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FESTIVAL INTERNAZIONALE DI DUBLINO 28 settembre – 15 ottobre 2017.-a cura di Patrizia Monaco

Ollie West in "Hamnet", Dead Centre, Peacock Theatre. Foto di Gianmarco Bresadol Ollie West in "Hamnet", Dead Centre, Peacock Theatre. Foto di Gianmarco Bresadol

FESTIVAL INTERNAZIONALE DI DUBLINO
28 settembre – 15 ottobre 2017

Sessanta e non li dimostra

"Un compleanno importante può essere un'occasione per festeggiare o può provocare una crisi di identità. Fortunatamente noi ci sentiamo così in gran forma che pensiamo che gli anni migliori siano ancora davanti a noi".
Ancora una volta comincio la mia carrellata sul Festival Teatrale di Dublino, sessantesima edizione, con le parole del giovane direttore Willie White, che ha saputo imprimere negli ultimi anni una fisionomia particolare a questa rassegna che nell'arco di 18 giorni presenta 28 spettacoli. Energia e ricerca sottendono gli eventi, che privilegiando la nuova drammaturgia irlandese si affiancano a progetti che includono l'uso di ogni altra forma artistica, musica, danza, video, aprendosi alla scena internazionale senza concedere troppo spazio a costosi e rinomati spettacoli. E il pubblico premia questa politica avventurosa, eccitante e noncurante dei "nomi". La qualità è solitamente alta e quest'anno è stata ancora più alta.
Così continua lo scattante Willie White "Il sessantesimo del festival ha luogo in un momento storico in cui la verità è considerata cosa obsoleta – post-truth world – e noi riteniamo che il pensiero critico abbia più che mai un'importanza fondamentale. Noi vogliamo fare pensare, provocare, divertire. Abbiamo cercato artisti che trattino di temi come potere e giustizia, di conflitti relativi ai rapporti familiari e affettivi tanto come quelli che sorgono fra gli individui e le società repressive. Abbiamo fiducia nell'immaginazione, in coloro che credono nella bellezza e nel voler smuovere le acque, cercare nuove strade e tutto ciò crea il nostro festival".
In ogni edizione si intravede una costante, un filo rosso e lo si deduce dalle scelte effettuate dal team che lavora dietro le quinte per dodici mesi.
I sessantanni di questo vispo festival sono caratterizzati da due elementi. Uno è l'inclusione omogenea di mezzi tecnologici, quali video con cui interagire, whatsapp giganti e algoritmi parlanti, non per corteggiare un pubblico giovane – e così è quello che riempie le sale – bensì perché considerati presenze ormai imprescindibile nella nostra epoca. Il secondo elemento, più evidente ancora che negli scorsi anni, è l'impegno sociale.

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Lo spettacolo che racchiude entrambi gli elementi è Josephine K and the Algorithms, della giovane autrice Stacey Gregg, di cui apprezzai il caustico Shibboleth lo scorso anno, sull'ennesima costruzione di un muro in Europa, simbolo di un neppur troppo strisciante razzismo.
La pièce diretta da Caitriona McLaughlin e interpretata da Orla Fitzgerald e Carl Kennedy, insieme tecnico del suono e algoritmo, aveva richiesto un cambiamento di struttura nel Peacock, la sala piccola dell'Abbey, l'abbiente Teatro Nazionale che ha prodotto lo spettacolo. La sala si era trasformata in un ring da pugilato e il pubblico parte in piedi e in parte seduto circondava lo spettacolo mentre sulle pareti comparivano a tratti immagini di campi fioriti. Si deduce dal titolo che il punto di partenza è Il processo di Franz Kafka, e non sorprende l'inizio in cui la protagonista, un mattina come tutte le altre, si trova citata in tribunale senza alcuna spiegazione. Da questo momento Kafka e Alice nel Paese delle Meraviglie si intrecciano poiché nel suo tragitto prima al lavoro e poi al tribunale, Josephine incontra personaggi ai limiti dell'assurdo, con cui lei crede peraltro di comunicare a livello umano ma dalle risposte predeterminate, alla fine scoprirà che sono tutti algoritmi. Questo satirico atto unico esplora le implicazioni dell'uso sempre più crescente della tecnologia riflettendo sul fatto che noi siamo l'ultima generazione che ha conosciuto un modo di vivere analogico. Segnala l'utilizzo dei dati personali sempre più invasivo, la burocrazia impersonale e soffocante, la paranoia della sicurezza nazionale. Poiché l'autrice dipinge un mondo futuro prossimo, alla domanda se lei crede nelle distopie, risponde che crede solo nelle utopie andate a male. "Il mio testo è una versione amplificata di un universo familiare. Josephine K. non è un'eroina, E' solo una persona normale, che vuole restituire ad Amazon un libro che per errore pare abbia ordinato on line."

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Il Teatro Nazionale ha speso bene i soldi pubblici, poiché ha offerto visibilità ad un'altra opera nuova e quindi rischiosa come Hamnet, del gruppo Dead Centre che ha ricevuto un successo enorme di pubblico e critica, sempre nella sala del Peacock. Sul programma di sala si legge, non senza ironia: testo di William Shakespeare, Bush Moukarzel e Ben Kidd. Gli ultimi due nomi sono quelli dei fondatori del gruppo, drammaturghi, attori e registi. Solo in scena in un monologo della durata di quasi sessanta minuti, Ollie West, giovanissimo attore figlio d'arte, età tredici anni in una interpretazione magistrale. Due anni or sono, quando aveva la stessa età del figlio di Shakespeare, morto di tifo all'età di undici anni, fu contattato da Dead Centre. Per il ruolo dello sfortunato figlio del grande commediografo. Infatti il motivo ricorrente nel vivace monologo di un ragazzino contemporaneo in felpa, jeans e zainetto è la domada: "Cosa è un grand'uomo?" Solo in apparenza il tema non è originale, vale a dire la curiosità verso un padre mai veramente conosciuto che lo aveva abbandonato per fare fortuna in città, e che non lo aveva neanche visto morire. Di conseguenza, un sotteso risentimento e un'aperta ricerca di approvazione. Totalmente originale per contro, il suggerire, nonostante jeans e felpa, l'agire fuori del tempo e dello spazio, nella competizione frenetica e ossessiva con il suo quasi omonimo Hamlet, giovane principe danese protagonista di un'opera immortale. Estraendo il necessario dallo zainetto Hamnet si trucca e veste come Amleto, e declama con un piccolo teschio (il suo ?), pur di farsi notare dal padre, quando il fantasma di questi gli appare secondo la tradizione shakespeariana. Tradizione che qui peraltro prende la forma di un video proiettato sul fondale alle sue spalle, un enorme schermo in cui a volte ci ritroviamo noi dalla platea e Hamnet stesso, ma non sempre, creando a volte effetti sconcertanti, come quando alla fine il video che sembrava in ripresa diretta, mostra una sala priva di spettatori. Hamnet sembra ritrovare il padre che però gli chiede di lasciarlo in pace, avendolo perseguitato tutta la vita. Hamnet ci informa che Hamlet fu scritto tre anni dopo la sua morte. In questo gioco di fantasmi perché ora è evidente che tutti lo siamo, offrono sollievo umoristico le domande che Hamnet pone a Google quando dal video il padre non gli sa rispondere su quanti siano i morti nelle sue opere. Settantaquattro è la risposta, che lascia perplesso William, un convincente Bush Moukarzel, mentre il ragazzino sembra concludere che nelle opere di quel supposto grand'uomo, non si impara veramente come vivere bensì come morire. E che siamo tutti figli di Shakespeare. L'intrigante scenografia è di Josè Miguel Jimenez.

dublin17 Venetia Bowe in NORA photo Ros Kavanagh

Ollie West è figlio dello scrittore Michael West, che ha curato la drammaturgia del copione di Hamnet e di Annie Ryan, fondatrice di The Corn Exchange, la compagnia che ha messo in scena Nora, di Belinda McKeon e Annie Ryan. Lei stessa è la protagonista del testo ispirato a Casa di bambola di Ibsen, ambientato nel 2025, in un mondo post-Trumpiano, che nelle convinzioni delle autrici ha proseguito nella nefasta ghettizzazione degli ultimi, in una glorificazione del danaro come misura di tutte le cose.
La scenografia di Paul O'Mahony ripropone un interno dal minimalismo sofisticato, come si conviene ad una famiglia agiata che vive "di sotto" e che si muove nell'ambiente delle gallerie d'arte. La stessa sera in cui a casa loro si terrà un party esclusivo, appaiono due personaggi dal passato di Nora, ora confinati nel pericoloso "mondo di sopra". Come accade nell'opera di Ibsen scuotono il precario equilibrio in cui vivevano Nora e la famiglia. Qui però finiscono le affinità con Ibsen, e lo spettacolo, sia pure ottimamente interpretato e diretto con ritmo sicuro, non decolla. L'intervento chirurgico della narratrice Belinda McKeon, operato su Casa di bambola nello scindere in due il personaggio di Ibsen, dando alla figlia adolescente - sua creazione - la parte positiva di Nora, e attribuendo alla madre, le scorie negative di colei che vuole restare attaccata ai beni materiali non sembra riuscito. Pertanto il finale è quello opposto a quello così rivoluzionario e "femminista" di Ibsen: Nora non se ne va. Trama dai troppi fili lasciati penzoloni, come i frettolosi accenni al mondo futuro, il che porta ad una ultima impietosa riflessione, per attualizzare un classico, non c'è tempo migliore che il presente. Corn Exchange, regia di Eoghan Carrick. Naturale la recitazione di Venetia Bowe nella parte di Emmy la figlia.
Non un classico attualizzato bensì la drammatizzazione di un caposaldo della letteratura mondiale, impresa da far tremare le dita sulla tastiera del computer, è Ulysses di Dermot Bolger dall'Ulisse di Joyce. All'Abbey Theatre, questa vibrante e spassosa versione in una messinscena dal cast ad alto livello, in un pandemonio di musica dal vivo, pupazzi, danza e clownerie. Il famoso monologo di Molly Bloom scorre a intervalli lungo tutto lo spettacolo, interrotto dalle peregrinazioni del marito Leopold Bloom e dello studente Stephen Dedalus, nella vivace cronaca di una giornata dublinese, il mai più dimenticato 16 giugno 1904, Bloomsday. Spumeggiante di trovate, quali i pupazzi di diverso tipo che risolvono la miriade di personaggi solo apparentemente secondari che l'adattatore, scrittore e commediografo ha portato in piena luce, avendo l'intenzione dichiarata di mostrare a tutti, anche a coloro che non hanno letto Joyce o che hanno timore di affrontare Joyce, quanta umanità e umorismo vi sia in un romanzo su cui grava una fama di segno contrario. Bolger nelle esaustive note nel programma spiega la cifra della sua riduzione teatrale. Leggendo le lettere di Nora Barnacle, la moglie di Joyce, da Trieste, lo colpì la frase in cui lei si lamenta che la notte non riesce a dormire per le risate che il marito si fa mentre scrive la sua opera. Diretto da Graham McLaren con David Pearse, un umanissimo Bloom, Jane Moran, distesa nel lettone tutto il tempo, superba Molly, supportati da una decina di attori scatenati ma quasi sempre misurati.

Non solo divertimento, poiché autore e regista hanno voluto dare risalto a quanto sottende la frase che Bloom dice a Stepen sugli scopi dell'esistenza. "Io rifiuto la violenza e l'intolleranza in ogni sua manifestazione... Tutte quelle sterili dispute su onore e bandiere. Alle base di tutto c'è il danaro, l'avidità e la gelosia."

 dublin17 Woyzeck

Tutto ciò è evidenziato nell'annichilimento fisico e morale del povero soldato dell'esercito austroungarico nello spettacolo a mio parere più entusiasmante, Woyzeck in Winter, scaturito da una geniale idea del musicista Conall Morrison. Da anni carezzava l'audace progetto di unire il Woyzeck di Bűchner con il ciclo di lieder, Winterreise, di Schubert, ma senza il sostegno della Landmark Production e del Festival Internazionale di Galway questa sua idea mai avrebbe visto la luce dei riflettori. Landmark è una società di produzione diretta da Anne Clarke, la quale ha ricevuto nel 2015 un prestigioso riconoscimento per il suo lavoro (Special Tribute Award Irish Times, Irish Theatre Award) e che contribuisce in maniera sostanziale a promuovere e sostenere opere teatrali e musicali di grande interesse. Gli spettacoli prodotti da Landmark vengono inoltre finanziati in costose tournèe all'estero, ottenendo successi e risultati che ripagano in termini economici e di fama. Landmark si affianca spesso al Galway International Arts Festival, organizzazione culturale che sponsorizza uno dei più importanti festival artistici, nella cittadina all'ovest dell'Irlanda e che ha una media di presenze di più di duecentomila persone. L'impegno delle due organizzazioni ha permesso la realizzazione di un evento unico, mosso e commovente, che alla intensa interpretazione di Patrick O'Kane come Woyzeck sullo sfondo di uno scenografia composta da un centinaio di parti di pianoforti dismessi, fa da contrappunto la musica struggente di Schubert. Le 24 scene del breve testo del giovane autore tedesco morto prematuramente sono incastonate e viceversa, nei 24 lieder del compositore austriaco altrettanto prematuramente scomparso. Entrambe le opere degli albori del romanticismo trattano della tragica sorte di cuori spezzati, ma nel testo teatrale prevarica la veemente denuncia di una società spietata. Bűchner dipinge un personaggio sfruttato e vilipeso, vittima di un bullismo ante-litteram e dei cinici esperimenti di un medico che con il quasi forzato digiuno lo trascina in uno stato allucinatorio, reso senza sbavature da Patrick O'Kane che con una recitazione febbricitante e muscolare salendo e scendendo di corsa dalla catasta di pianoforti restituisce il senso di una vita spezzata. Conor Linehan suona il piano per tutto il tempo al centro della scena, mentre gli attori recitano e interpretano le canzoni tradotte ex novo in inglese da Stephen Clark dal libretto di Műller. La musica accentua lo strazio del cuore e della mente di Woyzeck tanto che il pubblico è investito da uno tsunami di emotività quando il soldato compra il coltello. Quando l'individuo è lasciato solo a lottare contro leggi inumane, mente, ruba e uccide.
Un cast di prim'ordine, che comprende Rosaleen Lineahan, trascinante nel ruolo del suonatore di organetto di Barberia. Barry McGovern, un sadico dottore, Stephen Brennan, un cinico capitano e nel ruolo della bella e sventurata Marie, Camille O'Sullivan.

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La suggestiva e incombente scenografia è di Jamie Vartan, che ha firmato anche quella dell'opera moderna The Second Violinist, compositore Donnacha Dennehy e libretto di Enda Walsh. Prodotto dagli stessi benemeriti Landmark e Galway Arts Internationl Festival.
Ricompare l'apporto tecnologico con un fondale composto da uno schermo di undici metri di lunghezza su cui appaiono chat cui partecipa il protagonista, un frustrato "secondo violino" che va alle prove con la custodia malconcia del suo strumento, accasciato sui sedili di un umido bus dublinese. A casa sua rivede scene passate e future della sua vita e della tragica fine del suo matrimonio, intrecciando i suoi passi con il suo alter ego, la moglie e l'amica speciale di lei, senza interagire con i tre cantanti. Il bravo Aaron Monaghan è Martin il protagonista, e non parla mai. Màire Flavin, Sharon Carty e Benedict Nelson interpretano con grande talento le canzoni i cui temi vanno dalla nostalgia della giovinezza a "come vuoi la pizza" su una musica suonata dal Crash Ensemble. Quel che avviene fra Martin e una donna nella foresta sovrastante lo schermo-fondale non svela interamente il mistero del perché il protagonista torni coperto di sangue e si faccia una doccia in una cabina super accessoriata in scena. Spettacolo ammaliante forse perché non totalmente comprensibile, come del resto invece è l'ossessione di Martin per Carlo Gesualdo, musicista rinascimentale dalla vita piuttosto discutibile moralmente ma dalle melodie celestiali.
Niente musica, video o parole in Her Voice, della compagnia giapponese Kamome-Za, nell'eccezionale interpretazione di Keiko Takeya e Togo Igawa. L'acclamato spettacolo risponde alla domanda: "Cosa resta di Happy Days di Samuel Beckett se si toglie il dialogo?" Un'ora di puro teatro visivo, in cui Winnie, l'attrice e coreografa Keiko Takeya, esegue i movimenti dettati dalle puntigliose didascalie, in una contaminazione col teatro No e Kabuki che incanta e sorprende.

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Restando in un certo senso in oriente, ancora un classico rivisitato con una formula originalissima dal gruppo Pan Pan, specializzato in riletture del genere. The Good House of Happiness, dall'Anima Buona del Sezuan. La rilettura è ambientata a Dublino, nella comunità cinese e mongola, in un ristorante impossibile da gestire se non con un polso spietato. Lo spettacolo, il cui cast consiste in tre attori cinesi due acrobatiche ragazze mongole e un irlandese, segue molto liberamente la trama dell'opera di Brecht rispettandone però lo spirito e il tema: è possibile rimanere onesti in una società come questa? I bravissimi attori e l'attenta regia suscitano risate dal retrogusto amarognolo, anche grazie a canzoni alla Brecht dai titoli come "Meglio piangere in una BMW che ridere in bici" . Alla domanda se i giovani espatriati aspirano al danaro o all'amore un personaggio afferma, con grande serietà: "L''amore! I love my visa. Amo il mio visto". 
Il pubblico ha applaudito con convinzione gli attori non professionisti, reclutati infatti nella autentica comunità di giovani immigrati e studenti in corsi post universitari.

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Sin Eaters, Anu Production, si colloca nella linea della compagnia, che realizza eventi "site-spec", vale a dire dove sono avvenuti i fatti narrati, o quasi. In questo caso ci ritroviamo in una zona industriale abbandonata, in un edificio che ospitava laboratori, e noi del pubblico, otto alla volta, e poi in quattro e infine individualmente, siamo trascinati senza troppo garbo, a seguire nelle asettiche e inquietanti stanze le sei attrici che impersonano donne realmente esistite, le cui storie fuori dall'Irlanda non hanno avuto risonanza ma che qui hanno creato un forte impatto emotivo sull'opinione pubblica che ancora dibatte sull'introduzione o meno dell'aborto. Storie ai limiti dell'incredibile, in cui giovani donne obbligate dalle decisioni dei tribunali, sono forzate a portare a termine gravidanze pericolose, denunciate se vanno nella vicina Gran Bretagna ad abortire e di conseguenza sovente spinte ad infanticidi. Medee inconsapevoli, per lo più ragazzine. Ascoltiamo con disagio ed imbarazzo data la vicinanza fisica e l'assoluta naturalezza della recitazione, i loro casi e osserviamo sgomenti pile e pile di scatole di cartone, dalla forma di piccole bare, che solo in questo spazio hanno avuto una sorta di sepoltura. Ma non giustizia. Non ancora.

Patrizia Monaco

Ultima modifica il Venerdì, 03 Novembre 2017 23:36

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