Uno straordinario sogno firmato Michieletto alla Royal Opera House,
la Lehmann’s Trilogy con la regia di Sam Mendes,
MaddAddam del coreografo Wayne Mcgregor
Alla Royal Opera House ha debuttato un nuovo straordinario spettacolo firmato Damiano Michieletto insieme a Eleonora Gravagnola: gli onirici, struggenti, malinconici eppur ironici Contes d’Hoffmann di Jacques Offenbach. Il regista, supportato dall’impianto scenico visionario e cangiante di Paolo Fantin, dagli sfolgoranti costumi di Carla Teti, fa rivivere l’opera nei suoi due piani: quello della rievocazione fantastica, ingigantita e amplificata dai giochi dell’immaginazione, e quello della sofferenza delle delusioni amorose vissute nelle diverse fasi della sua vita dall’ormai vecchio protagonista. La rievocazione memoriale è fortemente teatralizzata, è uno spettacolo nella mente del protagonista. Il filo conduttore fra le varie scene, tutte di umori e suggestioni differenti, è la danza: si balla sempre in quest’ allestimento, con le coreografie, anch’esse estremamente fantasiose e bizzare, di Chiara Vecchi.
Un nostalgico e ormai disincantato Hoffmann è interpretato dall’eccellente Juan Diego Florez, che in questa parte, nonostante alcune perdonabili difficoltà nel volume del suolo, offre un personaggio variegato e cangiante, giovane e vecchio, a seconda delle necessità, donando ai tre diversi atti coloriti e timbri sapientemente differenziati.
Sempre sorprendente Niclause di Julie Boulianne, strepitose le tre altre protagoniste femminili, Olga Pudova, che ci regala un’Olympia senza i soliti stereotipi meccanici, eppure quasi un cyborg, la sofferente Antonia di Ermonela Jaho, la seduttrice femme fatele Giulietta interpretata Marina Costa-Jackson. Il genio del male è ireso con grande maestria, pienezza di suono, precisione di emissione e timbro ben tornito da Alex Esposito, interprete di Lindorf/Coppelius/ Dr. Miracle e Dappertutto. Sontuosa la direzione di Antonello Manacorda.
MaddAddam coreografia Wayne Mcgregor
Meno riuscita l’operazione condotta sulla trilogia apocalittica di Margaret Atwood, MaddAddam dal coreografo Wayne Mcgregor su musica di Max Richter. L’idea di fondo, ovvero quella di non raccontare le vicende della narrazione della Atwood, ma di usare corpi, gestualità, danza, musiche, luci, per comunicare emozioni, è certamente interessante e condivisibile, ma ciò va a detrimento di ogni plastica evidenziazione di un fil rouge, che spezzatosi sin dalla prima scena, non riesce a ritornare con evidenza nemmeno nell’ultima, quando il bambino indossa il cappellino del personaggio principale, Snowman/Jimmy, indicando che la salvezza inscenata nella scena precedente è solo illusoria, e che il gioco della catastrofica dissoluzione dell’umano riprende sempre da capo, inesorabilmente.
la Lehman Trilogy, regia Sam Mendes
Di nuovo in scena lo spettacolo forse più di successo a Londra in questi ultimi anni: la Lehman Trilogy con la regia mozzafiato di Sam Mendes al Gillian Lynne Theatre. Il punto di forza di questo allestimento, vincitore di 5 Tony Awards, risiede nella sua capacità di intrecciare la dimensione intima e personale con quella universale: partendo dalla storia di tre fratelli visionari e intraprendenti, la Lehman Trilogy adattata dal testo di Stefano Masini da Ben Power, è un racconto epico che attraversa due secoli di cambiamenti, rappresentando non solo l’evoluzione economica, ma anche quella sociale ed etica degli Stati Uniti. La regia punta con successo a un equilibrio tra approccio in terza persona, epico e sornione, e il coinvolgimento emotivo, trascinando lo spettatore tra empatia per la dimensione umana dei fratelli Lehman e la riflessione critica, stimolate da un ritmo scenico che richiama la trasformazione e il mutamento, in perfetto accordo con l’essenza drammaturgica dell’opera.
Gli attori sono di una bravura irresistibile: a interpretare Henry è John Heffernan, Mayer è Aaron Krohn, Emanuel Howard W. Overshown. In realtà essi danno vita anche a tutti gli altri personaggi, alternando voci, gesti e intonazioni con un raro e godibilissimo virtuosismo, alternando narrazione e immedesimazione nei diversi ruoli, con piccoli pretesti, quali un mazzo di fiori per simulare un carattere femminile, un colletto rivoltato, un dito in bocca, catturando lo spettatore in un gioco di trasformazioni continuo. La magia interpretativa è tuta giocata sul continuo mutamento delle intonazioni, dei ritmi e della gestualità. E sui movimenti, condotti con sapienza, entro un cubo a vetri rotante, progettato da Es Devlin, fulcro dello spettacolo. Ogni elemento scenico, dalle proiezioni in bianco e nero di Luke Halls agli oggetti di scena, è funzionale e simbolico. Le luci di Jon Clark arricchiscono l’atmosfera, trasformando la scena in un'opera d'arte di estrema eleganza, con musica dal vivo eseguita da Cat Beveridge.
Sul fronte sinfonico, la London Symphony Orchestra la fa sempre da padrone, con concerti amatissimi e applauditissimi dal pubblico londinese. Straordinario quello diretto da Klaus Mäkelä, con il violinista Andrej Power. La sua direzione è travolgente, tanto nel sondare le sfumature della malinconia nella Tapiola op. 12 di Jean Sibelius, o nell’apertura del Concerto per violino n. 2 di Sergei Prokofiev, una sublime evocazione di distese di terra coperte di neve, quanto nella esplosione vigorosa di ritmi e colori nella Sagra di primavera di Igor Stravinsky. L’esecuzione di quest’ultimo brano ci ha donato un momento di immensità: se, rispetto ad altre interpretazioni, come quella di Bruno Bartoletti alla Scala, si smarrisce un po’ il senso generale delle strutture, a essere esaltato è, la specifica unicità di ciascun suono, ricercato, ponderato, prodotto in manifera estatica eppur precipua, con una intonazione perfetta e una varietà di colori straordinaria.
Grazia Pulvirenti