A Siracusa, ogni anno, le parole più antiche ritrovano voce. Il 9 maggio, al Teatro Greco, si è aperta la 60ª stagione dell'INDA, la fondazione che da oltre un secolo mette in scena i testi classici. Un rito in cui le ferite del mito si sono riaperte e la voce rabbiosa di Elettra ha squarciato il silenzio millenario delle pietre. Con la regia nitida e densa di Roberto Andò, palermitano, e la presenza magnetica di Sonia Bergamasco, l'antica tragedia di Sofocle non è tornata in vita: è esplosa nel presente. E il pubblico, in silenzio, ha capito che non stava per assistere a una rappresentazione, ma per prendere parte a una cerimonia di riconoscimento collettivo. Un grido antico che riguarda ancora le fratture irrisolte di un territorio, il lutto senza pace, il rancore che diventa identità.
Sonia Bergamasco
La vicenda è nota: dopo l’assassinio del padre Agamennone da parte della madre Clitennestra e del suo amante Egisto, Elettra vive consumata dal lutto e dal rancore. Attende il ritorno del fratello Oreste, con il quale compirà la vendetta, uccidendo i colpevoli. Ma la giustizia privata non le basterà a colmare il vuoto della perdita: la ferita rimane aperta. La voce di Elettra non viene percepita come un suono antico e distante, ma come qualcosa che ci attraversa, come se quel dolore, quella rabbia, quella solitudine non fossero solo della figlia di Agamennone, ma di chiunque oggi si senta tradito, abbandonato, senza casa simbolica. Il teatro, allora, non è solo un dispositivo di memoria, ma uno specchio affilato: Elettra racconta il nostro stesso disordine interiore, la nostra sete di verità, e la nostra paura che non esista redenzione. In questa lettura, Elettra non è solo una figura mitica: è una condizione umana, una creatura attraversata dal lutto, un dolore che si ostina e che non chiede pietà. Non vuole guarire. Non può. Il suo corpo vive nel ricordo del padre assassinato, la sua voce si spezza nel rancore contro la madre Clitennestra e il suo amante.
Elettra, regia Roberto Andò
Roberto Andò la definisce "furiosa e indomabile, moderna nella sua instabilità, antica nella sua sacralità". E Sonia Bergamasco le offre un corpo scarnificato e un respiro che sembra provenire da una lingua perduta, suonando lei stessa il pianoforte in scena, come se solo la musica, composta da Giovanni Sollima, potesse dare forma al suo dolore muto, e farlo salire come un canto notturno, verso un cielo che non consola. Sono note spezzate, a tratti dissonanti, che si raccolgono in una melodia che non redime, perché non consola e non salva: semplicemente ne dà testimonianza. La vendetta, pur compiuta, non basta a colmare il vuoto di senso, non placa il trauma, non restituisce la pace. In quella musica c'è l'eco della verità più amara: che il dolore, come l'amore, non ha soluzione. La melodia è l'unica voce possibile quando le parole hanno fallito. Il pubblico, seduto tra le pietre millenarie, comprende presto che non si tratta di assistere a un testo antico, ma di lasciarsi attraversare da un mistero vivo.
Elettra, regia Roberto Andò
La scenografia di Gianni Carluccio è un palazzo spezzato, scosso alle fondamenta, come la facciata di un trauma collettivo, una rovina rituale che non solo ricorda la dimora crollata degli Atridi e la casa della sua infanzia, ma diventa il luogo fisico di un esilio interiore, che non riesce ad abbandonare. È una gabbia e un altare, una tomba e un campo di battaglia, come se l’architettura stessa fosse il prolungamento del dolore di Elettra amplificando ogni gesto, ogni silenzio, ogni parola che si fa ferita. E in quel paesaggio interiore si staglia Clitennestra, regina e madre, interpretata da Anna Bonaiuto con un'inflessibilità regale: siede su una sedia che è trono e patibolo, incarnando non solo il potere, ma la sua ambiguità, la sua condanna muta, "una madre non riesce ad odiare fino in fondo i suoi figli" dice, ma subito dopo gioisce crudele alla notizia (falsa) della morte di Oreste, il figlio. Lei ed Elettra si somigliano nonostante l'opposizione apparente. Sono due donne che abitano lo stesso dolore in modo speculare e inconciliabile, e per questo tragicamente affini, legate da un nodo di sangue, dure e opposte, ciascuna calcificata nella propria ossessione e nella propria furia, che entrambe chiamano giustizia, ma che si nutre soltanto di solitudine e abbandono.
Elettra, regia Roberto Andò
La sera prima della prima, all'Orecchio di Dionisio, Massimo Cacciari ha pronunciato parole che sembravano accompagnare lo spettacolo come una cornice filosofica e umana: "Elettra non cerca giustizia. Cerca solo di restare fedele al suo dolore. E in questo ci assomiglia". Parole che bruciano, perché nella figura di Elettra si addensa il senso di un tempo in cui le famiglie si spezzano, le memorie si cristallizzano e le ferite non si rimarginano. Lei è il simbolo tragico della contemporaneità: figlia di un mondo disgregato, abitante di un vuoto che non si riempie, prigioniera di un lutto che si fa identità. Il giorno successivo, sempre sullo stesso palcoscenico, Robert Carsen ha messo in scena "Edipo a Colono". Un'altra ferita. Un altro padre. Edipo (Giuseppe Sartori) cerca non la vendetta, ma un luogo dove morire in pace. In una scenografia marmorea, scolpita come una stele, si muove con passo incerto e voce ferma, accompagnato da una Antigone che è figlia e custode. Se Elettra è il grido, Edipo è il silenzio. Se lei non perdona, lui si arrende. E insieme, queste due tragedie raccontano l’anima spezzata del nostro tempo: identità fragili, giustizie non riconciliate, famiglie smarrite. Potrebbe sembrare lontano, questo evento. Un’altra isola, un’altra scena. Ma non lo è. La Campania — e in particolare la provincia di Salerno — è terra di Magna Grecia, e quindi terra sorella di Siracusa. A Paestum, come a Siracusa, la pietra parla e c'è bisogno di questa parola che non consola, ma che costringe a sentire. L’ “Elettra” di Andò non è un esercizio estetico. È uno specchio crudele e lucidissimo. È, in fondo, un momento in cui il mito si disvela, e l’antico si fa presente. È la tragedia dei figli che non possono perdonare, delle madri che non riescono a proteggere, dei fratelli che tornano troppo tardi. È la tragedia dell’Occidente, che ha perduto il senso del rito, e forse proprio per questo torna ogni anno tra queste pietre a cercarlo.
All’uscita, nessuno parla. Il pubblico – oltre 4500 persone, silenziose e immobili – trattiene il fiato come dopo una tempesta. Perché il teatro, qui, non è intrattenimento. È un grido sacro, una lingua perduta che tutti conosciamo. Lo spettacolo replicherà al Teatro di Siracusa fino al 6 giugno e poi andrà in scena a Pompei l’11, 12, e 13 luglio 2025.
Patrizia Tortoriello