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Festival Natura Dèi Teatri 2017 XXII edizione: "MU - metafisica urbana", di Leonardo Delogu e Valerio Sirna, "Purgatorio", regia Maria Federica Maestri. - a cura di Franco Acquaviva

"Purgatorio", regia Maria Federica Maestri "Purgatorio", regia Maria Federica Maestri

MU - metafisica urbana
a cura di DOM
speculazione filosofica in movimento intorno al concetto di scia
di Leonardo Delogu e Valerio Sirna

con la partecipazione di Hélène Gautier

Purgatorio
Creazione site-specific
Produzione Lenz Fondazione
Drammaturgia e imagoturgia: Francesco Pititto
Installazione site-specific, elementi plastici, costumi, regia: Maria Federica Maestri
Musica, installazione sonora: Andrea Azzali
Performer: Valentina Barbarini, Fabrizio Croci, Paolo Maccini, Franck Berzieri, Delfina Rivieri,
Attori delle Compagnie dialettali di Parma: Roberto Beretta, Sonia Iemmi, Ylenia Pessina, Mirella Pongolini, Giacomo Rastelli, Cesare Quintavalla, Silvia Reverberi, Valeria Spocci.

Festival Natura Dèi Teatri 2017
XXII edizione
Materia del tempo <<< Scia
dal 20 giugno al 1 luglio
Parma, vari luoghi

Visti a Parma il 1° luglio 2017

Gilles Clement con la sua nozione di "Terzo paesaggio" impone la sua presenza nel cammino che la compagnia DOM ha appena cominciato a guidare per un drappello di spettatori-camminanti. Siamo a Parma, è l'ultimo giorno del festival "Natura Dèi Teatri" organizzato da Lenz Fondazione. Il percorso di MU, questo il titolo dell'azione, nata in residenza proprio qui al festival, comincia nella sala Majakovskij della funzionale e bella sede di Lenz, un'ex fabbrica trasformata in spazio scenico: sobrietà di spazi, presenza imperante del bianco, essenzialità degli arredi. Leonardo Delogu e Valerio Sirna, cui più tardi si aggiungerà Helene Gautier, ci accolgono nella sala, e nel buio e nel silenzio che improvvisamente si producono per l'interruzione della musica e il black out delle luci, presentano l'esperimento cui stiamo per partecipare. Saranno 11 chilomeri dentro la città, a partire dalla sede del teatro. La porta in fondo alla sala si apre lentamente e una lama di luce ci ricorda il giorno e sembra invitare: è l'unico "effetto teatrale" in cui ci imbatteremo nelle prossime quattro ore.

Di camminate, nella storia della ricerca teatrale, se ne sono viste tante, e non pochi sono gli artisti che vi si sono dedicati, anche se alcuni hanno scelto posizioni spesso un po' defilate rispetto alle prime file della scena italiana: si pensi all'esperienza neo-mitologica di O'Thiasos TeatroNatura di Sista Bramini, nata tra le colline di Amelia, alla Casa Laboratorio di Cenci di Franco Lorenzoni alla metà degli anni '90, a sua volta generatasi sulla scorta del denso lavoro sul parateatro condotto da alcuni ex collaboratori di Grotowski; si pensi alle interrogazioni itineranti del fiume e del suo paesaggio di Piccolo Parallelo, con Enzo Cecchi e Marco Zappalaglio impegnati a seguire mistericamente le peripezie dell'Oglio; o al lavoro di Lorenza Zambon, attrice giardiniera che dalla metà circa degli anni 2000 aveva già scoperto e assimilato nel suo lavoro il concetto di "Terzo paesaggio", il "guerrilla garden", l'idea del giardino come laboratorio di poesia vegetal-esistenziale mutuato da Pia Pera; e si pensi ancora a quel camminare inteso come atto politico primario, fortemente simbolico, di presa di possesso dal basso di una serie di luoghi disposti lungo l'asse di un attraversamento, pensato su scala interregionale o addirittura a cavallo di più territori nazionali, messo in atto dallo scrittore Antonio Moresco e dal gruppo che orbita attorno alla rivista "Il primo amore". E, infine, a Giuliano Scabia, dagli anni '80 vero precursore di camminate o trekking o traversamenti anche notturni di una porzione di territorio trascelta per una sua pregnanza simbolica preesistente, oppure generata dallo stesso atto di selezione e di nominazione, già di per sé creatore di testo, da cui far emergere con l'esperienza del camminare in collettivo una fisica della poesia, per così dire; poesia che si fa evento naturale, organico al paesaggio e al dire del poeta, teatro di un ascolto in movimento.

Così l'ambito entro cui ci muoviamo con DOM è gonfio di riferimenti storici che ne contestualizzano l'atto, mettendolo al centro di una rete di rimandi obbligati.
E mentre per quasi tutte le esperienze cui s'è accennato il patto iniziale con i partecipanti prevedeva sempre una serie di regole elementari, per esempio la prescrizione di non parlare, qui si preferisce lasciare una certa libertà; se là il silenzio poteva diventare parte essenziale del lavoro, assumendo come la funzione di specchio di ciò che in realtà accade allo spettatore nel momento in cui è messo in certe condizioni esperienziali, qui esso perde immediatamente consistenza e si tramuta in mera sospensione del verbale tra un intervento teorico e l'altro da parte delle due guide; le quali, durante una prima sosta, introducono il concetto di "Terzo paesaggio" davanti a un campo rioccupato dalla vegetazione spontanea; in un'altra occasione, di fronte alla dimostrazione di come un corpo nello spazio possa cambiare la percezione dello spettatore (una figura che dallo sfondo si staglia piccola piccola, poi avanza, a una certa distanza lancia un sasso nel fiume e infine scompare), sembrano voler mettere a punto una definizione che inquadri il tipo di ricerca che svolgono, assegnandole, in maniera forse un po' altisonante, la formula sintetica di "preistoria del teatro", e così via per altre puntualizzazioni analoghe. Si sente insomma la mancanza di una serie di "condizioni" che sarebbero in grado di trasformare quello che rischia di rimanere un atto puramente dimostrativo in qualcosa che lavori lo sguardo e la presenza del partecipante.

Certo, è pur presente ciò che si potrebbe definire un "montaggio" dei luoghi nella percezione dello spettatore: ed è così che si passa dalla periferia urbana, fatta di piazzaloni assolati, di scale tra condomini e slarghi, alla vegetazione spontanea cresciuta all'ombra del viadotto sospeso sopra le nostre teste. E' sicuramente affascinante contemplare la ferita di luce che riverbera nello spazio longitudinale tra due tratte di ponte parallele; vedere i grandi piloni di cemento affondare in una distesa di sabbia finissima che dissemina al suo interno frammenti di immondizie insieme a resti di fuochi e a legni contorti e termina sulla sponda del torrente Parma; come lo è compiere un'atto simbolico di riappropriazione di un luogo abbandonato attraversandolo: in questo caso una strada non terminata, circondata da reti metalliche che ne impediscono l'accesso; ma tutto questo viene come indicato, enunciato, non ci sembra sorgere di necessità dalla drammaturgia, dall'urgenza di un atto poetico radicale che risulti incarnato (ecco forse le condizioni di cui si diceva sopra) dai tre performer, e non, viceversa, solo verbalizzato e mostrato.
Forse il momento più significativo di tutta la performance è quando Delogu e Sirna, in una davvero suggestiva e forse troppo breve sequenza, mettono in atto il principio su cui si basa il loro lavoro più famoso: "L'uomo che cammina", dove il drappello dei partecipanti segue a una certa distanza il performer che disegna un percorso nello spazio, creando un montaggio dei luoghi nella percezione dello spettatore, e dove lo spazio vuoto che separa il gruppo dalla guida rimane come un margine, un foglio bianco, uno schermo, una tela, un'inquadratura aperta, nella quale di volta in volta acquistano un inedito senso le presenze o gli accidenti che abbiano la ventura di attraversare quel margine, e con cui l'inquadratura mobile dell'"uomo che cammina" riesce a stabilire relazioni drammaturgiche più o meno stringenti.

Il programma della ventiduesima edizione del festival "Natura Dèi Teatri", porta "a compimento il progetto dedicato all'artista visivo Richard Serra", quest'anno incentrato sul tema della "scia", intesa come metafora del lavoro artistico, dell'opera, della sua impermanenza più o meno stabile, e che troviamo sia in MU di DOM sia nelle modalità con cui Lenz affronta il lavoro sugli spazi della città: l'evento scenico come "scia" che si produce nel tessuto storico-architettonico di una città, con la sua storia, i suoi edifici e monumenti.

E qui l'edificio è quello dell'ex Ospedale Vecchio - Archivio di Stato. Monumentale struttura quattrocentesca a croce greca, sormontata da una cupola dalle volte altissime, riletta come Purgatorio attraverso la lente della cantica dantesca. E risulta subito limpido il motivo di tale scelta, poiché le funzioni di ospedale o di archivio in fondo implicano l'attesa, vòlta alla speranza della guarigione in un caso (e, nel Purgatorio, della vita eterna), o inverata in un'ideale di conservazione nell'altro; tuttavia, anche l'atmosfera di cui è pervaso questo luogo richiama un clima purgatoriale, sottolineato dall'illuminazione, che mantiene in una continua penombra quella vastità, solo rotta dalle puntuali lame di luce fredda di lampade a led brandite dagli attori in modo da mettere di volta in volta in evidenza volti e corpi con un rilievo plastico diverso; o dal lampeggiare di quel bastone incastonato di leds cui Catone (Franck Berzieri), guardiano del Purgatorio, si regge mentre incede deciso nella navata con una camminata claudicante di straordinaria potenza.

Gli spettatori, visitatori ammessi al viaggio nell'Aldilà, testimoni quasi, stanno addossati alle grandi librerie semivuote di legno scuro che corrono lungo la navata centrale, nella quale si svolge lo spettacolo, e ogni tanto sono invitati a spostarsi sempre più avanti, in un lentissimo zoom, che dura l'intero tempo dello spettacolo, fino al fondo, dove sul muro finestrato si è continuamente alternata la proiezione, grande quanto tutta la parete, dei numeri esoterici del poema dantesco: 1, 3, 7, 9.

Sono "attori storici di Lenz, attori sensibili e attori di compagnie dialettali" a muoversi in scena; energie scagliate nel vuoto spazio a urlare la propria pena, con forza sapiente e controllata gli attori sensibili, cioè una compagine di persone con varie disabilità che negli anni sono diventate figure professionali stabili della compagnia; e con una viscerale carica espressiva, sottolineata dal dialetto, gli altri, i membri delle compagnie dialettali, che paiono perfettamente, e incredibilmente, a proprio agio in un contesto scenico tutto contemporaneo. Lingua aspra e potente, questo parmigiano sibilato, urlato, la cui scelta, secondo gli artefici Pititto e Maestri, la scelta cioè di un "volgare" diverso da quello trecentesco di Dante, evoca la figura di Daniel Arnaut, poeta francese di lingua occitana vissuto a cavallo tra XII e XIII secolo, "l'unico al quale Dante (nella Commedia) concede di parlare in altra lingua".

"Natura, Dèi, Teatri", diretto da Maria Federica Maestri e da Francesco Pititto, che ha concluso il 1° luglio la propria sessione estiva, tornerà come di consueto a riflettere sul rapporto tra performing arts, progetti site specific e città, tra "architettura, comunità e cultura", in autunno, dal 18 al 25 novembre. Vedrà inoltre la ripresa del progetto dedicato al poema dantesco, che troverà realizzazione in due altri luoghi significativi di Parma: il Ponte Nord (Paradiso) nel 2017 e il Termovalorizzatore (Inferno) nel 2018.

Ultima modifica il Martedì, 11 Luglio 2017 22:55

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