NOTA STONATA
di Didier Caron
Regia: Moni Ovadia
Interpretazione: Giuseppe Pambieri e Carlo Greco
Traduzione: Carlo Greco
Scene: Eleonora Scarponi
Costumi: Elisa Savi
Produzione: Golden Show srl Impresa Sociale Trieste e Teatro della Città srl, Catania.
Borgio Verezzi, Piazzetta S. Agostino, 22 agosto
Il decimo spettacolo della 54° edizione del festival teatrale di Borgio Verezzi, Nota stonata dell’attore, sceneggiatore, regista e drammaturgo francese Didier Caron, classe 1963, è una prima nazionale dopo il trionfale debutto al Teatro Michel di Parigi.
La vicenda, che vede in scena due soli attori, è ambientata a Ginevra, nella Svizzera francese, in un freddo inverno del 1991, due anni dopo la caduta del muro di Berlino. L’azione si svolge nel camerino di Hans Peter Miller, direttore da molti anni dell’orchestra di Ginevra ma in procinto di passare alla prestigiosa Filarmonica di Berlino. Alla fine del concerto l’uomo, irritato, nervoso e inquieto per la deludente esecuzione dell’orchestra, viene importunato a più riprese da uno spettatore assillante e invadente, Léon Dinkel, il cui vero cognome è Dinkelbach, che si dichiara un fervente ammiratore del maestro. Mano a mano che il loro dialogo procede il comportamento del visitatore diventa sempre più strano e oppressivo. Il pubblico si chiede chi sia veramente e soprattutto cosa voglia dal direttore. Dal confronto serrato fra i due poco più che cinquantenni emergono a poco a poco i fantasmi di un torbido passato che li lega strettamente. La regia della pièce è affidata all’attore, musicista e cantante Moni Ovadia, capace, puntando sugli elementi allusivi e trasfiguranti del copione, luci, musiche e oggetti, a stimolare lo scavo interpretativo dei due bravi interpreti. Le parti di Dinkel e Miller, che al pubblico paiono uno il potenziale carnefice e l’altro la sua vittima, sono rese bene da due attori di lunga e robusta esperienza, Giuseppe Pambieri, e Carlo Greco. La scoperta della pièce e la sua fedele traduzione si devono a quest’ultimo. Dinkel riesce a vendicarsi di Miller che gli ha sconvolto molti anni prima la vita. A lui rivolge due accuse: “avete sempre dissimulato la verità. Vi siete inventato un passato”; “vivete con dei crimini sulla coscienza”. In effetti nel tentativo riuscito fino ad allora di nascondere il suo inquietante passato ha assunto il nome di Rudolf Keitel, un detenuto morto nel lager di Birkenau con tutti i suoi familiari. Miller, allora diciottenne, su ordine del padre, comandante in quel campo di sterminio, ha abbattuto nell’inverno del 1944 con due colpi di pistola il padre di Leon, violinista in un gruppo di musicisti ebrei, per avere eseguito per il freddo e la paura alcune note stonate di un notturno di Mozart. L’invito del drammaturgo che non è ebreo al pubblico è di riflettere sulle atrocità commesse in passato. Il dialogo tra i due offre continui ribaltamenti che spiazzano la platea. La rispettabilità che Miller si è guadagnata nel tempo non verrà meno nel finale con la rivelazione alla moglie Hilda, alle figlie e a coloro che lo conoscono dell’efferato crimine da lui commesso quasi cinquant’anni prima. Leon si dichiara soddisfatto di averlo terrorizzato facendogli risorgere un passato per entrambi angosciante. Dalle ossessioni che lo hanno tormentato si è liberato con l’aiuto della moglie Annah.
Diretto con mano sicura da Ovadia ed interpretato con bravura dall’affiatato binomio Pambieri e Greco, il testo è sostanziato di cose e non di parole, scevro come è da toni didascalici e tribunizi, verbosità e patetismi. Dello spettacolo, vanno apprezzate la forte passione civile ed etica che lo innerva, la struttura lineare; l’impianto solido; la ricostruzione attenta dell’evento sceneggiato; l’equilibrata unione di pathos e ragione; la sobrietà e asciuttezza dei dialoghi. La rievocazione di fatti dolorosi è inserita da Caron senza melensaggini nel dettato teatrale, facendosi carne e spirito. L’autore rievoca accadimenti della seconda guerra mondiale nel convincimento del ruolo della memoria per la conoscenza del presente. Nel ricordare episodi dolorosi il drammaturgo usa un linguaggio comprensibile a tutti. Autore, regista, interpreti, scenografa e costumista, concordano nel riconoscere nel teatro il luogo in cui va perpetuata la memoria che tende, in maniera preoccupante, ad affievolirsi. Per questo lo spettatore, non più passivo ma attivo, acquisisce una coscienza politica, basilare per mantenere viva la memoria collettiva. Il copione si segnala anche per la fulminea sintesi di gesti e parole e la sapienza con cui ricrea momenti drammatici della storia. Con decisione sono stigmatizzate la prevaricazione verso gli altri e l’accettazione supina della violenza senza opporre resistenze, mali che hanno tragiche conseguenze. Illuminante è la battuta in cui Leon, nel rimproverare l’interlocutore di non aver saputo difendere il proprio punto di vista, esclama “Se l’autorità non è associata all’idea di giustizia bisogna opporvisi e combatterla”.
I realizzatori dello spettacolo hanno fuso rigore del pensiero ed emozione, riflessione critica e colpi di scena. Del resto la pièce, scritta con uno spiccato senso teatrale e percorsa da una amara ironia, presenta l’inserimento funzionale in due momenti chiave del notturno per archi, Una piccola notte, di Mozart, e il concerto per archi dall’Estate di Vivaldi, amati rispettivamente dal padre di Miller e di Leon, testimone diretto del feroce delitto. L’abilità del regista appare palese anche dalla sapienza con cui guida i due bravi attori aiutandoli a rendere con vocalità, gesti, movimenti e mimica appropriati, un’ampia gamma di emozioni: rabbia, confusione, smarrimento, orrore, stanchezza, terrore, sconvolgimento,dolore, sorpresa, indignazione, disgusto,ecc. Le note di regia sottolineano che lo sforzo pienamente riuscito di Ovadia è stato “costruire una complessa partitura in forma musicale, le cui note, i fraseggi, le pause e le dinamiche” costituiscono “i movimenti intrapsichici dell’interpretazione, le reazioni, le titubanze, le messe in iscacco, le entrate in una suspence e le uscite, per entrare in una nuova tensione” per coinvolgere lo spettatore, rendendolo consapevole “di quale inferno l’essere umano possa essere capace di inventare contro il proprio simile”, prospettandogli così una possibilità di redenzione.
Roberto Trovato