LA NEVE DEL PERDONO
di Vittorio Russo
Le otto in punto e in giro non c’era quasi più nessuno. La neve, come non se ne vedeva da anni, aveva svuotato la città e ne stava lentamente sfumando i contorni. E aveva attutito anche il rumore della metro, la cui ultima corsa si era conclusa prima del previsto quella sera. Una sera senza data di un inverno qualunque.
Gli ultimi passeggeri attraversarono il piazzale della stazione e gli camminarono accanto, ognuno ignorandone la presenza. Come fosse un fantasma, o un insignificante elemento dell’architettura urbana. Ardo era lì, raccolto in un plaid ormai logoro e seduto ai bordi del marciapiede, da un po’ di mesi sua residenza, sua poltrona e suo letto. Come era solito fare, stava osservando le scarpe dei passanti. Le guardava tutte e se c’era un paio che lo colpiva, ecco che iniziava a fantasticarci su, chiedendosi quanta strada quelle suole avessero percorso, quali posti avessero visitato e che tipo di persona fosse colui o colei che le indossava. Un gioco insegnatogli dal padre e ora utile a riempire i vuoti di una vita da clochard, trascorsa poco più in là di una vecchia libreria e sempre con la sensazione che il tempo scorresse a rilento e, certe volte, anche che si fermasse del tutto. Dal canto suo, Ardo provava in ogni modo a tenersi impegnato: dai cruciverba alla lettura, da lunghe passeggiate a sieste interminabili. E quella sera, con la neve che copriva di bianco la città e poche, pochissime scarpe da scrutare, dormire era la sola cosa che potesse fare. Spinse al muro il bagaglio fatto di poche cose, vi posò all’interno il cartone con scritto “Venti cent per voi non sono nulla, per me sono la vita”, con il quale tentava di racimolare qualche spicciolo, e si stese sul marciapiede. Si guardò intorno per un po’, poi chiuse gli occhi e disse: «Chiunque tu sia, Signore, donami un sogno stanotte. Concedimi un’immagine, una qualunque, purché sappia di felicità».
«Smettila di leggere e abbracciami» gli disse Sandro.
Ardo non esitò: si voltò e lo strinse a sé. «Allora, di cosa parla questo libro?»
«È una raccolta di poesie d’amore. C’è Byron, Emily Dickinson, Keats, Neruda e anche Auden».
«La più bella finora?» domandò Sandro. «Forse, proprio una di Auden, s’intitola Blues in memoria». «Leggimela!»
Ardo rimase di stucco, poi prese libro: «[..] Era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est e l’Ovest, la mia settimana feriale e il mio riposo domenicale, il mio mezzodì, la mezzanotte, il mio discorso, il canto; Pensavo ch’amore fosse eterno […]». Sandro lo interruppe: «Tre mesi insieme e non ricordo più come fosse la mia vita prima d’incontrarti». Sospirò, «Ti amo, Bernardo» e abbassò lo sguardo. «Ti amo anch’io», ribatté lui con un filo di voce.
Quella notte, sullo scomodo marciapiede, Ardo sognò il primo “Ti Amo” di Sandro, l’uomo che gli aveva insegnato l’amore e che, per vanità, aveva poi tradito. Aveva rinunciato a tutto pur di stare con lui, alla sua città, al lavoro e alla famiglia, refrattaria all’idea di un figlio omosessuale. «O lui, o noi» gli avevano detto i genitori. E così, perso Sandro, ad Ardo non rimase che qualche euro e…la strada. Gli amici? Era troppo orgoglioso per tornare da loro, da sempre contrari alla sua scelta di mollare tutto per un uomo.
Le luci dei lampioni erano ancora accese quando Ardo si svegliò. Si alzò e si scoprì più sereno dei giorni precedenti. Pensò fosse merito del sogno, o della neve che aveva messo a tacere tutto, anche la sua tristezza. Si incamminò, allora, verso i bagni pubblici e solo in quel momento si accorse di un uomo che guardava nella sua direzione. Ardo si pietrificò, «È solo una suggestione» disse tra sé e continuò a non muoversi. Fu l’uomo ad andargli incontro e, a due passi l’uno dall’altro, asserì: «Ti ho trovato, finalmente».
Era Sandro.
«Ti ho perdonato» disse ad Ardo e gli consegnò il suo libro di poesie. «Torna a casa con me».
Si guardarono a lungo, senza dirsi nulla. Poi, s’incamminarono insieme.
Mano nella mano.