ideazione e regia Enrico Casagrande, Daniela Nicolò
con Silvia Calderoni, Ilenia Caleo, Glen Çaçi, Fortunato Leccese, Paola Stella Minni
e con i partecipanti al laboratorio
drammaturgia Daniela Nicolò
suono e video Andrea Gallo, Alessio Spirli (Aqua Micans Group), assistente alla regia Nerina Cocchi
produzione Motus
in coproduzione con Festival TransAmériques (Montréal), Théâtre National de Bretagne (Rennes), Parc de La Villette (Paris), la Comédie de Reims - Scène d'Europe, Kunstencentrum Vooruit (Gent), La Filature - Scène Nationale (Mulhouse), Festival delle Colline Torinesi (Torino), Associazione Culturale dello Scompiglio (Vorno), Centrale Fies - Drodesera Festival (Dro), L'Arboreto - Teatro Dimora (Mondaino)
con il supporto di ERT - Emilia Romagna Teatro Fondazione, AMAT, La Mama New York, Provincia di Rimini, Regione Emilia-Romagna, Mibac
in collaborazione con Teatro Valle Occupato (Roma), Angelo Mai Occupato (Roma), Macao (Milano), S.a.L.E. Docks (Venezia)
Biennale Teatro, Venezia 2013 - 4 agosto
"Qual è il primo rifugio dopo un uragano, un naufragio o un conflitto bellico?
La risposta più immediata è sata: una coperta. E la coperta è anche l'oggetto più semplice da raccogliere e re-distribuire nelle città..."
Una coperta. Per ogni spettatore. Questo l'invito che la compagnia ha rivolto al pubblico. Partendo dal presupposto che sia necessario ripartire dall'essenziale per ricostruirsi, Motus allestisce il suo ultimo lavoro in uno spazio bianco, vuoto, raso al suolo dall'ultima tempesta... un luogo distrutto da cui ricominciare a creare. Unico elemento di supporto: la coperta appunto. Una moltitudine di coperte che ogni partecipante al "rito" avrebbe donato alla scena per la durata dello spettacolo per poi vederla regalata agli enti di beneficenza locali.
Coperte che vivono, creano un linguaggio poetico di impatto visivo: evocano l'irrequietezza del mare, riproducono il frastuono dei tuoni, si uniscono a formare uno scoglio a cui aggrapparsi, una tenda in cui ripararsi, un trono su cui ergersi, un mantello con cui svelarsi, un bozzolo in cui trasformarsi. Coperte che testimoniano anche una precisa scelta politica: un contestare lo spreco di denaro per la produzione di scenografie maestose, destinate a diventare detriti in qualche magazzino. Coperte che diventano simbolo esplicito del primo aiuto offerto a chi approda sulle nostre terre dopo una fuga per mare.
"Nella Tempesta" comprende più piani, come già nei lavori precedenti, più strati in cui scavare e ritrovarsi: si parte dal testo shakespeariano, sviscerando in particolare i rapporti di potere tra Prospero, Ariel e Calibano, si passa per la rilettura post-coloniale che ne fece Aimé Césaire nel '68 fino ad arrivare a chiari riferimenti all'uragano Sandy (di cui la stessa compagnia è stata vittima), alla tempesta economica che ci scuote incessantemente di questi tempi, agli sbarchi a Lampedusa e alle recenti turbolenze rivoluzionarie degli Indignados, di Occupy Wall Street e dei movimenti Nord Africani e brasiliani.
In un continuo vestire e svestire i panni dei personaggi de 'La tempesta', i cinque interpreti entrano ed escono dal testo shakespeariano rendendosi protagonisti di qualsiasi altra possibile tempesta. Passaggi a volte poco netti, amalgamati in un piano quasi quotidiano in cui si perdono le parole di Shakespeare e soprattutto la grandezza dei suoi personaggi. Ma il gioco metateatrale regge, e chi assiste è sempre coinvolto, interrogato direttamente. Silvia Calderoni è un'Ariel tormentata che cerca nel passaggio tra tutte queste 'tempeste possibili' gli elementi necessari per scatenarne di nuove, perché 'generare vento' è l'unico modo per non subirlo, l'unico modo per liberarsi e liberare, per spostare e cambiare punto di vista, come accade al pubblico esortato nel finale a lasciare le proprie poltrone-scoglio e a gettarsi nella scena prendendo finalmente una posizione attiva.
D.G.