mercoledì, 25 giugno, 2025
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 PRIMAVERA DEI TEATRI A CASTROVILLARI 2025 XXV EDIZIONE: dal 25 maggio al 1° giugno. -di Gigi Giacobbe

Incontro con Lorenzo Izzo e Federica Carruba Toscano Incontro con Lorenzo Izzo e Federica Carruba Toscano

Primavera dei Teatri a Castrovillari 2025 XXV Edizione dal 25 maggio al 1° giugno
di Gigi Giacobbe

Rispetto ai precedenti Festival di Castrovillari, segnati da foto artistiche o immagini singolari, l’edizione di quest’anno, la XXV, sempre diretta da un trio compatto - quello di Saverio La Ruina, Dario De Luca, Settimio Pisano - (minchia come passa il tempo!), è siglata solo da numeri romani in forma digitalizzata, in accordo con i tempi computerizzati che viviamo, poggianti su degli azzurri astratti con macchie di giallo, in sintonia con alcuni spettacoli di cui parleremo più avanti. Già appena arrivato, ho visto al Teatro San Girolamo (una chiesa trasformata in Teatro, utilizzata al posto del vecchio “Capannone”, un tempo stazione ferroviaria di Castrovillari) uno spettacolo siglato dal Collettivo lunAzione, progettato e diretto da Eduardo Di Pietro, denominato Incontro. Che vedeva sulla scena un personaggio vestito di grigio, Federica Carruba Toscano, che alle prime non sembrava stesse recitando, per come in modo trafelato e concitato, posizionandosi al centro della scena, comunicava al pubblico che un ragazzo di nome Michele di 17 anni, era stato colpito con due colpi di pistola, uccidendolo all’istante. Il ragazzo, pure fratello della donna, era certamente una vittima innocente, ammazzato forse per uno scambio di persona. Ad un tratto dal pubblico s’alzava una voce d’un giovane in tuta grigia, Lorenzo Izzo, che in un dialetto napoletano gridava qualcosa per me incomprensibile, conquistando poi la scena accanto a quella donna. Da qui in avanti fra in due s’innesta qualcosa simile ad incontro di pugilato dialettico, come quello d’un insegnante che può avere con un suo alunno problematico che vive in cattività ai margini della società. Anche lui come lei, si porta sul groppone l’uccisione d’un fratello più giovane di lui, imbrigliato in un giro di macchine rubate che poi riusciva a rivendere. La donna s’accorge subito delle sue carenze scolastiche, per il modo come legge su un vecchio libro impolverato e per come risponde alle sue domande di storia. I due litigano continuamente. Lui vuole andare via. Lei lo blocca. Poi s’abbracciano. Alla fine pare che lei abbia il sopravvento su quel ragazzo smarrito che riprenderà, forse, gli studi, avendo lei un momento di relax per darsi una passata di rossetto sulle labbra, mentre echeggiano nell’aria le note della canzone Il cielo in una stanza di Gino Paoli. 

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Federica Roselini in Ivan e i cani

Ho conosciuto durante un trasferimento in macchina da Castrovillari alla stazione ferroviaria  di Paola, l’inglese Hattie Naylor, autrice del testo Ivan e i cani, messo in scena al Teatro Vittoria da Federica Rosellini (con una “s”) in shorts jeans, capelli bianco/biondi cortissimi, seduta al centro della scena attorniata da strumentazioni elettroniche, alle prese con bacchette e vari oggetti musicali, tali da esaltare una storia vera, pubblicata in Italia nella collana I Gabbiani- Edizioni Primavera,  incentrata su un bambino di 4 anni di nome Ivan e i suoi cinque cani, Belka, Vano, Strelka, Ruslan e Kugya, in una Russia molto povera degli anni ’90 dello scorso secolo. La Roselini con voce tremula, a volte commossa, ci fa rivivere la vita di questo esserino da quando capisce che in casa la fame si taglia col coltello e il padre imbottito di vodka non solo picchia la madre, ma gli fa capire che deve andarsene da casa, non potendogli più offrire una vita serena e gioiosa. A farne le spese a quel tempo, oltre ai tanti bambini nelle stesse condizioni, sono pure i cani ad essere abbandonati. E così il girovagare di Ivan per le strade di Mosca diventa una vera Odissea, dove la cosa più importante diventa come attutire i morsi della fame. Ivan conosce gli ambienti più infimi, pure quei coetanei che fanno uso di colla e altri solventi, i cui vapori sono dei veri e propri stupefacenti minori e a basso costo. Il bambino nonostante i disagi e un mondo avverso, riesce a sopravvivere, anche perché i suoi cani diventano i suoi amici, la sua famiglia, in grado di nutrirsi e nutrire il loro compagno col cibo avanzato nei cassonetti dell’immondizia. Un monologo che, nonostante alcuni momenti ripetitivi, si vivacizza grazie alla verve della Rosellini, in grado di arricchire la sua performance con suoni, rumori, grida, versi e sussurri, in grado di esaltare questa “fiaba nera - come ci suggerisce la traduttrice Monica Capuani - che s’inserisce nella tradizione del grande romanzo d’infanzia”.   

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La Verma scritto e diretto da Rino Marino

Come fa il femminile di Il Verme? Ma La Verma naturalmente. Ed è questo il titolo dello spettacolo scritto e diretto da Rino Marino al Teatro Sybaris, ambientato in una sorta di lurido antro o di cantinato se si vuol essere generosi, corredato da una scala in legno che conduce metaforicamente all’esterno attraverso una botola, pure essa in legno. In un lato della scena c’è una vecchia in gramaglie con fazzoletto nero intorno al viso (Miriam Palma sembra un’immagine antica di quelle donne siciliane in via d’estinzione) che ‘nnaculìa (dondola) una decrepita carrozzella con un bimbo dentro che non si vede, mentre il centro è occupato da una grande cassapanca, da cui in alcuni momenti pare ci sia dentro qualcuno che batte dei colpi e s’avverte la presenza del figlio della donna (Fabio Lo Meo nel ruolo del Duedicoppe) che le chiede di farle l’orazione per i vermi, considerato che è pure fattucchiera. I due personaggi si esprimono in un dialetto ancora in auge nelle zone tra Palermo e Trapani, a volte incomprensibile pure a chi scrive e si ha l’impressione d’avere davanti alcuni parenti di quel film di Ettore Scola del 1976, Brutti, sporchi e cattivi, con Nino Manfredi e Maria Luisa Santella protagonisti. I dialoghi sono grotteschi, surreali, ricordano quelli di Scaldati e si respirano aure di Ciprì e Maresco, ruotanti qui, per esempio, attorno al numero dei denti rimasti nelle loro bocche, certamente più deboli di quelli del defunto capo famiglia. Visto poi che il Duedicoppe si gratta di continuo la testa, pare legittimo chiedere alla madre che gli schiacci dalla folta capigliatura quei quattro pidocchi prima che il quinto scappi via, giacendo sul suo grembo a faccia in su, formando quasi l’immagine scultorea de La Pietà di Michelangelo. Intanto l’uomo della cassa, fratello del Duedicoppe  (un silente Liborio Maggio dalle membra scheletrite) dopo alcuni colpi emerge da quella postazione e madre e figlio gli sostituiscono il lenzuolo sporco con uno nuovo, chiudendo poi il coperchio sopra la sua testa. Il Duedicoppe vorrebbe evadere da quella fogna, godere del mondo, ma non ci riesce, sputa e trattiene le bestemmie, mentre La Verma canticchia una novena col rosario in mano, in accordo con quelle musiche da Requiem suonate dalle bande musicali nel Venerdì Santo trapanese. Poi sempre La Verma con un bastone in mano batte dei colpi sul palco, ma dalla cassapanca non c’è alcuna risposta. Madre e figlio la aprono e tirano fuori l’uomo morto con le membra avvolte da un lenzuolo bianco, formando l’insieme quasi l’immagine pittorica della Deposizione di Caravaggio. Lo spettacolo si chiude con la donna che scappa via col pargoletto (finto) in braccio e col Duedicoppe che svuota le sue tasche spargendo in alto pugni di farina bianca. Certamente uno spettacolo espressionista, una regia che lascia il segno quella di Rino Marino, talmente reale da sembrare iperrealista e dunque falsa, come quell’opera di Magritte Cecì ne pas une pipe, siglata da un trio d’attori davvero bravi.

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Cecilia Foti, Domineddio di Saverio La Ruina. Foto Angelo Maggio

A volte certi spettacoli nascono per caso. Conosci qualcuno, magari una coppia di poliziotti, ne diventi loro amico e poi scopri l’orrore delle loro vite e vuoi trasmetterlo ad una platea di spettatori. Questo hanno fatto Saverio La Ruina, autore del testo Domineddio, e Cecilia Foti solipsistica e fantastica interprete nella Sala Varcasia, nei panni d’una poliziotta, riconoscibile dai pantaloni con righina rossa laterale e magliettina blu, che ha subito violenza dal suo uomo per sei lunghi anni. Eccola adesso mettere insieme i cocci d’una vita, per la quale era colpa sua se qualcuno la guardava, da sentirsi ancora più in colpa se qualche altro le rivolgeva la parola. Una vita d’inferno già al tempo del fidanzamento, ancora più infernale dopo il matrimonio, scandito da una gelosia patologica, il cui possesso era sottolineato da frasi del tipo “tu appartieni a me, oppure, tu sei una cosa mia”. Cecilia Foti, come si sa, è pure una fine cantante e per alleggerire il racconto, ha cantato un paio di canzoni come Sei bellissima e qualche altra. Gli episodi col tempo diventavano sempre più incalzanti e agli epiteti volgari si aggiungevano pure botte e lividi in varie parti del corpo, con risentimenti al timpano e alla retina.  La donna si sentiva svuotata, dimezzata, annullata in tutto quello che faceva, compresi quei corsi di biologia visti dall’uomo come momenti per stare lontano da lui, magari ipotizzando presenze di sesso maschile che potevano coinvolgerla. Era diventato pazzo. Lei ormai viveva in una gabbia, si sentiva in trappola, braccata, colpevolizzata nei suoi movimenti, anche quando nato un figlio, invece di avvicinarli li allontanava, creandosi nuove barricate, pensando seriamente lei a non volere stare più con questa specie di uomo che diceva d’amarla e che fortunatamente non ha utilizzato la pistola d’ordinanza per spararle dei colpi e farla finita. Adesso la donna è separata e si spera che in quell’uomo non si svegli l’animale che cova nelle sue meningi malate. Occorre dire ancora che La Ruina aveva già affrontato con Dissonata e La Borto e poi Polvere assieme alla Foti, il tema delle donne vittime di violenza e adesso con questo Domineddio, molto applaudito dal pubblico, va ad infoltire una drammaturgia molto apprezzata dalla società civile.

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Cubo Teatro, Molly. Foto Angelo Maggio

Sembra che il collettivo torinese di Cubo Teatro, che ha messo in scena Molly al Teatro San Girolamo, voglia dare degli avvertimenti alle giovani generazioni. Come dire: «State attenti ragazzi ad usare le nuove tecnologie, perché fruire di Instagram, Tik Tok, Intelligenza Artificiale e altro, possono portare alla morte». Un po’ quello che è successo nel 2017 alla quattordicenne inglese Molly Russel trovata senza vita nella sua cameretta; stabilendo una perizia medica legale, cinque anni dopo, che la responsabilità del suicidio dell’adolescente era da attribuirsi ai social network e ai loro algoritmi. Sulla scena c’è solo uno schermo e un tavolinetto dietro il quale è seduta Letizia Russo nel ruolo di Molly che quasi per tutti i 60 minuti dello spettacolo, utilizza un PC e s’imbelletta rimirandosi ad uno specchio tondo, certamente per apparire bella nei confronti di un’altra ragazza, identica a lei, di cui è innamorata. Molly, che non è mai uscita dalla sua stanza, negli ultimi sei mesi ha visto una cosa come più di duemila contenuti riguardanti depressione, suicidio, autolesionismo e una miriade di consigli digitali. Molti dei quali venivano proiettati su quello schermo, unitamente a tantissime immagini che apparivano moltiplicate e di varie dimensioni. Un giorno succede che una delle due ragazze è assente dagli schermi e Molly decide di andarla a cercare, scoprendo che il suo avatar è deceduto. Lo spettacolo così sembra un oggetto di video/art, un film costruito sul momento, qualcosa invero che non ci coinvolge e ci lascia freddi sulla nostra sedia. 

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Cari spettatori di Danio Manfredini. Foto Angelo Maggio

Cari spettatori è una sorta di creatura di Danio Manfredini perché nasce da una serie di suoi appunti annotati negli anni, dopo aver conosciuto in varie comunità psichiatriche alcuni personaggi singolari degni di ben figurare sulla scena. Lo spettacolo per il quale ha firmato regia, scene e costumi è stato proposto al Teatro Vittoria con due ottimi e affiatati attori, rispettivamente Vincenzo Del Prete nel ruolo di Arturo e Giuseppe Semeraro in quello di Gino. Adesso i due protagonisti, dopo essere usciti dai luoghi di cura, si trovano a vivere nella stessa camera d’un appartamento della Caritas, i cui operatori all’interno (che non si vedono mai) cercano di ascoltare i loro disagi e orientare le loro richieste verso alcuni servizi nel territorio. Oltre ai due lettini, qualche sedia e un televisore sempre acceso posto di lato a terra, l’unico rapporto con l’esterno è un telefono grigio, utilizzato più da Arturo che da Gino, quest’ultimo più strano dell’altro, per indossare quasi sempre un impermeabile e un cappuccio di lana e per la sua postura simile ad un palo storto di luce. I due assumono ancora psicofarmaci, si lamentano della loro condizione esistenziale, per la bassa pensione d’invalidità e trascorrono il tempo annoiandosi e trovando momenti distraenti quando escono fuori per comprarsi da magiare e le sigarette. Ad un tratto a Gino gli viene l’idea di scrivere un testo teatrale, che affronti i grandi temi universali rimasti ancora irrisolti, come la minaccia atomica, la fede, le nuove tecnologie che avanzano velocemente mettendo da parte il lavoro dell’uomo, insomma creare attraverso il Teatro un modo per alleviare le sue sofferenze e diventare ricco e famoso. Arturo invece sembra più concreto, vuole andare via da quel posto, vivere una vita normale con un lavoro decoroso, riuscire a comprare una casa e stare accanto alla sua donna. Ci sono momenti d’ilarità quando dopo una doccia, appare sulla scena Gino agghindato con un accappatoio bianco e un asciugamano rosso in testa, aggiungere nuove visioni strabilianti al suo copione teatrale, snobbate o ridimenzionate da Arturo, molto più pratico e disincantato del suo compagno di stanza, somigliando i duetti a quelli impersonati da Franz e Ale senza giornale in mano. I giorni passano, così pure i mesi e gli anni e la vita dei due protagonisti rimane immutata, stagnante come l’acqua d’una laguna, aspettando un cambiamento che non arriva o forse non vogliono neppure che arrivi, lamentandosi come tutti al mondo, sognando chissà quale rivoluzione che rimane soltanto un desiderio.   

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Tiger dad (Padre Tigre) di Rosario Palazzolo. Foto Angelo Maggio

Forse a causa di quella musichetta orecchiabile, quasi da circo equestre, sembra uno spettacolo per bambini questo Tiger dad (Padre Tigre) di Rosario Palazzolo, andato in scena al Teatro Sybaris e interpretato tutto da solo da un barbuto e capelluto Salvatore Nocera che, complici i costumi di Mela Dell’Erba, veste per tutto il tempo una perfetta maschera di tigre, sopra un kimono color marrone che può sembrare un saio monacale. Si esprime in un dialetto siciliano non sempre comprensibile, Nocera, avendo all’inizio piedi e mani legate, da cui dopo un po’ riesce a liberarsi. Padre Tigre sostiene che è da un anno che non si toglie dalla testa quella felina maschera, affermando con vigore, dopo averla tolta, che la sua battaglia è rivolta al qualunquismo dei social e all’idiozia dell’Intelligenza Artificiale. Sono in tanti dirgli che è lievemente scemo o tonto e che la sua è una battaglia persa all’inizio. Ma lui non se ne cura, va avanti sino all’ultimo giorno di vita, condannato a morte non tanto per un omicidio che ha commesso, quanto per la sua doppia personalità, oscillante tra il cartone animato dell’Uomo Tigre e il santo Padre Pio di Montalcino. In chiusura, in un angolo della scena, Nocera afferrerà il microfono e stoicamente in punto di morte canterà la canzoncina dell’inizio. 

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Francesca Astrei, Io sono verticale. Foto Angelo Maggio

Francesca Astrei è l’attrice che più mi è piaciuta fra quelle viste negli spettacoli di Castrovillari. È tosta, brava e in grado di regalare al pubblico forti emozioni. Come avvenuto in questo suo spettacolo, Io sono verticale, titolo tratto da un verso d’una poesia della poetessa statunitense Sylvia Plath, interpretato e messo in scena da lei stessa al Teatro San Girolamo, con caldi applausi finali, quasi da stadio. L’argomento è la depressione, malattia ormai sempre più frequente che colpisce qualunque genere e specie umana. All’inizio è seduta su una sedia al centro della nuda scena, avvicinandosi poi ad un microfono che s’abbassa sempre di più, sino a quando le arriverà addosso con lei ormai completamente distesa sul parterre. Poi ritornando sulla postazione di prima comincia a parlare ripetendo le parole di Gesù: «Lazzaro, alzati e cammina». Un tormentone che lei ripeterà più volte, vestendo dialetticamente il ruolo di Maria Maddalena, che invita tutti i presenti del miracolo ad avvicinarsi ad una tavola imbandita e partecipare ad una festa che sta per cominciare. Cosa c’è di più doloroso della morte? E cos’è la depressione se non una morte restando vivi? Ecco dunque come quelle parole di Gesù diventano un miracolo, un viatico, una medicina di sole parole, in grado di riportare in vita colui che era un fedelissimo suo seguace, fratello pure di Maria Maddalena e secondo alcuni vangeli apocrifi pure sposa di Gesù. La festa e il miracolo tengono lontana la depressione, la morte, la tristezza profonda e la scarsa o nessuna fiducia nel futuro esaltano la malattia depressiva, al punto da fare sentire come morti chi ne viene colpito. Il miracolo è un regalo speciale che le persone depresse sperano di ottenere. In chiusura la Astrei ritorna a quel microfono, ma stavolta andrà verso l’alto fino a scomparire, desiderando lei, forse, di vedersi in orizzontale invece che in verticale. Il pessimismo della Plath si manifesta attraverso il bisogno di sentirsi in contatto con la natura. Un contatto che diventa unione, fusione, anche attraverso la morte, che la poetessa ha accolto attraverso il gas.

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Marco Sgrosso, Emma B. Vedova Giocasta

Più che di Savinio sembra un monologo di D’Annunzio questo Emma B. Vedova Giocasta. Non solo per la libido che evapora al suo interno quando il personaggio en-travesti di Marco Sgrosso, (regista, interprete, elaboratore del testo, sue pure scene e costumi in scena al Teatro Vittoria) ripete più d’una volta che lei se ne stava seduta sulla tazza del cesso a gambe aperte con le cosce in evidenza per attrare colui che l’aveva presa tante volte. Restituendoci Sgrosso, con quella larga gonna di color viola su una blusa nera e turbante bordeaux, ampie aure incestuose di sesso e peccato di cui si nutre quest’opera del 1949. É molto a suo agio Sgrosso in questo ruolo al femminile, amato dalla Borboni dalla Moriconi e da tante altre star del Teatro italiano. Emma B. come si sa, è in attesa che torni a casa suo figlio dopo un'assenza di quindici anni. Adesso è lì nel suo salotto liberty, ansante e su di giri e ripercorre sul filo della memoria il tempo in cui da bambino gli aveva salvato la vita durante un’irruzione in casa della polizia. Sgrosso è in gamba a roteare le parole, farle giungere chiare e tonde agli spettatori, trasmettere quell’insano e morboso attaccamento verso colui che aveva voluto interrompere un legame che la donna pensa ancora di rinnovare, convinta (beata lei!) che tutte le donne amate dal figlio erano delle copie di sé stessa. Ad un tratto Emma B. si toglie il turbante, s’imbelletta davanti ad un grazioso specchio ovale, apre una vecchia valigia ed esce fuori alcuni pagliaccetti del figlio bambino, accarezzandoli voluttuosamente come se da un momento all’altro dovesse spuntare il suo amante. Intanto echeggia La mia solitudine cantata da Ivana Zanicchi, il mito fa una piroetta ed Emma B. diventa la Vedova Giocasta pronta a trionfare sul suo Edipo che non riesce ad afferrare. Nel finale Emma B. andrà dietro un paravento a fiori e da un manichino accanto prenderà un lungo abito nero che indosserà, unitamente ad un velo, anch’esso nero e una maschera in viso davvero brutta. 

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Compagnia Ragli, Goodbye Horses. Foto Angelo Maggio

S’intitola Goodbye Horses il testo scritto e interpretato da Dalila Cozzolino al Teatro Sybaris pure regista assieme a Lorenzo Guerrieri, anche lui in scena con Gianfranco De Franco e Mario Russo, per conto della storica Compagnia Ragli. Uno spettacolo per il quale occorre fare un salto all’indietro di ben 25 secoli, al tempo in cui nel 510 a.C. le due città di Sibari e Crotone si odiavano ferocemente (un po’ quello che succedeva in Sicilia con Segesta in alto e Selinunte in basso) e si scontrarono nella battaglia di Nika, con i Crotoniati, guidati dal campione olimpico Milone, che sconfissero sonoramente i Sibariti. La Cozzolino argomenta che la causa della sconfitta di Sibari contro Crotone è stata la stravaganza dei Sibariti, gaudenti, amanti del bello, pure smoderati nei costumi, a differenza dei Crotoniati rigorosi, testoni, forse perché influenzati dalla scuola del filosofo e matematico Pitagora. Ed qui che entra nel vivo lo spettacolo, incentrato sul fatto che i Sibariti avevano insegnato ai cavalli di danzare al suono dei flauti in battaglia, ma i Crotoniati, capendo la loro tattica, replicarono lo stesso suono, disorientando e disarcionando i cavalli, causando la sconfitta dei Sibariti. Lo spettacolo ambientato in una sorta di mattatoio con una ventina di grosse catene che pendono giù dalla graticcia (la sena è di Ilaria Nomato) vede all’inizio Guerrieri agghindato con impermeabile, corazza sotto ed elmo in testa, mandare improperi a Crotone, mente di lato c’è Russo con maschera di asino alle prese con dei sax. Ma la scena forte è quella tra De Franco nei panni bianchi di domatore che cerca di addestrare e ammansire una cavalla, quella che la Sibarita Cozzolino, con capelli a maschietto e coda bianca, veste con un costume antracite aderente, simile a quello utilizzato dagli schermitori. Danzano cavalla e domatore, cercando quest’ultimo di ammansirla con la frusta, saltandole addosso più volte, facendole pure male, al punto da sfiancarla e appesantirla, da non poter partecipare allo scontro delle due fazioni avverse al suono dei flauti. Ma la Cozzolino in chiusura di spettacolo si riprenderà la rivincita inneggiando all’edonismo e alla cultura di Sibari nei confronti di Crotone.   

Saverio La Ruina
Saverio La Ruina

Di rilievo il docu-film, Italianesi, di Saverio La Ruina al Cinema Ciminelli, già spettacolo teatrale nel 2012, ruotante attorno a quei 400 cittadini italiani, rimpatriati nel 1991 dal Governo Italiano, convinti di essere accolti come eroi, ma assurdamente condannati a essere italiani in Albania e albanesi in Italia: appunto Italianesi

Ultima modifica il Giovedì, 05 Giugno 2025 19:36

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