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TEATRO POVERO DI MONTICCHIELLO, 52esima EDIZIONE 2018 - “Valzer di mezzanotte”. -di Mauro Martinelli

“Valzer di mezzanotte”. Foto Emiliano Migliorucci “Valzer di mezzanotte”. Foto Emiliano Migliorucci

TEATRO POVERO DI MONTICCHIELLO

Per la sua 52esima edizione il Teatro povero di Monticchiello, tra gli esperimenti teatrali estivi forse quello che meglio e più a lungo ha resistito all'usura del tempo, ha raccontato una nuova storia di incertezza economica e fragilità etica. Nel decennale della crisi, il cui avvio si fa risalire alla bancarotta della Lehman bros. del 2008, gli abitanti di questo piccolo borgo toscano del Comune di Pienza, in Val d'Orcia, si sono nuovamente interrogati sul mondo che sta cambiando, per poi mettere in scena nelle sere estive uno spettacolo nato in quelle invernali, discutendo e confrontandosi; lo hanno fatto dal punto di vista di una civiltà contadina in affanno, attorniata dalle chimere della finanza e da una quotidianità che alterna le speranze del "gratta e vinci" e le disillusioni della lavoro precario.

"Valzer di mezzanotte", questo il titolo dello spettacolo andato in scena dal 21 luglio al 14 agosto in Piazza della Commenda, si apre su un palcoscenico allestito per una cena: sui tavoli tovaglie candide, bottiglie, piatti, aspettano i commensali che lentamente iniziano ad arrivare. Coppie ed amici si accomodano, ed iniziano a parlare tra loro in attesa delle portate, mentre i più giovani, seduti sul proscenio, sono assorbiti dai propri device elettronici, ectoplasmi persi in un altrove evanescente. Da una parte emerge una comune fragilità quotidiana, dall'altra un uomo di successo italo americano rivendica i propri successi, ottenuti anche grazie all'utilizzo di contratti a tempo indeterminato di 59 minuti, che hanno così risolto il problema del licenziamento e sono rinnovabili fin quando c'è bisogno.
Il singolo di successo e la massa degli sconfitti parlano lingue tra loro inconciliabili, il razzismo e le incomprensioni reciproche si fanno strada tra i commensali fino a quando iniziano a tirarsi addosso i confetti che riempiono un grande vaso pieno al centro della scena.

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Entrano in scena le donne, da sempre anima del racconto, e iniziano a pulire e sparecchiare: e dalla cena iniziale, che voleva celebrare il traguardo odierno della crisi messa alle spalle, si passa a un matrimonio contandino degli anni '50, in cui emergono i ricordi di un lontano passato, fatto di emigrazione e tragedie come quella di Marcinelle, e che segna il distacco dalla casa colonica, che verrà abbandonata dalla famiglia della sposa per andare a vivere altrove.
Sul fondale del palco appaiono le "teste di rete", dei manichini ondeggianti fatti di fil di ferro, suggestioni della liquidità dell'economia e dell'impossibilità di ancorare le proprie esistenze a valori solidi o strutture definite. E infatti, lentamente, tutti i commensali si riuniscono al centro della scena, aggrappati tra loro su una zattera alla deriva che nessuno, probabilmente, è in grado di governare. Allora saranno proprio i protagonisti di questa storia a dover prendere in mano le proprie vite, senza più aspettare una salvezza dall'esterno, che capiscono non arriverà mai; dovranno riconquistare una libertà negata dall'economia di mercato e dalla scomparsa della solidarietà, ricominciando daccapo con nuovi progetti. La zattera allora verrà distrutta, il lungo viaggio nell'insicurezza avrà termine, e gli sposi inizieranno a ballare al suono della mezzanotte, provando ad aprire le porte a una nuova vita.

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Andrea Cresti, che durante le repliche dello spettacolo ha festeggiato i suoi 80 anni, e che da 38 anni coordina la trasformazione di un canovaccio iniziale in un copione da mettere in scena, continua a proporre sul mondo odierno uno sguardo denso ironia e disillusioni. Tante le suggestioni narrate, dai tavoli che si disfano l'uno dopo l'altro, implodendo con fragore, alla zattera che accompagna la deriva dei tempi, alle giovani generazioni assenti da ogni confronto e annebbiate dal loro eterno presente di connessione.

Durante i suoi canonici 70 minuti lo spettacolo ha dovuto affrontare qualche contrarietà (un tavolo ribaltato prima di quanto previso, con dispersione sulla scena di cocci di vetro, e qualche rallentamento di ritmo nei dialoghi) e più di una difficoltà scenica (il grande numero di personaggi presenti sulla scena, obbligati a districarsi nei pochi spazi lasciati liberi da tavoli e sedie), sempre superate con entusiasmo e una buona capacità di improvvisazione.

Colpisce, sulla scena, l'avanzare impietoso e ineluttabile dell'età dei principali personaggi, tanto più evidenziato dal gap generazionale con i ragazzi più giovani; ma anche la costanza della qualità e dell'entusiasmo della rappresentazione, che riproduce con variazioni cicliche tematiche care agli abitanti del borgo, narrate in una lingua spuria di italiano e dialetto. E' un'esperienza scenica necessaria, impastata di tradizione e volontà, tigna contadina e apertura al mondo, che siamo felici di vedere anno dopo anno: una dimensione narrativa uguale a se stessa eppure striata di intuizioni ed immagini del passato, tesa a un domani in cui dovrà inventarsi nuovamente, fino a quando la linfa vitale del paese saprà sostenerla, in un tempo indefinito sospeso come una zattera tra i marosi di un mondo sempre più complesso, che uomini e donne di Monticchiello provano, anno dopo anno, a raccontare.

Mauro Martinelli

Ultima modifica il Domenica, 26 Agosto 2018 09:25

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