Macerata Opera Festival 2020
Un Mozart allegro e un Verdi simpatico
Un Don Giovanni con la pistola e un Trovatore senza trillo
Un festival musicale che si rispetti, estivo per di più, ormai deve essere di tutto e di tutti, colto e leggero, professionale e amatoriale, dotto e divulgativo, con concerti d'ogni forma e d'ogni amenità (per dirla con Leporello che descrive a Elvira il catalogo donnesco del suo padron Giovanni), con conversazioni e chiacchierate di attori, scrittori, autori diversi. Non è detto che la musica d'arte ne sia sempre regina, da parte di chi la fa e di chi la racconta, ma la popolarità è assicurata e il Macerata opera Festival continua ad assicurare un contesto operistico così ricco e, perché no? così giovane. Due sole le opere, ma scelte con acume e coraggio: un'opera di Mozart, quindi un capolavoro ma certo non popolarissimo, e un'opera di Verdi, popolarissima sì ma altrettanto difficile. Don Giovanni, insomma, e Il Trovatore, quello in forma scenica e questo in forma di concerto. E #biancocoraggio è il titolo assegnato quest'anno alla manifestazione.
Sono molti i nodi che irretiscono Don Giovanni, dalla scelta dell'edizione alla possibile percezione del genere: Praga 1787 o Vienna 1788? commedia con elementi seri o tragedia con elementi comici? E sono insolubili, i nodi, perché la seconda versione aggiunge arie meravigliose e altre ne toglie, in modo che si finisca per accogliere tutto a rischio di squilibri (tre arie per donna Elvira sono invero "troppe"); e perché, se commedia era allora, in seguito l'opera sarebbe sembrata sempre più romantica e quindi seria. Tutto ciò complica la messinscena, che si trova davanti molta musica, anzi moltissimi pezzi, e un tono generale deve pur darlo. Per inciso, la storia del mito modernissimo (cioè non classico, non greco-romano) propenderebbe poi per un'altra soluzione: col permesso di una musica invero suprema, l'opera dovrebbe essere concepita quasi nello spirito della commedia dell'arte, con molte buffonate e alcune parentesi serie pressoché innocue, da burattini o quasi, ai fini di un sano divertimento e di un moralismo spicciolo anche se evidente.
Dal 18 luglio all'8 agosto la stagione di Macerata ha evocato uno spettacolo del festival Les Chorégies di Orange, adattandolo ovviamente al nuovo palcoscenico e alle esigenze della pandemia da Covid19. Regista e costumista era Davide Livermore, artista uso a spettacoli di maggior eloquenza come, noti a tutti, l'Attila e la Tosca con cui la Scala ha aperto le ultime stagioni. Per l'occasione l'enorme muraglia dello Sferisterio rimaneva pressoché nuda, con appena, nel mezzo, una costruzione di servizio per entrate e uscite e un'alta statua da Giulio Cesare o Commendatore. Però sul muro si alternavano sempre belle proiezioni, colorate (spesso rosse) e cangianti, di fantasia o anche fotografia, che in un baleno dissipavano il rischio della monotonia. Impostata su due velocissime automobili, una gialla per don Giovanni con Leporello e una nera per il Commendatore e seguaci, l'azione si commenta da sé: nulla a che fare con il percorso storico ed estetico, con il senso, lo stile, il gusto dell'opera (o di un'opera tradizionale qualsiasi), e anzi molto di già visto e quindi, purtroppo, né bello né originale. In tal contesto, Livermore è riuscito però a mobilitare la giovane compagnia di canto con efficienza e simpatia: tutti agili, pronti, scrupolosi, obbedienti, impegnati al massimo a guidare l'auto come a salirvi audacemente sopra, a sparare pistolettate come a tormentare o scaraventare via una certa sedia, gli interpreti hanno contribuito a dare omogeneità allo spettacolo. Che a parte certi spunti poco chiari è sembrato uno spettacolo d'ispirazione cinematografica o d'intonazione piccolo-borghese, senza mattane speciali (pure autorizzate dal genere comico) né rovelli alto-tragici. Il protagonista, tuttavia, ogni tanto si spremeva le meningi (sul serio, senza metafora, con le mani a stringere la testa) come se soffrisse insopportabilmente o addirittura rischiasse di impazzire per l'uccisione del Commendatore: un'idea che, sfruttata ulteriormente, poteva far propendere la concezione dello spettacolo verso una sorta di dramma vario sì, e anche divertente, ma soprattutto moderno, nevrotico, problematico, conflittuale. Poteva, ma allora avrebbe meglio lavorato sulla scena prefinale, dove mancava la Tafelmusik e tutto si svolgeva all'insegna di una mediocritas né tragico-romantica né buffonesco-marionettistica (quella "flussione", poi!).
La concertazione di Francesco Lanzillotta è stata molto accurata, permettendo o suggerendo ai cantanti alcune gradevoli variazioni delle riprese dei cantabili; e la direzione dell'Orchestra Filarmonica Marchigiana anche, nonostante qualche slittamento nella perigliosa ouverture. In linea con la visione di Livermore, inoltre, il maestro non ha dato molto spago alla terribilità di Commendatore, ai diavoli e alle fiamme. Martino Faggiani ha diretto il Coro Lirico Marchigiano con altrettanta attenzione alla lettera della partitura. Anche a cantarsi Don Giovanni è opera ambigua, bifronte: canto ardito per i personaggi seri, canto disinvolto per gli altri; e quindi ben accessibile ai giovani nel secondo versante, mica tanto nel primo. Sia don Giovanni che Leporello godono di una scrittura comica: Mattia Olivieri e Tommaso Barea hanno avuto facile risalto, per l'agilità delle giovani figure e la bontà di due voci l'una di baritono leggero e l'altra di basso cantante, e non di meno per l'affiatamento, consci del fatto che i due personaggi rappresentano lo stesso doppio di Chisciotte e Sancio, Faust e Mefistofele, fors'anche Wotan e Alberich. Canto comico anche nel Masetto di Davide Giangregorio, accattivante e caracollante, e nella Zerlina di Lavinia Bini, un filo di voce emesso senza macchia. Più ostico il coté serio: Karen Gardeazabal (donna Anna) non manca di voce ma di classe sì, Valentina Mastrangelo (donna Elvira) vale più nella seconda che nella prima ottava, Giovanni Sala (Ottavio) deve giocare soprattutto sull'eleganza e così ha risolto le sue arie divine, Antonio Di Matteo (Commendatore) non ha proprio la voce sinistra che dovrebbe avere il suo personaggio demoniaco.
Ed ecco Il trovatore, eseguito in forma di concerto. Male, si sente dire spesso, ché l'opera è teatro, azione, movimento. Non del tutto, bisogna precisare: l'opera è musica, e nella musica sta il vero dramma, nel canto deve stare la vera espressione drammatica. E quindi, soprattutto in tempi di noti disagi economico-organizzativi, anche la forma di concerto va bene (basta che non si dica forma "concertante", che è altro). Il trovatore è opera di repertorio, si sa, di immani tradizioni e fortune interpretative che possono sempre oscurare esecuzioni odierne: guai lasciarsene condizionare, e ogni incoraggiamento va a quel teatro, quel regista, quel tenore o soprano che vi si cimenta. Allo Sferisterio (25 luglio e 1 agosto) lo spettacolo era decorato dalle luci di Ludovico Gobbi e dalle immagini fotografiche di Ernesto Scarponi. Sempre sul podio della gagliarda orchestra marchigiana ha diretto Vincenzo Milletarì, con giusta enfasi (a volte eccessiva, specie se percussiva) e senso del teatro: nel finale secondo quella pausa prefinale, prima della ripresa di «Sei tu dal ciel disceso», così dilatata com'era dava ancora maggior risalto al precipizio di note seguente e terminante. Il "peso" vocale del quartetto solistico era fin troppo calcolato sul bilancino, ché nessuna voce equivaleva all'autentica vocalità verdiana. Veronica Simeoni (Azucena) non ha molto del mezzosoprano, e difatti nel grave manca o calca un po' platealmente, funzionando meglio nel terzo e nel quarto che nel secondo atto. Massimo Cavalletti (Luna) ha voce alquanto piatta e si riscatta con certi momenti di intensità espressiva come quando pronuncia il nome dell'amata Leonora con una bella messa di voce. Roberta Mantegna (Leonora) fatica nel grave e parrebbe soprano più pucciniano che verdiano, ma canta con correttezza, con interesse per la mezzavoce, ripetendo, come del resto i colleghi, le cabalette. E mentre Davide Giangregorio dimostra di saper svestire la simpatia di Masetto per vestire l'austerità di Ferrando, il protagonista è Luciano Ganci: il suo Manrico ha calibro solo lirico ma in acuto vanta il famoso "metallo", cioè quella nettezza, quello squillo, quella forza e tenuta che servono alla "pira" e non solo. Una prova felice, la sua, da limare un po' nell'intonazione, nelle famigerate quartine (pi-i-i-i-ra), nella conoscenza generale della parte. Una buona nota per la Ines di Fiammetta Tofoni, una comprimaria degna del primariato. Buonissima nota, infine, per il coro ancora preparato da Martino Faggiani con la collaborazione di Massimi Fiocchi Malaspina: il coro degli zingari ha canto bene, il coro dei soldati benissimo, con un entusiasmo quasi realistico, sempre decoroso e musicalissimo. Infine, nessun taglio ha nuociuto all'opera corrusca del fuoco e della vampa, cui viceversa avrebbe fatto un po' di bene qualche trillo in più. Ma Il trovatore ha una tale tradizione esecutiva da potersi permettere anche questo.
Piero Mioli