«Et si la culture n’était pas la recherche du temps perdu, mais la recherche du temps à venir?»
Con questa frase Olivier Py, direttore del Festival d’Avignon inizia la presentazione del suo 75° Festival (il suo penultimo).
Un incipit originale e promettente. Molti degli spettacoli presentati al Festival erano declinati al femminile e ciò è stato rilevato da più parti (le più diverse) quindi non pensati in un’ottica necessariamente femminista.
Registe, autrici e attrici hanno avuto l’occasione di brillare, far parlare di sé e prendere spazio. Un’altra osservazione da proporre è che questo Festival è arrivato dopo un grande momento di vuoto, di apnea si direbbe, quindi atteso. È stato un successo che ha sicuramente coinvolto lo stato d’animo di tutti i partecipanti (attori e spettatori) colmi di desiderio e di sorpresa. Alla «Cour d’honneur» la Cerisaie di A. Chekhov con la regia di Tiago Rodrigues che sarà alla testa del Festival a partire dal prossimo anno.
Adama Diop e Isabelle Huppert in "La Cerisaie". Foto Christophe Raynaud de Lage, Festival d'Avignon.
La «Cour d’honneur» è sempre una sfida. Tutti i registi e gli attori la temono: un grande spazio gravido di tante storie, basta ricordare quella del capostipite Jean Vilar, con Gérard Philippe et Jeanne Moreau.
Tiago Rodrigues ha scelto di riempire la scena con due filari di poltrone di teatro, proprio quelle della «Cour d’honneur», oggi accuratamente rinnovata. Evocando così in un certo senso l’attesa da parte degli attori e del regista delle reazioni della platea in un curioso gioco della parti.
La trama della Cerisaie è nota. La famiglia nobile e squattrinata che va definitivamente in rovina, vendendo la villa di famiglia i cui ciliegi che la caratterizzavano verranno implacabilmente rasi al suolo, facendo emergere il nuovo che avanza e che Chekhov guarda con tristezza poetica e una certa amara rassegnazione.
Qui sulla scena emergono i tre protagonisti: citiamo il fratello, Marcel Bozonet, che recita in maniera magistrale piena di sfumature che vanno dalla tristezza all’eccitazione e maneggiando felicemente una vis comica del tutto coerente al suo personaggio. Il servo Bakunine che diventerà il padrone del luogo è black, Adama Diop ha un suo posto ben preciso nel teatro francese e con la sua presenza e bravura è davvero illuminante nel personaggio: una scelta felice.
Infine Isabelle Huppert come Ljubov. Cosa resta da dire ancore di questo giovane «monumento» dello spettacolo? Che ancora una volta sa incarnare un personaggio difficilissimo e attraente per le attrici di tutte le epoche, con il suo stile e la sua griffe.
Citiamo la scena in cui la Huppert resta sola e rivolgendosi al pubblico e a se stessa rievoca la sua vita ora privilegiata ora sconsiderata, ora banale, ma sempre appassionata. È davvero un bel momento attoriale, l’artista riesce a trasmettere un sentimento di universalità come a dire che tutti, ma proprio tutti, abbiamo la nostra Cerisaie, come lei stessa ha dichiarato ai media francesi.
Cour d'honneur du Palais des papes. Foto Christophe Raynaud de Lage, Festival d'Avignon.
L’Hamlet à l’imperatif messo in scena dallo stesso Py è presentato sotto forma di feuilleton, a puntate. Il pubblico si schiera a mezzogiorno in punto ai due lati di una passerella all’ombra degli ulivi i cui rami quest’anno erano felicemente mossi da un venticello propizio.
Assistiamo alla puntata più lunga «procrastination» dove attori conosciuti e allievi del Conservatorio si mescolano, recitando le vicende di Amleto con piglio, sensualità, freschezza e voglia di stare in scena.
Il pubblico incantato ha visto snodarsi scene della tragedia, dove citazioni colte tratte da opere di Hegel, Freud e Lacan (fra gli altri) erano pronunciate come se piovesse.
"Hamlet à l'imperatif!", regia Olivier Py. Foto Christophe Raynaud de Lage, Festival d'Avignon.
Ma oplà il miracolo è avvenuto. Nessuna sensazione di fittizio, appiccicato o civettosamente colto. Tali citazioni paiono appropriate, integrate alla recitazione, all’espressività degli attori che gioiscono, soffrono, insegnano e sembrano maliziosamente sorvegliarci. Lo spunto di questo feuilleton è nella famosa battuta di Amleto quando dice: Qui est là? Olivier Py sembra porre la questione al teatro nel senso del “ci sei o non ci sei”. La risposta, per quello che possiamo dire in quel momento, è affermativa.
Dall’atmosfera piena di interrogativi, aerea, quasi gioiosa del giardino Ceccano di Olivier Py, partiamo alla volta di Villeneuve, a pochi chilometri da Avignon, attraversando il ponte, non evidentemente quello sospeso e mozzato.
La maestosa, impressionante Chartreuse accoglie ormai da tempo un tipo di spettacoli che sono o appaiono pepite anche per il viaggio che si compie per raggiungerla. Questa volta ne è valsa la pena. Eccoci quindi nella sala della Chartreuse che non è molto grande. Qui è di scena un assolo un po’ claustrofobico di Marie N’diaye, protagonista Nicole Garcia diretta da suo figlio Frédéric Belier Garcia. Grande performance di questa affascinante attrice. Felpata, elegante, la vediamo attraversare il luogo scenico che in primo tempo rappresenta l’entrata di un palazzo con tanto di cassette della posta. E qui inizia il dramma tutto interiore, nascosto, di Nicole che piano piano parla, racconta passeggiando, passeggiando senza osare salire per raggiungere il proprio appartamento.
Sì, perché proprio a casa sua ella teme di incontrare i genitori, i loro fantasmi, o meglio il fantasma di una sua ex allieva che si è tolta la vita.
Genitori che la credono colpevole e vogliono interrogala, sottoporla a un processo. L’attrice evoca a sprazzi il rapporto di complicità con la sua allieva e con la sua stessa vita di donna che si sposta da una città all’altra per lavoro. Vita banale, vita ordinaria? non si direbbe, in tutto quello che dice Garcia, i silenzi, le pause, i cambiamenti di tono sembrano suggerire qualcosa di più nascosto. La riprovazione di alcuni? Anche questa parrebbe cosa ordinaria. La scrittura stessa dell’autrice, così particolare, non solo per la scelta dei suoi soggetti ma per il suo stile, è felicemente criptica. Un grande trionfo per Nicole Garcias è la N’Diaye. Pubblico catturato e critica convinta.
All’Opéra Confluence, altro spazio scenico relativamente nuovo che ci fa spostare dal centro d’Avignon, assistiamo in prima mondiale all’ultima fatica di Angélica Liddell, la stupefacente regista spagnola che si è affermata ampiamente oltre i confini del suo paese ed è stata spesso paragonata a Romeo Castellucci, per il tratto provocatorio delle sue regie che non esitano a mostrare nudi maschili e femminili belli, deformi o storpiati nel dipanarsi delle sue messe in scena che quasi sempre colpiscono, a volte centrando il bersaglio per la violenza talvolta ironicamente giusta. Funebremente e gioiosamente mira a buttarci in faccia il sentimento di una società che rifugge la complessità ed esalta la scemenza priva del sacro e dei suoi riti. Tutto ciò declinato al femminile, è ben evidente. Ma la Liddell mette di fronte a lei, a noi, l’uomo come interlucutore importantissimo (come in Padre visto al Théâtre de la Colline). Qui si tratta del torero Juan Belmonte, originario del quartiere di Siviglia che è considerato come il creatore del «torero spirituale» la cui filosofia è «si torera come si è». Egli è, per l’appunto, ossessionato dalla morte di Joselito e finirà per suicidarsi.
In Libestom la ricerca della Liddell ingloba la vicenda torera di Belmonte incarnando il femminile che desidera la penetrazione fallica sanguinosa del toro e «al tempo stesso torero maschio che ha una relazione fallica e sanguinosa con il pubblico» come lei stessa afferma.
La Liddell è coltissima, oltre che furiosamente artista, quindi cita ora avvalendosene, ore criticandoli, filosofi e poeti (da Derrida à Neruda) fino ai più noti poeti francesi.
Il pubblico, come la critica, ora la esalta ora la giudica più che severamente, accusandola di ripetersi, di scandalizzare in maniera gratuita cosi come succede a volte a Castellucci. Libestom alla rappresentazione cui abbiamo assistito ha suscitato grida, acclamazioni, urli di sdegno. Ai ringraziamenti la Liddell sorrideva. Si esce dal teatro non indifferenti, è chiaro, colpiti dalla varietà di emozioni e di reazioni di un pubblico che è sembrato vivente davanti a un teatro che lo è altrettanto.
Stessa rilevazione si può fare per questo Festival che non è stato un Festival qualunque.