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(CINEMA) - "L'Ufficiale e la Spia" di Roman Polanski. L'affaire Dreyfus non è l'affaire Polansky

"L'Ufficiale e la Spia" di Roman Polanski "L'Ufficiale e la Spia" di Roman Polanski

L'Ufficiale e la Spia (J'Accuse)
di Roman Polanski
Con Jean Dujardin, Louis Garrel, 
Emmanuelle Seigner, Grégory Gadebois
Francia – Italia 2019

L'affaire Dreyfus non è l'affaire Polansky

Francia 1894, il maggiore Alfred Dreyfus (Garrel), ebreo alsaziano, accusato di tradimento e spionaggio viene degradato e condannato all'isolamento sull'Isola del Diavolo. Un anno dopo il suo ex-superiore, il maggiore Jacques Picquart (Dujardin), ottimo militare con qualche pregiudizio antisemita, viene nominato capo della sezione dell'Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore. Arrivato nella sua nuova sede, vede che gli uffici sono in pessime condizioni, sporchi ed impolverati e che la disciplina e la solerzia degli addetti sono assai carenti; in particolare il suo comandante in seconda, il maggiore Henry (Gadebois) – forse irritato per non essere stato lui promosso a quel ruolo – è ostile e sfuggente, in particolare, in relazione ad un carteggio, sul quale sta indagando, relativo ai rapporti del maggiore Esterhazy (Laurent Natella) con i servizi segreti tedeschi. Picquart decide di avocare a se l'indagine e così scopre che la grafia del sospettato è identica a quella del borderò che era stato il principale elemento di accusa contro Dreyfus. Per maggior sicurezza si rivolge (senza però rivelare le fonti dei fogli che gli sottopone) al criminologo e grafologo Bertillon (Mathieu Amalric) – che al processo aveva definito la grafia del documento come appartenente a Dreyfus ma da lui stesso falsificata per depistare eventuali sospetti- e questi deve riconoscere che la scrittura di Esterhazy è identica a quella del borderò. Picquart si rivolge ai propri superiori perché sia riaperto il processo ma ottiene un diniego: al tribunale di allora, gli viene detto, era stata presentata un'ulteriore prova (alla quale – per ragioni di sicurezza nazionale – l'imputato e i suoi difensori non avevano avuto accesso) che lo inchiodava. Continuando a cercare tra le carte di Henry, Picquart trova quel dossier e vede che è, in pratica, la lettera di un complice italiano di Esterhazy che, ad un certo punto dice "quella carogna di D.". A questo punto, lui insiste ma, stavolta i suoi superiori gli leggono – senza fargliela vedere – una lettera nella quale viene fatto a chiare lettere il nome di Dreyfus. Lui viene mandato in una lunga ed inutile missione all'estero e Henry messo al suo posto. Al ritorno, è ancora intenzionato a chiedere giustizia ma un giornale pubblica uno dei documenti ai quali solo lui (ed Henry) hanno accesso; lui viene recluso in una fortezza (mantenendo i gradi) ma il marito (Luca Barbareschi) della sua amante, Pauline Monnier (Segnier), un alto funzionario governativo, viene informato della loro relazione e reagisce cacciandola di casa e precludendole la possibilità di vedere le figlie. Picquart, aiutato dalla amico avvocato Leblois (Vincent Perec), aveva incontrato l'editore politico Clemeceau (Gerard Chaillou) e lo scrittore Emile Zola (Andrè Marcon) e questi – sul giornale L'Aurore edito da Clemeceau – farà uscire il famoso articolo, dal titolo J'accuse, nel quale rivelava tutto il complotto, mentre Esterhazy era stato, in sordina, processato e assolto. Si apre un procedimento a carico di Zola, che è difeso dal bravissimo avvocato Labori (Melville Poupaud), con tutto lo Stato Maggiore schierato minacciosamente in prima fila ed è subito chiaro da che parte stia il giudice Delegorgue (Bruno Raffelli). Picquat, interrogato, dice la sua verità, interrotto da Henry che lo accusa di falso, provocando una sfida a duello. Zola, tra l'entusiasmo degli alti ufficiali presenti, viene condannato e anche per Picquart si aprono le porte del carcere. Prima però aveva avuto luogo il duello e Henry era stato ferito e, qualche tempo dopo, aveva confessato di essere lui l'autore della lettera che incolpava esplicitamente Dreyfus per poi suicidarsi in prigione. Picquart viene riabilitato e Dreyfus viene richiamato a Parigi per un nuovo processo ma Labori, prima dell'udienza definitiva, cade vittima di un attentato e il dibattimento si chiude, quasi salomonicamente, con una condanna attenuata da cervellotiche attenuanti generiche. Pochi anni dopo il Governo concede la grazia a Dreyfus e Picquart cerca di convincerlo a non accettarla perché si fatta luce sulla sua innocenza ma lui, stanco e sfiduciato, accetta. Pochi anni dopo otterrà l'assoluzione piena e il reintegro nei gradi precedenti. Nel 1907 lui va da Picquart, ora generale e Ministro della Guerra, per chiedere che gli vengano riconosciuta l'anzianità ingiustamente persa negli anni della condanna ma Picquart gli spiega che il clima politico non gli consente di prendere un tale provvedimento. Sarà il loro ultimo incontro.
Un film di Polanski è sempre un avvenimento cinematografico e L'ufficiale e la spia non è certo da meno. Credo, in premessa, che sia il caso di sgombrare il campo da banali riferimenti ai casi personali del regista, se non per sottolineare la conformistica mediocrità dell'uscita della dimenticabile Presidente della Giuria dell'ultima Biennale di Venezia che ha, nei fatti, negato all'opera il meritatissimo massimo premio (si è arrivati al compromesso di un Gran Premio della Giuria). L' "affare Dreyfus" è stato una forte fonte di ispirazione, lo ricordiamo, oltre che per Zola – che lo ha sollevato – anche per Marcel Proust che, entusiasta della figura di Picquart, vi aveva incentrato il suo primo romanzo Jean Senteuil per poi attribuire ad alcuni personaggi della Recherche posizioni opposte sulla vicenda, definendone così i caratteri. Il cinema, poi, se ne è interessato sino dagli albori: nel 1899, all'indomani del processo di riabilitazione, George Mèliés dirigeva e interpretava il contestatissimo L'Affaire Dreyfus; anni dopo Josè Ferrer gira ed interpreta L'affare Dreyfus (1958) e nel 1981 Ken Russell gira per l'emittente HBO Prigionieri dell'onore con Oliver Reed e Richard Dreyfuss. Sono film onesti ma L'ufficiale e la spia è tutt'altro: è una splendida, potente e personalissima opera. Nei film del regista, a partire, da Il coltello nell'acqua, c'è spesso un "ebreo" – inteso come vittima, non necessariamente come appartenente alla religione israelitica – che, con toni diversi e alterne fortune, deve salvarsi dalla violenza del mondo: è così, ad esempio, in Cul de sac, in Per favore non mordermi sul collo, in Rosemary's Baby, in Chinatown, ne La nona porta, ne Il pianista e, naturalmente ne L'uomo nell'ombra, anch'esso tratto da un romanzo di Richard Harris (che nel caso de L'ufficiale la spia era stato spinto da Polanski stesso a scrivere su Dreyfus). Insieme al regista e ad un grande cast, con ottimi attori anche nei ruoli minori (tra i quali Barbareschi, anche coraggioso co-produttore), compongono un affascinante quadro la livida e pungente fotografia di Pawel Edelman (a fianco di Polanski da Il pianista) le scenografie, claustrofobiche quanto serve, di Philippe Cord'homme e i costumi "parlanti" di Pascaline Chavanne. Un grande film che rimarrà nella storia del cinema.

Antonio Ferraro

Ultima modifica il Lunedì, 25 Novembre 2019 07:50

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