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(CINEMA) - "Il grande spirito" di Sergio Rubini

Sergio Rubini e Rocco Papaleo in "Il grande spirito" di Sergio Rubini Sergio Rubini e Rocco Papaleo in "Il grande spirito" di Sergio Rubini

"Il grande spirito" di Sergio Rubini
con Rocco Papaleo, Sergio Rubini, Ivana Lotito
Bianca Guaccero e Geno Diana

Scritto da Carla Cavalluzzi, Sergio Rubini e Angelo Pasquini
Fotografia di Michele D'Attanasio
Musiche di Ludovico Einaudi

La terra è malata. Le popolazioni stanno morendo. Dove una volta "stava pieno di praterie e bisonti", ora vi è l''industria assassina di Taranto. Un'immagine rarefatta, sporca e cruda, che non lascia più spazio al "grande spirito" tanto idolatrato da Renato, soprannominato "Cervo Nero" (Papaleo), appartenere, così come afferma convintamente, alla tribù dei Sioux.

Sergio Rubini, in questa sua ultima e riuscitissima fatica cinematografica, "Il grande spirito", ci regala una pellicola particolarissima, con una storia totalmente priva di una morale ben precisa, ma che nella sua immagine generale picchia davvero forte in volto; creando così un quadro dettagliato di una società ormai povera, disperata e abbandonata.

Tonino (Rubini), detto "Barboncino", ladruncolo di mezza età, abbastanza trasandato, fallito e ormai privo della stima dei suoi "compagni d'armi", coglie l'attimo durante una rapina per piantarli in asso, scappando sui tetti di Taranto, con un borsone carico di denaro. Saltando da un tetto all'altro, e scansando più di una volta le pistolettate che gli indirizzano gli amici infuriati, viene salvato ad un certo punto da un particolare personaggio, un convinto membro della tribù dei Sioux: Renato, detto "Cervo Nero". Questi afferma che l'arrivo di Tonino nel suo terrazzo rappresenta la rivelazione di ciò che il Grande Spirito gli ha preannunciato: "l'arrivo dell'uomo del destino". Senza dare troppo peso al suo "salvatore", Tonino decide di ignorarlo, proseguendo così la sua fuga. Mentre tenta di attraversare un cantiere, cade rovinosamente, sfracellandosi una gamba e perdendo il borsone sotto una montagna di brecciolino. Sarà nuovamente Cervo Nero, abile nell'attraversare terrazze e impalcature, a salvargli la vita, curargli la gamba con metodi rudimentali, e ... recuperargli il borsone. Da questo momento in poi tra i due nasce un particolare sodalizio, più utile a Tonino che a Renato, che tenta in tutti i modi di servirsi del Sioux per recuperare lo zaino. Senza mai sdegnarsi di sbeffeggiarlo, Barboncino, grazie al modo di vivere di Renato, scoprirà le diverse e tristi realtà che orbitano intorno al povero e raggirato disabile. Capirà soprattutto quanto, nonostante l'evidenza di svariate tristi realtà, il Grande Spirito, che tanto colmava il cuore di Renato, è celato anche in un animo menefreghista ed avido come il suo.

Il "Grande Spirito" è un film innanzitutto perfettamente diretto, che accompagna lo spettatore in tutte le sue vicende con chiarezza e rapidità, nonostante la trama sia abbastanza articolata. Il tutto è coadiuvato dalla magistrale interpretazione dei due protagonisti: Sergio Rubini e Rocco Papaleo, che non rappresentano una vera e propria "coppia". Anzi: è il loro continuo distacco che li avvalora. Tra i due, infatti, una reale complicità non nascerà mai. Solo rare forme di "comprensione" ... o meglio: apprensione. E quasi tutte da parte dell'amaro Tonino che con diversi fini le elabora. Renato ha già, per conto suo, un cuore grande.

A dare tono e forza alla pellicola è la parlata dialettale, spesso tradotta dai sottotitoli, che sporca e rende ancor più affascinante il film; particolare questo che da sempre ha reso grande il cinema italiano, dal neorealismo ad oggi. Quando s'è raccontata con toni e voci popolane una fiaba, seppur nera come "il Grande Spirito", la cadenza dialettale, che ha contribuito a rendere grandi pellicole come "Roma città aperta", "Guardie e ladri" o "Matrimonio all'italiana" (per esempio), è sempre stata necessaria, vincente, definitiva. È sempre stata quella fondamentale particolarità che ha fatto avvertire ad ogni spettatore il vero sapore e il verso sentimento della storia.

Eccellente in questo film è Papaleo, che sfodera forse la sua migliore interpretazione in ruolo dalla rara battuta comica, ma dalla tragicità immensa. Egli rappresenta la realtà degli emarginati, incompresi e malati; celata nei vicoli, nelle case, nelle stanze sporche, al buio e ... sulle terrazze. Coloro che abbiamo intorno e che spesso non focalizziamo, o facciamo finta di non vedere. In alcuni casi sfruttiamo. La sua performance e assolutamente convincente, tenera e a tratti commovente, in netto contrasto con la figura aspra, approfittatrice e strafottente che nel contempo crea il bravissimo Rubini con Barboncino.

Trovata geniale del film, messa in evidenza e impreziosita da un'attenta scenografia e fotografia, è la scelta di girare sui tetti. Sui tetti di Taranto precisamente (certamente e prevalentemente ai Tamburi, alle soglie di quella che era l'Ilva, ora ArcelorMittal). Per rendere tutto il più convincente possibile si gira proprio a Taranto, città dilaniata dal mostro industriale, che la infetta e ammazza. Qui Rubini trova il suo perfetto appoggio, che lo aiuta a sceneggiare una storia, come dicevamo prima, totalmente priva di una morale ben precisa, ma che sbatte in viso a chi assiste una società malata, prostituita, isolata, dimenticata, sporca e trasandata; rassegnata alla potenza economica di chi infetta dall'alto con agiatezza, da quell'altezza che non è mai abbastanza, nemmeno dai tetti più alti dei Tamburi, dove passano i gabbiani che parlano con Cervo Nero ... nonostante al di sotto viva l'essere uomo dimenticato, che spera continuamente nella salvezza da parte del Grande Spirito.

Valerio Manisi

Ultima modifica il Sabato, 18 Maggio 2019 09:01

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