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Manifestazioni Verghiane 2014. "Cavalleria rusticana" di Giovanni Verga a Vizzini secondo Walter Manfré.- di Gigi Giacobbe

Lucia Fossi (Santuzza) e Liborio Natali (Turiddu). Foto Enrico Grieco Lucia Fossi (Santuzza) e Liborio Natali (Turiddu). Foto Enrico Grieco

Quando Giovanni Verga scrive nel 1884 Cavalleria rusticana, Sigmund Freud ha 28 anni e i suoi studi sull'isteria verranno resi pubblici soltanto 8 anni dopo, nel 1892, non pensando minimamente di annoverare quella storia d'amore e di coltello come un esempio per quella "nuova" patologia. A distanza adesso di più d'un secolo il regista Walter Manfrè, coadiuvato invero dalla psichiatra catanese Liliana Gandolfo, vi trova elementi che possono ricondurre le perturbanti vicende del dramma a ciò che i media diffondono ormai col brutto termine di femminicidio. Individuando in particolare nel personaggio di Santuzza colei che innesca il meccanismo omicida nei confronti di Turiddu, quando confessa ad Alfio che la moglie Lola gli adorna la casa in malo modo. Una frase che scoppia nella testa di Alfio come una bomba. In quel momento è come se Santuzza avesse armato la mano di Alfio, il quale, secondo il codice d'onore di quel tempo, non può fare a meno di uccidere il rivale in un duello rusticano. Lo spettacolo rappresentato nello spazio antistante la chiesetta di San Michele, nel quartiere ebraico di Vizzini (luogo natio del Verga, celebrato nelle giornate Verghiane 2014), già di per sé una scenografia naturale con tutti quei balconi e balconcini disposti a varie altezze, inizia non con l'intermezzo dolcissimo di Mascagni ma con un'ouverture di musica elettronica composta da Gioacchino Papa. Sulla scena, giusto a qualche metro dai tantissimi spettatori assiepati intorno, un tavolino con una radio per la psicoterapeuta Carla Cassola in camice bianco, pure nei panni della gnà Nunzia, madre di Turiddu, poi quasi sempre accanto ad un lettino d'ospedale a cercare di rincuorare la paziente Santuzza della delirante Lucia Fossi, in preda ai rimorsi, alla gelosia, allo stalking nei confronti del suo Turiddu, a tutto quello che ha causato il suo "mal d'amore". Nel bel lavoro di regia di Manfrè, per lui quasi terapeutico per essere riuscito con la psicoanalisi a sconfiggere i suoi fantasmi, la scena appare illuminata quasi dipinta di azzurro, di giallo e di rosso, onde caratterizzare umori e momenti dell'anima dei vari protagonisti nel giorno di Pasqua. I fatti sono già accaduti e le varie sequenze del dramma, che il pubblico vede partecipando in silenzio tombale, sono quelle che la mente sconvolta e malata di Santuzza partorisce in flash-back da quel lettino in maniera amplificata, dissonante, pure ironica e grottesca. Così l'immagine della Lola di Marina La Placa dal trucco pesante e in lungo abito nero, appare come una sorridente bambola in vetrina o su un carillon, avvolta da un ampio tulle bordeaux sul viso: l'Alfio di Orazio Alba, dai lunghi capelli biondi anellati, gilè nero con passamanerie dorata sui bordi, stivali e pantaloni neri su camicia bianca, simile ad un pupo, si esprime in dialetto palermitano con le cadenze vocali e sincopate e altisonanti del puparo Mimmo Cuticchio, per giunta imbracato da un trio di "talebani" che lo prendono a braccetto sino a fargli compiere l'annunciato delitto. Il Turiddu di Liborio Natali, agghindato secondo iconografia sicula, è l'unico assieme a Santuzza a vivere l'impossibile storia d'amore dai toni accesi e gridati, secondo gli stilemi dello psicodramma in stile Moreno. Spettacolo suggestivo, ben recitato da tutti i protagonisti che in chiusura udranno la stringata notizia dell'omicidio da quella radio sul tavolo diffusa come uno dei tanti fatti di sangue che possono accadere a Vizzini così come in qualunque altra parte del mondo.-

Ultima modifica il Domenica, 14 Settembre 2014 17:52

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