con Silvia Costa
e con i partecipanti al laboratorio
tecnica del suono Matteo Braglia
produzione Socìetas Raffaello Sanzio, Théâtre de la Ville-Paris, Festival d'Automne
in collaborazione con la Biennale di Venezia
Biennale Teatro, Venezia 2013 - 9 agosto
Direttore della Biennale Teatro nel 2005, quest'anno Romeo Castellucci torna a Venezia per ritirare il Leone d'Oro alla Carriera 2013 che la stessa Biennale gli tributa e per immergersi con una ventina di allievi nelle acque laboratori ali da cui emerge potente questa affascinante sintesi: Natura e origine della mente.
Partendo da Hawthorne, passando per Holderlin, Castellucci indaga la forza delle parole, la maggiore intensità che emanano rispetto agli altri segni e l'azione a cui portano inevitabilmente. Agire è parlare e la poesia di Holderlin è una tale ricerca disperata della bellezza da segnare inconfondibilmente il percorso che Castellucci ci propone di inseguire.
Il varco per entrare in questo spazio altro è la sagoma di una donna, che si staglia nera su una parete bianca. Ci passiamo attraverso e ci troviamo in una dimensione quasi onirica: un cane si aggira miagolando mentre una donna (Silvia Costa) è appesa ad un filo con un dito e ci guarda dall'alto. Un'immagine straordinaria nella sua violenza inespressa e nella sua inquietante ambiguità: quella figura sopra le nostre teste è un corpo che ha preso il volo, che sta per cadere, che è rimasto incastrato o che sta per scendere fra di noi? E fino a quando potrà resistere?
Poi un grido, e le parole di Holderlin pronunciate da esseri confusi tra noi, i cui corpi differiscono dai nostri. Un dettaglio, impercettibile, che a molti sfugge ma che la mente coglie e avverte come disturbante: un sesto dito, un contorcersi degli arti superiori in modo innaturale. La mente registra, si fa attraversare dalle parole, ma non è in grado di razionalizzare, non ne ha il tempo: un'altra voce di alza a distogliere l'attenzione.
Infine quegli esseri, umani ma non troppo, portatori di una sacralità primordiale si distendono a terra esibendo la moltiplicazione dei loro arti inferiori da cui poi si distaccano intonando un canto. Spariscono nel buio del ventre di quella sagoma femminile che ci ha partoriti e ricompaiono per riempirne i contorni con i loro corpi nudi assemblati, fusi l'uno con l'altro.
L'immagine finale: una donna tra loro comincia a fluttuare tra i confini di quel sembiante femminile, corpo che pulsa dentro a un altro corpo. L'emblema della creazione. Un ricordo di una forza inaspettata che si imprime nella pellicola vergine della nostra mente e ci conduce in un territorio ignoto. A questo aspira Castellucci: non crea immagini di cui essere spettatori ma suggerisce idee che ci donano la consapevolezza di essere spettatori, idee che si nutrono del nostro vissuto e che grazie a quello ci scuotono con diversi gradi di intensità.
D.G.