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70° FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL CINEMA DI BERLINO. -di Franco Sepe

"Volevo nascondermi" di Giorgio Diritti "Volevo nascondermi" di Giorgio Diritti

70. Festival internazionale del cinema di Berlino
di Franco Sepe

La Berlinale giunge alla sua settantesima edizione con una novità ma anche con qualche spiacevole sorpresa. Nuova, dopo l’era di Dieter Kosslick durata diciotto anni, è la direzione del festival, affidata all’italiano Carlo Chatrian (direttore artistico), torinese di nascita e cresciuto in Val d’Aosta, che aveva già ricoperto lo stesso incarico a Locarno, e a Mariette Rissenbeek (direttrice organizzativa). Con un contratto quinquennale, il quarantasettenne Chatrian, insieme alla sua collega olandese, si trova a gestire un budget di 26 milioni, che supera quello di Cannes e raddoppia quello di Venezia, e una mostra internazionale che prevede un afflusso di circa 500 mila spettatori all’anno distribuiti in 40 sale. A gettare un’ombra sul festival, è stata invece la notizia, quasi a ridosso dell’inaugurazione, della scoperta, fatta da uno storico tedesco (ma in realtà la cosa era in parte già nota) delle implicazioni del suo fondatore Alfred Bauer, e direttore fino al 1976, con il nazismo. Addetto nel 1942 su incarico di Goebbels alla selezione di opere cinematografiche da produrre secondo i dettami del Terzo Reich, Bauer, già membro delle SA e del NSDAP, pare avesse addirittura dato il suo consenso alla creazione di pellicole antisemite. In seguito a questa rivelazione, si è deciso, con imperdonabile ritardo, di abolire il premio che da decenni porta il suo nome. Inoltre, sulla odierna edizione ha gravato la minaccia del coronavirus. Ed è un miracolo che non sia stato annullato l’evento, perché una settimana dopo l’inaugurazione, con le proiezioni ancora in corso, fonti governative hanno diramato la notizia della cancellazione a Berlino della Fiera internazionale del turismo, che avrebbe aperto i battenti proprio a Berlinale conclusa.

SHEYTAN

Ad aggiudicarsi l’Orso d’oro per il miglior film, premio questa volta assolutamente meritato, e non soltanto per il suo significato politico e la esplicita denuncia, ma per le indiscusse qualità artistiche dell’opera, è stato Sheytan Vojud Nadarad (There Is No Evil) diretto da Mohammad Rasoulof, regista inviso al regime iraniano che dal 2017 gli vieta di lasciare il paese. Si tratta di quattro storie il cui filo rosso è la difficoltà di difendere e restare fedeli ai propri valori in un sistema politico dove il ricatto obbliga il comune cittadino a scelte disumane. Il primo episodio descrive la vita quotidiana di Heshmat (Hesan Mirhosseini), i gesti affettuosi di un capofamiglia che cela dentro di sé il gravoso segreto di chi, per assicurarsi un’esistenza decorosa, si ritrova a dover fare il boia. Nel secondo Pouya (Kaveh Ahangar), soldato di leva disperato per aver ricevuto l’ordine di "togliere lo sgabello“ dai piedi del condannato a morte, impadronitosi di un’arma riesce a fuggire e a ritrovare la libertà insieme alla sua fidanzata che lo attende in macchina filando verso il confine sulle note di Bella Ciao. Contigua a questa è la storia di Javad (Mohammad Valizadegan), ugualmente in leva obbligata, il quale per ottenere tre giorni di permesso e festeggiare il compleanno della sua ragazza presso i parenti di lei, ha dovuto farsi carico di una esecuzione, scoprendo, una volta giunto da essi, di aver dato fatalmente la morte a un dissidente loro amico a cui avevano offerto ospitalità e protezione. L’ultimo episodio narra invece della visita in Iran di Darja (interpretata da Baran Rasoulof, figlia del regista) una giovane studentessa nata e residente a Berlino, presso un suo parente stretto gravemente ammalato, al quale, per essersi rifiutato di eseguire un ordine ingiusto e disumano, è stato impedito da sempre di svolgere la professione di medico e che solo adesso, date le circostanze, rivela alla ragazza di essere il suo padre naturale. Il film, realizzato da Rasoulof in semiclandestinità, denuncia uno dei grandi misfatti del regime – l’Iran è uno dei paesi con più esecuzioni capitali al mondo – ponendo l’accento sui dilemmi morali che affliggono l’individuo, una volta privato della libertà di scegliere, in quattro variazioni (anche di stile e di generi) su un medesimo tema.

NEVER RARELY

L‘Orso d’argento Gran Premio della Giuria è andato a Never Rarely Sometimes Always di Eliza Hittman. È la storia di una ragazza diciassettenne che ha un lavoro part-time come cassiera in un supermarket e vive con la sua modesta famiglia in una zona rurale della Pennsylvania. Autumn, in seguito a una gravidanza indesiderata, certa di non poter contare sul supporto dei propri genitori e sulla regolamentazione medica di quella contea in quanto minorenne, accompagnata dalla cugina Skylar, sua coetanea e collega, parte in pullman per New York, dove vi sono ospedali nei quali è lecito interrompere la gravidanza senza il consenso dei genitori. L’enigmatico titolo scandisce uno dei momenti più toccanti del film, quello in cui, in un’inquadratura fissa e senza stacchi, Autumn deve rispondere al questionario medico letto da una voce fuori campo, indicando semplicemente con uno dei quattro avverbi (presenti nel titolo) se e come ha vissuto, consensualmente o meno, determinate esperienze sessuali. Sobrio e lineare nella narrazione, l’odissea delle due giovani ragazze di provincia che contando unicamente sulle proprie forze affrontano e superano ogni sorta di difficoltà, cela al suo interno un messaggio assai più profondo sulla presa di coscienza femminile. Colpisce l’abilità delle attrici Sidney Flanigan e Talia Ryder, entrambe esordienti, nell’interpretare due figure tra loro diverse ma complementari.

Ottiene l‘Orso d’argento per la migliore regia il sudcoreano Hong Sang-soo con Domangchin yeoja (The Woman Who Ran), il suo film forse più minimalista, fra i 24 che ha finora al suo attivo. Gamhee (Kim Minhee), mentre suo marito è in viaggio d’affari, fa visita a due amiche a Seoul, la terza la incontra casualmente in un cinema. Le conversazioni, e confessioni, che si estendono per tutta la durata del film, sono altrettante repliche e variazioni di una medesima situazione dialogica descritta per inquadrature insistite e repentine zoomate sui volti e i dettagli delle protagoniste.

L’Orso d’argento alla migliore attrice lo ha ricevuto Paula Beer per il film Undine di Christian Petzold, moderna rilettura della nordica ninfa acquatica. L‘Ondina riproposta dal cineasta tedesco è una donna passionale che minaccia di uccidere il suo uomo ostinatosi a voler mettere fine alla loro relazione, e lo fa davvero, annegandolo nella sua piscina privata, dopo che Cristoph, il nuovo amante il cui mestiere è di riparare sott’acqua le turbine delle dighe, ingelositosi di lui, ha cercato di togliersi la vita. Il film trova nelle scene subacquee, e nei numerosi richiami a quello che è l‘elemento principe della semidivinità acquatica celebrata dal mito, un affascinante contrappunto agli scorci strettamente metropolitani.

Non vi era alcun dubbio che l‘Orso d’argento al miglior attore, la giuria, presieduta da Jeremy Irons, lo avrebbe assegnato a Elio Germano per la sua magistrale interpretazione di Antonio Ligabue in Volevo nascondermi di Giorgio Diritti. A pochi giorni dalla scomparsa di Flavio Bucci, l‘ attore che per primo vestì i panni del folle e geniale pittore emiliano, ma dalle origini svizzere, in uno sceneggiato televisivo del 1977 che fece epoca, l’anteprima mondiale del film che, con intenzioni ed esiti diversi, ripropone lo stesso personaggio, assume per il suo nuovo interprete il significato di una sorta di passaggio del testimone. Germano, che in conferenza stampa dichiara di non aver voluto vedere, prima di iniziare a girare, lo storico sceneggiato per potersi più liberamente calare nella difficile parte assegnatagli, convince tutti, critici e pubblico, con la sua poderosa metamorfosi, dove corpo e voce, animalità riflessa e resa iconografica della medesima nel fantasioso bestiario del pittore che tutti conosciamo, diventano carne e sangue, espressione viva di una passione e di un estro che superano i limiti dell’umano.

L‘Orso d’argento per la migliore sceneggiatura è andato a Fabio & Damiano D’Innocenzo. È stata un po‘ una sorpresa, perché, al di là del gusto oscillante tra il grottesco e il dark, non sempre a tutti graditissimo, la sceneggiatura firmata dai due fratelli registi di Favolacce appare piuttosto sconnessa, sicché le varie storie che ruotano, come le villette a schiera della periferia romana, attorno a quella principale, che finisce in tragedia, di una coppia sposata che vive con i due figli non ancora adolescenti, da cui si irradiano le abitudini malsane, l’ipocrisia, le storture famigliari che opprimono e fanno deflagrare la vita dei ragazzi, si sfilacciano nella esplicita monotonia di situazioni crude e violente e in dialoghi (raccapricciante il dialetto romano adottato) schematici e ridondanti, che finiscono per appesantirne lo svolgimento. Brilla altrimenti, anche in questa pellicola, Elio Germano nel ruolo di un padre frenetico e isterico.

DAU NATASHA

Per DAU. Natasha diretto da Ilya Khrzhanovskiy e Jekaterina Oertel si è aggiudicato l’Orso d’argento per la fotografia Jurgen Jurges. Nell‘ Unione Sovietica degli anni '50 Natasha (Natalia Berezhnaya) e Olga (Olga Shkabarnya) lavorano nella mensa di un istituto di ricerca segreto. Non si sopportano, ma quando si tratta di mangiare e bere in compagnia di militari e scienziati, fanno un’eccezione. Natasha, durante una seduta orgiastica, sotto l’effetto dell’alcol, va a letto con il francese Luc Bigé, ubriaco quanto lei. Convocata per l‘accaduto dai servizi segreti, i cui ricatti sono oggi a tutti ben noti, la donna verrà umiliata e costretta a diventare una spia.

L‘Orso d’argento Premio speciale è andato a Effacer l’historique di Benoît Delépine e Gustave Kerven. A vessare i personaggi, tre vicini di un sobborgo di provincia, non è un datore di lavoro in carne e ossa, ma un “cloud” invisibile che trasmette dati, controlla le vite delle persone fino a divorarne le identità. Unite le loro forze, i tre riusciranno a dichiarare guerra ai colossi della tecnologia.

Da ricordare, tra i film non vincitori, Berlin Alexanderplatz, versione cinematografica aggiornata dell’omonimo romanzo di Alfred Döblin. Il regista di origini afgane Burhan Qurbani racconta (in tre ore circa) la storia di Francis (Welket Bungué), sopravvissuto a un viaggio dall’Africa occidentale, in una Berlino allettante e insieme rischiosa per chi è tagliato fuori dalla società e insegue il cupo miraggio del benessere. Poi Schwesterlein di Stéphanie Chuat e Véronique Reymond, storia delicata e commuovente di una sorella drammaturga, interpretata da Nina Hoss, e del suo fratello gemello Sven (Lars Eidingen), attore di teatro, gravemente ammalato di leucemia. E The Roads Not Taken diretto da Sally Potter, con un eccellente Javier Bardem nella parte di uno scrittore di mezza età, colpito da demenza e in balia di uno sciame di ricordi e di allucinazioni, pietosamente assistito dalla giovane figlia disposta a sacrificare se stessa per un padre che da bambina l‘aveva abbandonata per dedicarsi egoisticamente al proprio mestiere. E ancora First Cow di Kelly Reichardt, tratto dal romanzo di Jonathan Raymond e ambientato nel selvaggio Oregon all’inizio del XIX secolo, che invece parla di cacciatori di pellicce e dell’amicizia tra un immigrato cinese e un cuoco taciturno, soci nella produzione di torte il cui segreto risiede nel latte sottratto di notte all’unica mucca di proprietà di un ricco possidente, il quale, scoperta la frode, farà del tutto per stanarli nonostante la loro folle corsa.

Ultima modifica il Lunedì, 23 Marzo 2020 09:10

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