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Ubu Roi, panda in estinzione e il teatro della restaurazione.-di Nicola Arrigoni

"Lehman trilogy", regia Luca Ronconi "Lehman trilogy", regia Luca Ronconi

Riflessioni in margine ai Premi Ubu 2015 - Che lo si voglia o meno i Premi Ubu – inventati da Franco Quadri trentotto anni fa – sono l'Oscar del teatro, il premio per eccellenza, il termometro della scena italiana con i suoi promossi e bocciati. Ottenere l'Ubu – pur nell'ambito della ristretta e un po' autoreferenziale cerchia del teatro – ha un suo valore e peso specifico, rappresenta un riconoscimento dato non solo da nutrito gruppo di critici votanti, ma condiviso dalla comunità teatrale, con più o meno celato entusiasmo. In questa sede – all'indomani dell'emozione della consegna sotto la regia di Federica Fracassi e di Roberto Dell'Era, autore e bassista degli Afterhours al Piccolo Teatro Grassi di Milano– si vuole tentare qualche riflessione sull'esito delle votazioni, e sullo scenario che racconta e documenta l'edizione 2015 dei premi.
Ronconi, il convitato di pietra - E' inevitabile partire dall'omaggio alla memoria di Luca Ronconi con la premiazione massiccia di Lehman Trilogy di Stefano Massini che si è portato via il premio come miglior novità drammaturgica italiana, il premio al giovane attore emergente, Fabrizio Falco, quello per le scenografie, firmate da Marco Rossi e infine – si fa per dire – l'Ubu per il miglior attore, Massimo Popolizio. Luca Ronconi è stato – come era ampiamente prevedibile – il convitato di pietra dell'edizione 2015, a tal punto che si è posto anche il problema a chi far ritirare i premi, soprattutto quello al miglior spettacolo dell'anno, visto che sembrava poco elegante che Massini facesse la spola fra palco e platea a far incetta degli Ubu Roi sfogliabili, concepiti da Margherita Palli e realizzati da Alice De Bortoli. Così si è scelto di fare ritirare l'Ubu a Lehman Trilogy quale miglior spettacolo della stagione al più giovane allievo della scuola di teatro intitolata a Luca Ronconi. Così si è chiuso il cerchio.
Il teatro della restaurazione - Queste riflessioni partono dalla battuta di Massimo Popolizio che nel ricevere l'Ubu ha detto di «sentirsi un Panda in via d'estinzione davanti a tanta diversità premiata». E il riferimento andava ai riconoscimenti a quel teatro della diversità premiato attraverso l'azione dell'associazione Olinda o al progetto Case Matte di Teatro periferico e perché no al teatro della festa sotto il segno di Ligabue di Mario Perrotta che si è visto contendere con se stesso il riconoscimento nella sezione progetti; anche questo un caso del tutto curioso. Detto questo, si crede che al di là della necessità di riconoscere azioni teatrali performative legate al sociale e all'esigenza di comunità, mai come quest'anno i Premi Ubu abbiano significato una sorta di chiamata all'ordine, o meglio una sorta di invito a riconsiderare la semantica del teatro: parola, attore, pubblico. E se infatti lo stesso pluripremiato Lehman Trilogy si pone nel contesto del rispetto della grammatica teatrale: con un testo da mettere in scena, attori che cercano una loro interpretazione, un regista che fornisce le indicazioni di un'idea di messinscena, non lo sono da meno gli altri premi. Massimiliano Civica – Premio Ubu per la miglior regia - è regista che ha fatto della riflessione sul teatro e sul linguaggio performativo la sua cifra estetica. Civica va in cerca dell'assolutezza del testo affidato all'attore, lo fa cercando quello che lui chiama 'il grado zero del teatro', lo fa interrogando la drammaturgia, lo fa affidandosi agli attori e affidando ai suoi attori la parola poetica e la sua poetica di regista. E dopotutto è lo stesso Civica che nel ritirare il premio ha sottolineato come il suo teatro sia degli attori e della capacità di questi di trasformare in azione ed emozioni le sue 'ideuzze di regista'. E se l'Alcesti di Civica ha proposto la messa in scena rituale di un testo tragico che dal rito arriva, anche il premio alla miglior interprete: Monica Piseddu per i ruoli in Alcesti di Civica, Natale in casa Cupiello e Ti regalo la mia morte, Veronika, entrambi di Antonio Latella, dice di un teatro di interpretazione, al di là dei panda in estinzione di Popolizio. Monica Piseddu ha parlato di ruoli assunti con pregnanza di vita. L'attrice ha voluto sottolineare come il suo stare in scena viva non solo del ruolo che di volta in volta interpreta, ma degli incontri, delle persone, della vita che quotidianamente incontra. E questa permeabilità all'essere in vita fa di Monica Piseddu una delle attrici più importanti del nostro panorama scenico, un'attrice che sa essere, che sa offrire se stessa ai suoi personaggi non per mero vezzo o anelito d'immedesimazione, ma perché la parte e il ruolo si costruisce nel mettere a frutto non solo il sapere portato dal testo, ma anche l'esperienza e il sapere la vita che un vero attore porta sempre con sé.
Ed anche nell'individuare Il vizio dell'arte (The Habit of Art) di Alan Bennett, messo in scena da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, quale migliore novità straniera della stagione, c'è una conferma dell'attenzione alla prassi di un teatro che affida al testo e alla sua messa in scena secondo i canoni che ha caratterizzato l'edizione 2015 degli Ubu. Insomma si ha l'impressione che ci sia la voglia di considerare o ri-considerare il teatro nei suoi canoni: parola, testo, pubblico, dopo tante overdose di studi, lavori performativi, installazioni e via dicendo che chiedono di accontentarsi spesso di boccini estetici e sottraggono allo spettatore il piacere di un pasto completo. In tutto questo si avverte l'assenza di realtà teatrali come Teatro Sotterraneo o Babilonia Teatri, Gli Artefatti di Fabrizio Arcuri, Fanny & Alexander che raccontano di un teatro della contemporaneità in cui la drammaturgia agisce come pensiero, costruzione di ardite architetture semantiche, spiazzamenti del quotidiano... Ma anche in queste assenze si avverte un radicamento semantico al teatro che ha nel binomio parola/attore il suo imprescindibile contesto drammatico da condividere col pubblico, un pubblico che si interroga e che non vuole essere solo comunità teatrale. Ma è il premio a Das Weisse vom Ei/Une île flottante regia di Christoph Marthaler a indicare la via, a mostrare cosa può essere il teatro, come l'agire all'interno di un contesto semantico dato e acquisito non voglia dire limitare le proprie potenzialità espressive, ma si offra come spazio che com-prende tutte le possibilità infinite della semantica delle arti performative con assoluta dedizione, con una voglia di cercare la verità, la credibilità che in teatro può ed è data dalla scoperta e dichiarata finzione.
L'esigenza di essere comunità- L'altro lato degli Ubu 2015 è quello legato al senso di comunità, all'esperire il teatro quale mezzo di trasformazione della realtà. Mezzo maieutico in cui la follia e la diversità vengono fatti normati, perché parti integranti della vita e non elementi da marginalizzare. In questo senso vanno letti il premio speciale a Giuliano Scabia «per la ricerca, che dura da più di cinquant'anni, sulla drammaturgia e sull'essenza del teatro, un percorso nel fantastico e nel teatro popolare d'arte che individua nella scrittura una via di conoscenza, facendo incontrare poeti e presenze naturali», a Carla Pollastrelli «per la fondamentale opera di diffusione del pensiero di Jerzy Grotowski attraverso la traduzione e la pubblicazione integrale dei suoi scritti per i tipi di Casa Usher» e all'associazione Olinda «per la creazione, nel bosco e nei padiglioni dell'ex manicomio Paolo Pini di Milano, di un vivo festival di teatro che confonde le distanze e indaga le differenze a partire dalla consapevolezza che Da vicino nessuno è normale». A questi premi vale la pena accostare quello conferito a Mario Perrotta per il Progetto Ligabue che per quanto azione teatrale concepita nei canoni dell'estetica scenica rappresenta un esempio di animazione culturale di un territorio attraverso i suoi miti e le sue favole antropologiche che ha coinvolto centinaia di artisti, regalando l'impressione che il teatro possa essere un sostituto di realtà, o meglio uno spazio e luogo festivo in cui ritrovare noi stessi, le nostre radici, i nostri archetipi culturali e sociali. Un' esigenza questa ben rappresentata da Heiner Goebbels, «autore di un linguaggio artistico e curatoriale attraversato da forte tensione politica. (...) Nel riconoscimento del rigore di una vita spesa per l'avanzamento del teatro sul piano della ricerca pratica e teorica, il Premio Franco Quadri ha voluto sottolineare la forza esemplificativa di una figura che ha contribuito a cambiare il modo di concepire il rapporto tra teatro e musica nella nostra epoca, estendendo la conoscenza dell'arte alla vita pubblica». Soprattutto nei premi speciali si è avvertita l'esigenza di declinare il teatro come strumento di coesione sociale, di rigenerazione comunitaria, come elemento che accomuna e che chiede la presenza attiva non solo di chi lo fa ma anche di chi decide, sera dopo sera, di stare al gioco e parteciparvi...
In tutto questo i Premi Ubu – volenti o nolenti – rimangono imprescindibili termometri di tendenze, esteiche, desideri, utopie teatrali... secondo l'idea del loro inventore Franco Quadri.

Ultima modifica il Sabato, 05 Dicembre 2015 13:04

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