o 60 o 1000, racchiude un anche un ulteriore e semplice curiosità: il 17 è un numero primo (cosa che comporta non poche conseguenze nel provare ad integrarlo in operazioni con numeri razionali), è una porta di ingresso alla sventura (nel significato folkloristico che si attribuisce ai numeri nella lotteria, il 17 simboleggia la disgrazia), è indivisibile e allo stesso tempo fattore primo di operazioni più complesse. Diciassette cavallini è creato come un poema: le parole e le azioni, qui, sono come pietre lanciate nel confortevole lago della ragione per produrre una sequenza di onde imprevedibili che finiranno per mettere a rischio la nostra percezione e le nostre categorie predeterminate, per dialogare liberamente con un tema che mi è molto caro: la grammatica interna della catastrofe, definita come un evento nel quale gli effetti precedono le cause».

Cosa l’ha affascinata del mito di Cassandra?
«Quando abbiamo parlato insieme con gli attori del Teatro Due di quali tematiche avrebbero potuto coinvolgere i nostri interessi comuni, è venuto a galla il tema del mito. I miti classici, che forse in Italia sono presenti dappertutto (nelle vostre statue, nei vostri musei, nei nomi delle vostre strade), nel mio paese sono invece una materia un po’ distante. Tuttavia, ho sempre condiviso quello che dice il mio maestro, Mauricio Kartun: una buona opera di teatro crea sempre un micromito, un mito di fattura artigianale che prende piede all’interno di una comunità di senso. Un racconto con una struttura molto precisa che crea le sue personali regole di gioco. Fra tutti i possibili miti classici, quello di Cassandra è fantastico, soprattutto per le infinite versioni che esistono. Sembra essere costante materia di equivoco e reinvenzione. Perché non dobbiamo mai dimenticare che i miti non sono stati scritti solamente nella Gracia classica: si riscrivono costantemente. 

Tutto ciò come si realizza drammaturgigamente?
«La sua struttura interna è basata sul paradosso e una forte acronia: la narrazione del mito non è cronologica; a volte gli avvenimenti accadono in ordine inverso, le sirene che muoiono di fronte alla musica di Orfeo, dopo tornano ed essere vive nel racconto di Odisseo e nessuno spiega come. Di questo mito abbiamo proposte forme grammaticali diverse. Il primo atto, che si chiama L’oracolo invertito presenta una forma “apollinea” del mito. Potremmo dire che racconta una storia dall’inizio alla fine, pur con i suoi meandri insondabili, ma come se fosse più o meno una pièce teatrale con personaggi, dialoghi, sviluppo, conseguenze, metafore. In questo primo atto si mostra il terribile conflitto di Cassandra: di fatto può prevedere il futuro, ma solo quando è orrendo. Inoltre, nessuno le crede. E, come se non bastasse, non può vedere il suo proprio futuro. È la maledizione di un dio, Apollo, dal quale volle apprendere l’arte della divinazione. Il dio stabilì il prezzo: le avrebbe insegnato quelle arti se si fosse concessa sessualmente a lui. Di fronte al rifiuto di Cassandra, la maledisse, sputandole in bocca. La nostra Cassandra è un essere umano dei giorni nostri che decide di ricorrere alla terapia per mitigare i suoi super poteri tramite farmaci di dubbia origine. L’opera racconta la sua relazione con Antonio, uno psichiatra che ovviamente non le crede ma che cercherà di aiutarla, con risultati catastrofici. Il secondo atto, quello de I diciassette cavallini, è quello che invece consideriamo la versione “dionisiaca”, che ricicla l’informazione diligente che il primo atto ha dispiegato e la trasforma in puro gioco: versione etilica del mito, mescola, combina, altera, inverte e rifiuta le fondamenta dello sviluppo apollineo e armonico appena visto».

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Diciassette Cavallini

Sembra di capire che ci sia nei Diciassette cavallini il gioco di struttirare e destrutturare il racconto?
«Sappiate che è un’opera che smonta sé stessa. Tutto ciò che dice, lo ritratta. Tutto ciò che mostra, lo occulta. Tutto ciò che è serio e terribile si trasforma in scherzo e divertimento. È un esercizio di attenzione esasperante che invita lo spettatore in un labirinto costruito minuziosamente e nel cui cuore non abita un Minotauro ma qualcosa di molto peggio: Cronos. L’artefice del tempo».

Il tempo è un tratto caratterizzante il mito di Cassandra. 
«Il mito di Cassandra mi affascina perché vedendo il futuro volle disgregare la freccia del tempo. In Cassandra ci sono però anche una infinità di sfumature che possono essere rilette sotto la prospettiva della questione di genere. Quando la nostra Cassandra deve spiegare che tutti hanno cercato di violentarla – nell’anima ma soprattutto nel corpo – (vedi Apollo, Aiace, Télefo, Agamennone) deve compiere il triste rituale di dimostrare di essere la vittima, una situazione ricorrente nei crimini di genere che si commettono nel nome della superiorità del maschio. Tutta la mitologia, oltre ad essere potenzialmente un’allucinazione collettiva (come suggerisce nella nostra opera – e nel prologo del suo libro – Robert Graves) potrebbe essere stata scritta da una prospettiva esclusivamente maschile. Non pretendiamo di poter sciogliere questo nodo, ma è quanto meno lecito mostrare (e denunciare) il posto nel quale è collocata la donna nel mito di Cassandra. Il paradosso è travolgente: Cassandra si offre ad Apollo ma poi fugge da lui. Nella distruzione di Troia, mentre gli achei violentano e saccheggiano, si aggrappa alla colonna di Atena perché la dea la protegga. Ma la dea non è altri che la stessa che alimenta l’annichilimento di Troia e – in sintesi – il destino funesto di Cassandra».

Nella sua drammaturgia si assiste a continui spiazzamenti che a tratti disorientano e alla fine trovano un loro punto di raccordo. Da cosa nasce questa esigenza di desituare in continuazione?
«L’intenzione non è mai quella di disorientare o spiazzare, quanto quella di creare uno spettatore attivo, che si diverta a svolgere una funzione. La sua funzione è unire quello che gli si presenta come isolato dal resto o apparentemente disconnesso. Il migliore spettatore è quello che si pone come co-creatore del senso dell’opera». 

Suon strana questa riflessione detta da un drammaturgo chiamato a ordinare nel suo raccontare la realtà. 
«Le mie opere funzionano come qualsiasi grammatica di qualsiasi lingua: creano le loro regole e alcune delle loro eccezioni. Mentre uno guarda l’opera, assiste alla manifestazione concreta delle regole del gioco di una grammatica che non conosce, ma che inizia ad apprendere man mano che la vede. Per potersi allontanare dal sentiero del senso comune (quello che è già inserito nella visione del mondo di una determinata comunità) è necessario mostrare tanto la regola quanto il suo fallimento. Tutte le lingue traboccano di verbi irregolari; l’irregolarità è più eccitante che la regola, come sosteneva Benoit Mandelbrot e tutti gli scienziati che cercano nelle regole del caos una spiegazione più puntuale, più esatta, per il funzionamento del mondo. Il caos, il disordine, non è altro che un ordine più complesso. Per molti secoli l’uomo ha creduto che il Sole girasse attorno alla Terra, dal momento che è questo ciò che si mostra alla vista. Ma la verità è un’altra. La verità è sempre un’altra, che le spiegazioni newtoniane nascondono o dislocano. Questa complessità, questa organicità di ciò che è vivo, è quello che mi interessa trattare in ogni opera».

Che differenza c’è fra scrivere per attori italiani e scrivere per la sua compagnia? In cosa differiscono i due approcci?
«Non ci sono grandi differenze. Gli attori mi hanno permesso di trattarli come se ci fosse tra noi un’intesa che dura da anni. Diversamente, sarebbe stato impossibile costruire un’opera di questo tipo in così poco tempo. Inoltre, mi piace conoscere altri modi di condursi attraverso i problemi che crea il teatro, che sono quasi sempre gli stessi dappertutto: tempo, immagine, simbolo, complessità, moralismo, didattismo, pazzia, libertà».

Come si è sviluppato il vostro rapporto e il lavoro che avete portato in scena a Parma?
«A giugno dell’anno scorso abbiamo fatto un breve periodo di prove, un workshop per conoscerci, sedurci vicendevolmente, per vedere se c’erano possibilità di divertirci insieme in questa ricerca. Abbiamo deciso di proseguire solo quando abbiamo sentito che l’esperienza avrebbe portato frutto in entrambi i lati. Non c’è grande differenza con quello che succede con i miei attori. Forse con loro l’aspettativa è un po’ minore, perché siamo già abituati a questo tipo di processi. Gli attori del Teatro Due sono preparati per le cose insolite. Dal momento che in Italia convivono tradizioni teatrali antiche e moderne, gli attori sono preparati per confrontarsi con un menù molto vario di linguaggi, che conserva la memoria di tanti strati di storia e di tecnica: la commedia dell’arte, la tradizione politica, la lirica, il teatro-documento, il realismo checoviano (uno degli attori è russo dalla testa ai piedi!), il teatro formale ronconiano o streheleriano. Questo mi dà la possibilità di entrare in collisione con tutto quello che gli attori si portano dietro rendendola un’esperienza professionale molto intensa e gioiosa, perché invece da me e con i miei attori, con i quali condivido la stessa formazione artistica, questo menù è molto più uniforme».

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INFERNO ASTROS María Bäumler

Venendo all’latro testo che ha presentato in prima nazionale, Inferno completa la sua Eptalogia. Che cosa la affascina di Bosch. E come partendo a Inferno ha disegnato e raccontato le sette virtù teologali?
«Non c’è dubbio – o forse invece si – che Inferno completi la mia Eptalogia. Ad essere sinceri, io avevo già dato per concluso il mio lavoro sulla pittura di Bosch con i sette pezzi che compongono l’Eptalogia, finché un teatro austriaco non mi ha commissionato un’opera basata sulla rappresentazione dell’inferno che c’è nel Giardino delle delizie. A quel punto ho deciso di giocare con una vecchia idea che mi aveva ronzato in testa per molti anni: iniziare una nuova serie di pezzi sulle 7 virtù, invece che sui 7 peccati. Tuttavia, la scrittura dell’Eptalogia si era presa 12 dei miei anni migliori e io non avevo altri 12 anni per sviluppare un’opera colossale e smisurata che era stata più che altro un peccato di gioventù. Così ho fatto quello che ho potuto: un’opera di sette scene, in cui ognuna si concentra letteralmente su una delle virtù: carità, fede, speranza, temperanza, giustizia, prudenza e fortezza. La mia opera non le spiega: più che altro, com’è mia abitudine, le distorce, ne evidenzia la complessità; ha la presunzione di mostrare, inoltre, che l’esercizio delle 7 virtù allo stesso tempo è impossibile: le virtù sono incompatibili tra loro».

Perché tornare su Bosch?
«L’esercizio “boschiano” è sempre lo stesso che penso di aver ben definito nell’Eptalogia; quello che mi affascina in lui è la complessa relazione ricorsiva tra figura e sfondo (a volte ciò che è importante rimane dietro, offuscato da forme banali), la perdita di un centro (in Bosch tutte le linee rette sono sfregiate), la perdita del dizionario medievale che stabiliva i significati e che lì appaiono puro delirio di forme, l’infinito dettaglio e la auto-similarità (le due caratteristiche costitutive del frattale). Insomma, all’inizio pensavo che le caratteristiche narrative e pittoriche che mi interessavano fossero davvero quelle che usa Bosch, ma con il passare del tempo devo accettare che in realtà le ho fatte mie. Molte delle mie opere, per non dire tutte, seguono queste regole costruttive un po’ intuitive e un po’ imposte dalla mia casualità, che è ciò che mi guida nelle mie ricerche. Chissà che Bosch non sia stato altro che un alibi».

PUNDONOR 3
PUNDONOR

In Pundonor il gioco sembra essere sulla distrazione, l’interruzione di una narrazione, da cosa nasce questo spettacolo e come ha trovato l’attrice che lo interpreta?
«È esattamente il contrario: Andrea Garrote (la attrice) è l’autrice del testo. Ed è stata lei ad offrirmi di dirigere insieme la sua opera. Non ho dovuto cercarla: Andrea è al mio lato da quando entrambi abbiamo iniziato a fare teatro, era il 1994 più o meno, quando abbiamo fondato la nostra compagnia, El Patrón Vázquez. È un monologo delirante, lucido, spietato, affascinante. Fatto su misura per Andrea. Il suo interesse per le questioni filosofiche più urgenti è una bussola irrefrenable. Andrea rivisita Foucault partendo proprio laddove il filosofo francese ci ha lasciato: se Foucault ha ragione (e ce l’ha) nell’affermare che ogni intellettuale è il creatore delle sue stesse sbarre entro cui è rinchiuso, bisogna fare agire in fretta. Bisogna fare qualcosa. E lei lo fa talmente bene che l’opera crea un miracolo: quello di illuderci (almeno finché dura la rappresentazione) di essere liberi da quel potere che abbiamo eletto come nostro carceriere».

Andrea Garrote l’ha trasformata in regista puro?
Sorride: «Dirigere Andrea è talmente facile che ti viene da pensare che l’opera sia naturale, organica e precisa quando in realtà si tratta di un maremoto di idee, immagini e passioni. Abbiamo curato insieme la regia dello spettacolo più che altro perché Andrea non voleva essere sola in scena durante le prove, e la capisco. Anch’io ho recitato in due miei monologhi (Apátrida e Spam) e so come a volte per un attore sia difficile vedersi da dentro e da fuori allo stesso tempo. Mi piacerebbe dire che il mio contributo è stato fondamentale nel montaggio, ma mentirei: Andrea ha sempre saputo dentro di sé che quest’opera avrebbe imparato a stare in piedi sulle proprie gambe, naturalmente. Io ho avuto il privilegio di assistere, in ogni prova, a come questo è accaduto».

Che cosa è il teatro per lei?
«È il mio modo di stare nel mondo. È la mia forma di esprimere la mia indignazione dello stato in cui si trova il mondo. È l’unica cosa che ho imparato a fare per lasciare ai miei figli un mondo appena meno orrendo. Il teatro, come la poesia, mi libera dal presente. Il presente è spaventoso. Il presente è, inoltre, ogni volta più stupido. Il teatro è il mio rifugio. Il teatro è collettivo: non si può fare da soli. Il teatro ti unisce agli altri in maniera nobile, profonda, intima, vera». 

Il teatro quale finzione deve fingere?
«Non credo di poter rispondere a questa domanda. Quantomeno in italiano. Ma non è solo colpa mia. È, soprattutto, dell’italiano. In italiano, la parola finzione sta molto vicina alla parola menzogna. Finzione implica fingere, sostenere che una cosa è quello che non è. E quello che succede in teatro non è questo, assolutamente. Invece, in quasi tutte le altre lingue esiste la parola che per noi in spagnolo è ficción, e che in italiano si dice fiction, all’inglese. Questo è stato oggetto di difficili e stimolanti discussioni con la mia solerte traduttrice, l’instancabile Manuela Cherubini, con la quale abbiamo discusso all’infinito ogni singola connotazione che si nasconde dietro ai malintesi che nascono in traduzione. Sono arrivato a pensare, conoscendo man mano la realtà italiana, che forse non esiste una parola esatta per dire fiction perché forse è la vostra stessa realtà ad essere ficción. E non va bene chiamare ficción la realtà, dal momento che è l’esatto contrario. Il teatro si presenta come un’alternativa al reale, come una deformazione ingannevole del reale. Il teatro può gettare luce sul reale, alla pari di un Sole o un satellite che la riflette, proprio perché non sta sulla stessa Terra che riceve quella luce; sta fuori».

Quale il rapporto fra attore e autore?
«Il mio punto di vista in questo senso è molto di parte. Mi considero tanto autore che attore. Penso che la specificità della scrittura teatrale faccia si che essa risulti più facile quando si è attore, piuttosto che autore. La grande tradizione [teatrale n.d.r.] che abbiamo in Argentina me lo fa credere con assoluta sicurezza. Ma basta spostarsi di poco per incontrare lo stesso identico fenomeno: non c’è dubbio che gli attori della Commedia dell’Arte, prima che nascesse la figura del regista, erano autori di sé stessi. Ed è verosimile supporre che Shakespeare stesso fosse tra gli attori delle sue commedie e che la sua formazione, a parte quella poetica, fosse stata fatta sul campo. Io mi considero un autore al pie del escenario [tradotto letteralmente a bordo del palcoscenico, ovvero che scrive partendo dal lavoro di improvvisazione nato con gli attori, n.d.r.]. Generalmente sono più lucido, più ispirato, più preciso, quando scrivo durante le prove. Tuttavia, ammetto che dopo tanto tempo che lo faccio sono diventato capace di replicare questa sensazione anche stando alla scrivania. E probabilmente alcune delle mie opere più acclamate sono nate proprio alla scrivania prima di arrivare al palcoscenico. Ma non importa. Non ci sarei mai potuto arrivare senza passare per l’educazione teatrale che offre il lavoro dell’attore. Tutti i problemi tecnici del teatro l’attore li capisce al volo. L’autore, no».

E il ruolo del drammaturgo?
«È una distinzione che nella mia cultura quasi non esiste. Nei paesi nordici e anglosassoni, il drammaturgo è l’anello smarrito tra autore e regista. Un organizzatore di idee per elaborare un progetto teatrale. Questo è un ruolo che non esiste da me: drammaturgo è sinonimo di autore. Di un autore specializzato nella scrittura teatrale. Romanzieri, scrittori e poeti sono soliti parlare scherzosamente di noi come di “scrittori con capacità differenti”. Siano benvenute queste capacità differenti: permettono alla scrittura di liberarsi dei limiti imposti dalla letteratura per gettarsi su altri splendidi territori: le arti plastiche, la scultura, la musica, la danza». 

Da cosa nascono i suoi testi? Da quali suggestioni?
«Nascono quasi sempre da una manciata di immagini annotate in modo completamente casuale ai bordi dei miei quaderni di appunti. Non annoto idee, annoto immagini. Un drammaturgo è simile ad un accumulatore compulsivo di manufatti senza alcuna utilità in attesa di trovare la loro cornice di riferimento che trasformi il pattume che ci circonda in tesori da desiderare. Le mie opere nascono soprattutto dalle mie paure, dalle mie vergogne, dalla mia onnipresente paura della morte».

C’è chi la considera un autore complesso. Che cos’è la complessità?
«Non c'è da avere pudore nel parlare di complessità, non è un giudizio di valore, non è qualcosa che sia più brutto o più bello. Considero la complessità così come la intende la scienza moderna, quella che si oppone al riduzionismo (o scienza newtoniana). Il riduzionismo tende a considerare i sistemi come gruppi di formule ordinate ma isolate: se due sistemi newtoniani collidono (e, soprattutto, se sono tre e non due) queste formule già non sono più sufficienti per spiegare i risultati di questa collisione. Per questo è nata una nuova modalità di calcolo, che accoglie quei mostri che il riduzionismo aveva nascosto in una borsa oscura che non doveva essere aperta: il calcolo iterativo, la geometria frattale, i numeri immaginari. Un ordine complesso può sembrare disordine, ma è solamente una forma più elaborata di ordine. Nel momento in cui non abbiamo formule per spiegarlo, lo chiamiamo disordine. Ma queste formule, prima o poi, appaiono. La realtà è complessa. Non è lineare. E. soprattutto, è molto strana. Non lo dimentico mai».

Cosa vuol dire oggi scrivere per il teatro? A quali necessità risponde?
«Molte volte si è pensato che il teatro si sarebbe convertito in qualcosa di anacronistico, che sarebbe scomparso. Il suo ultimo certificato di morte è stato firmato durante la pandemia, durante la quale il contatto tra persone era vietato. Il teatro è quasi arrivato al punto di convertirsi in una sciocchezza virtuale che aveva però già un altro nome: video. Tuttavia, ad ogni attacco che riceve, il teatro non fa altro che riaffermare la sua essenza primordiale. Scrivere teatro è celebrare l'incontro tra esseri umani. È donare complessità alle loro relazioni. Il teatro non esiste per compiacere punti di vista, tantomeno per divertire le masse. Per questo, esistono altre cose con altri nomi. Il teatro esiste per costruire un foro nel quale si svolga un convivio. In questo foro, il pubblico si converte in una polis, si riunisce come un tribunale per giudicare eventi, comportamenti, responsabilità. Allora, il teatro, incluso quello più frivolo, grazie alla funzione di questa polis, rappresenta sempre una cosa: la politica. La trasformazione del reale. Prestiamo attenzione, per esempio, al fatto ad attraversare davvero una crisi, in questo momento, non è il teatro (che continua ad essere necessario per creare incontro) bensì il cinema che, a volte, ha tentato di prendere il suo posto. Il cinema sta scomparendo inesorabilmente. La gente ha imparato a privatizzarne il consumo, che adesso avviene nelle case, nei cellulari. È la sua stessa condizione industriale (l’enorme costo in termini economici) che lo converte in una vittima indifesa del mercato e dei suoi capricci. Lo vediamo molto chiaramente in quei paesi dove destre molto ignoranti celebrano la scomparsa di qualsiasi forma d'arte: il governo argentino ha fatto credere che l'esistenza di un'accademia del cinema, per esempio, sia il motivo della fame che soffrono i bambini nel Chaco. In realtà si vuole evitare che il cinema possa seguire la via tracciata dal teatro (che è politico), dal momento che il suo consumo è molto più massivo e, per questo, molto più attivo nella trasmissione delle ideologie. Il teatro, però, è insostituibile: è una macchina a trazione umana. Risponde alla necessità primitiva delle società di farsi raccontare storie; ma in gruppo, non individualmente. Parla a un noi e non a un io. Il teatro scomparirà solo quando scomparirà anche l'ultimo essere umano. Fino a quel momento, soffrirà solo metamorfosi permanenti».

Si ringrazia Rafael Spregerburd per la disponibilità e Michela Astri dell’Ufficio stampa del Teatro Due per la collaborazione. 

Ultima modifica il Sabato, 07 Dicembre 2024 21:03

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