CAINA
soggetto e sceneggiatura Stefano Amatucci e Davide Morganti
con Luisa Amatucci, Isa Danieli, Helmi Dridi, Nadia Kibout, Mario Porfito, Gabriele Saurio
prodotta da Movieland
fotografia Roberta Allegrini e Rocco Marra
montaggio Paco Centomani
scenografia Massimiliano Forlenza
regia Stefano Amatucci
Italia 2016
Grazie a quello che ormai oggi sta vivendo l'Italia, nelle mani di un nuovo governo che dal punto di vista "etnico" si sta regolando con metodi quasi analoghi a quelli attuati circa ottant'anni fa in Italia, non sarebbe male se qualche connazionale, politici inclusi, vivesse in prima persona uno dei terribili sogni vissuto da Vincenza/Caina (Luisa Amatucci); in particolare il sogno raccontato in una delle scene più suggestive di questo primo lungometraggio del regista partenopeo Stefano Amatucci. La donna in questione, protagonista del film, ad un certo punto, sogna di percorrere la spiaggia, per raggiungere le rilassanti acque del mare, in un momento silenzioso e tranquillo; giunta in acqua s'immerge tra i flutti, galleggiando come morta per sentire il cullante e rigenerante dondolio del mare ... ma ecco che tutt'intorno iniziano ad emergere cadaveri di migranti, sempre più, in modo soffocante, e soffocando addirittura il mare, e lo spettatore che assiste. Proprio così: migranti morti. Anzi, meglio ancora: essere umani morti. Perché è proprio sul traffico di esseri umani morti (ma si! In particolare proprio "migranti" dall'Africa) che è basato il film in questione.
Tratto dall'omonimo libro di Davide Morganti, che insieme ad Amatucci ha sceneggiato la trama, il film racconta la storia di Vincenza, che, esattamente come lo stesso Morganti descrive, "ha un animo xenofobo, violento, e un odio viscerale per tutto ciò che non appartiene alla sua lingua e alla sua pelle". Questa è tecnicamente una "trovacadaveri", colei cioè che cerca e recupera sulle rive del Mediterraneo migranti morti annegati per rivenderli per pochi soldi ad un centro di smaltimento statale, diretto in questo caso dalla signora Ziviello (Isa Danieli), che li scioglie poi nel cemento. Macabra prospettiva, come appunto di toni amari e neri è tutto il film di Amatucci.
Questo inizia con una scena che riporta vagamente all'ultima fatica di Eduardo, la traduzione in napoletano seicentesco, per una compagnia di burattini e con la sua voce, de "La Tempesta" di W. Shakespeare; ma non perché sia altisonante l'interpretazione, tutt'altro. Ma per la costruzione proprio della scena d'apertura, grazie alla lingua napoletana, al mare e alla frenesia di un recupero, come di relitti in una tempesta, che vede la protagonista atta a tirare sulla scogliera, febbrilmente, un cadavere dal mare. Da qui in poi inizia una storia ricca di contraddittorio, atta a far riflettere lo spettatore; ben articolata, e con un motivo di scontro chiaro, come la cruda "competizione" tra "trovacadaveri" autorizzati e abusivi; poi un pizzico di amore e quel tanto di racket che intriga ... ma che comunque lascia il pubblico con un forte amaro in bocca, non dovuto all'evoluzione drammaturgica o dalla caratteristica fotografica, ma dall'intendere la reale uguaglianza che accomuna ogni essere umano nell'essere proprio "uomo" in genere, con istinti, sofferenze e ambiguità.
Dopo che lo spettatore colto ha odiato Caina per i suoi atteggiamenti nei confronti del pentito trovacadaveri abusivo, il tunisino Nahiri (Helmi Dridi), poi suo assistente, si ritrova, per esempio, a riformulare il proprio pensiero per il risvolto che Nahiri stesso provoca alla storia. Dopo che Caina non ha mai disdegnato truci parole e truci atteggiamenti nei confronti di "merce negra" (perché come tale tratta i cadaveri degli annegati, senza degna sepoltura) riceverà e sconterà in fine tutta la rabbia di questa triste realtà da parte dello stesso Nahiri quando, tra i cadaveri pronti per essere venduti, troverà proprio suo fratello. La ferma accusa che quindi Caina volge nei confronti di questi "esseri" (per lei mai uguali ad un umano, ma degni solo di essere merce) si concretizza nella rabbia di Nahiri. Succube nuovamente della sua cattiveria, la afferra, la malmena e, a quanto pare, la scioglie nel cemento, ponendola allo stesso livello di tanta sua merce pregressa, già venduta e sciolta. "Allora sono davvero cattivi i negri" verrebbe in mente a chi facilmente trae conclusioni "ha ammazzato una donna"; "sì" si dovrebbe rispondere in modo razionale, "esattamente come farebbe un italiano che vive costantemente la stessa pesante tragedia, la stessa angoscia, lo stesso soffocamento".
"Uomini come merce", questa è la cruda realtà che Amatucci ci sbatte in faccia. Uomini che però, una volta morti e venduti, delegano alla propria anima ad andare a torturare i loro carnefici, tormentandoli nel profondo, nella quiete. Dietro tutto questo aleggia, tanto per cambiare, l'"antidolorifico" per l'anima più utilizzato e a buon mercato di sempre: la chiesa, la religione, la spiritualità, la preghiera; per mezzo di un prete o di un rosario.
Moderna e antica allo stesso tempo l'interpretazione delle due attrici protagoniste: Luisa Amatucci e Isa Danieli; coadiuvata dal magnifico napoletano, pregio di un popolo dalla vera e propria lingua che dai tempi più antichi rende ogni arte (teatrale, musicale o cinematografica che sia) sempre più reale, vera e sanguigna. Assolutamente potente la prima attrice, la Amatucci, che grazie alla sua potenza, al suo volto, alla sua bravura, ricorda la tenacia e la forza tipica delle donne/personaggio napoletane alla "Filumena Marturano", pronta a combattere e a difendere il suo prodotto e la sua idea fino alla morte. Classica e ormai indiscutibile invece la bravura della grande Isa Danieli, monumento ormai di Napoli che ci regala un personaggio fastidioso e ripugnate quanto basta, grazie alla iniquità del suo compito in contrasto al rosario che sgrana prima di addormentarsi. Troppo "tirata" invece la parte di Gabriele Saurino nel ruolo dell'assassino trovacadaveri abusivo Taurul; palesemente forzata per via, forse, di un'etnia che anagraficamente non gli appartiene, e che ovviamente interpreta; lo conduce però a mostrare un metodo di recitazione, certo moderna, ma vista e rivista, che spesso fa più male che bene.
Che per Amatucci sia la prima esperienza nel dirigere un lungometraggio si nota davvero in rari momenti: la composizione recitativa e la prolissità di poche scene sminuiscono la potenza della sceneggiatura, sbandano il ritmo di esecuzione e, di conseguenza, sfaldano la bellezza narrativa e visionaria, per esempio, della fotografia, tanto affascinante quest'ultima da ottenere un premio all'Ischia Film Festival. Per il resto questa modesta produzione può competere tranquillamente con le grandi case cinematografiche che in Italia continuano a sbattere su sceneggiature mosce e scontate, rette commercialmente solo da soliti volti noti. "Caina" è ancora in giro per i cinema italiani, vale la pena cercarla.
In fine possiamo dire che l'opera di Amatucci evidentemente dovrebbe attenuare quell'odio viscerale, e sempre più montante, che parecchi italiani oggi nutrono nei confronti di chi fugge dalla propria terra per la vita; con la sbagliata consapevolezza che questi vengano qui per toglierci il pane dalla bocca e il lavoro dalle mani. Cosa che i governi italiani hanno già fatto meravigliosamente in autonomia. "Caina" ottiene invece di più, un risultato ancor più peggiore e crudo: fa ben intendere quanto la razza umana è unica e uguale in tutto il mondo, con pregi e difetti, istintivi o premeditati che siano. Chi è disposto a rubare, ad ammazzare, ad adirarsi o a calmarsi, a tollerare o a non tollerare, lo fa perché lo vuole fare. E non, come qualcuno vuol far credere, perché appartiene ad una particolare etnia.
Valerio Manisi