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(CINEMA) - "ELVIS" di Baz Luhrmann.

"Elvis" di Baz Luhrmann "Elvis" di Baz Luhrmann

Elvis – quasi una recensione
di Baz Luhrmann.
Con Austin Butler, Tom Hanks, Helen Thomson, Richard Roxburgh

1997. Il Colonnello Tom Parker (Hanks), manager di Presley (Butler), in punto di morte, dà la propria versione del rapporto con Elvis Presley. Lui, di origine olandese, nasce professionalmente come imbonitore da circo; un giorno a Memphis vede la gente rapita dal blues That’s all right, mama, cantata in un disco della Sun Records da un ragazzo bianco. Lo trova e, dopo aver assistito ad un suo concerto dove fa impazzire le ragazzine con il suo (in seguito notissimo, da cui l’appellativo “Elvis the Pelvis") movimento della zona pelvica, decide di fargli da manager al 50% dei profitti. Lo porta via dalla Sun Records e riesce a farlo mettere sotto contratto dalla RCA e il suo singolo  Heartbreak Hotel diventa una hit mondiale. Ora Elvis è ricco e si compra la sempre desiderata Cadillac rosa e il mitico Graceland, il villone che condivide con i genitori - la madre Gladys (Thomson), fanatica religiosa e tendente al bere e il padre Vernon (Roxburgh) debole e spendaccione – e con una caterva di parenti. La censura non tarda ad arrivare sia per la “demoniaca” musica rock che per il modo “sconcio” in cui Presley si esibisce. Parker, spaventato, cerca di convincere il suo pupillo ad adeguarsi alle restrizioni ma lui va in un bordello nero dove ascolta un esordiente Little Richard (Elton Mason) cantare Tutti Frutti; lì si confida col suo amico B.B. King (Kelvin Harrison jr.) che lo esorta a cantare come si sente, anche perché, come bianco, non rischia certo il carcere, aggiungendogli di stare in guardia da Parker. Al concerto successivo Elvis canta come sa e muove disinvoltamente il bacino; l’esibizione viene fermata, tra i fischi dei fan e lui rischia un processo. Il Colonnello ha la soluzione: il servizio militare; così, con i capelli corti da bravo ragazzo americano, lui parte da soldato per la Germania. La madre, totalmente alcolizzata, muore per epatite e lui, superata l’angoscia, si innamora di Priscilla (Olivia DeJonge), che poco dopo sposerà, alla quale confida di sognare una carriera attoriale come quella del suo idolo James Dean. In effetti farà molti film di successo ma sono tutti una cornice per le sue canzoni e non ne sarà mai pienamente soddisfatto. L’arrivo dei Beatles e dei Rolling Stones appanna un po’ la sua carriera ma in uno special canta – nel ricordo di Martin Luther King e di Robert Kennedy - If I Can Dream e ritorna in vetta alle classifiche. A quel punto entra in frizione con Parker perché lui vorrebbe partire per un tour mondiale ma il Colonnello (apolide, con trascorsi discutibili e quindi sprovvisto di passaporto) glielo impedisce accampando scuse di sicurezza da possibili attentati; in più – pieno di debiti di gioco con i casinò di Las Vegas – firma, ad insaputa di Elvis, un contratto quinquennale di esibizioni sui loro palcoscenici. Il successo è grande e il cachet milionario. Presley, però torna alla carica sull’idea del giro del mondo e Parker aggira l’ostacolo con una serie di concerti in America e l’evento in mondovisione Aloha from Hawaii. Intanto il matrimonio con Priscilla – stanca di vederlo dipendere dal colonnello e da farmaci dopanti – si rompe. Elvis viene a conoscenza dei retroscena della vita del Colonnello e, alla fine di un concerto, lo licenzia platealmente. Parker, però ha l’asso nella manica: la confusa gestione di Vernon ha reso ha reso il figlio debitore nei suoi confronti di una cifra spropositata. Elvis continuerà a cantare a Las Vegas, sempre più inflaccidito da alcol, pillole e cibo fino alla morte il 16 agosto del 1977 a 42 anni. Il ludopatico Parker morirà 20 anni dopo, povero e solo.
Baz Luhrmann ha al suo attivo splendidi film: ha diretto, ad esempi, la migliore e più immaginifica (è la sua chiave) versione del Grande Gatsby ma il suo genio, sin dal titolo di esordio Ballroom, esplode con il musical (Romeo and Juliet, Moulin Rouge). A differenza di tutti quelli che lo hanno preceduto nel genere, lui non mette in fila coreografie e canzoni ma usa tutti i generi musicali con asincrona creatività per comporre un irripetibile caleidoscopio di armonie, sentimenti e danze. Stavolta, forse costretto dal personaggio Elvis e dalla necessità di usare quasi unicamente le sue – pur meravigliose – canzoni, stentiamo un po’ a riconoscere la sua personalissima mano. Certo, ogni tanto uno sviso di macchina, una carrellata a perdifiato ci ricordano chi dirige ma, probabilmente, la concentrazione sul “cattivo” Colonnello Parker appesantisce il racconto a spese della meravigliosa animalità di Presley (non sempre resa efficacemente dal poco più che corretto Austin Butler). Forse i momenti migliori e più liberi sono nei bordelli neri, regno incontrastato sin dal primo dixieland della musica afro-americana (piccola digressione: è tanto vero che i vari Count Basie, Duke Ellington e Nat King Cole debbono il loro “titolo nobiliare” non alla indubbia bravura ma a quanto hanno resistito nelle maratone di pianoforte dei casini; così come Jelly Roll (Rotolo di Gelatina) Norton era il soprannome che le prostitute gli avevano dato per la sua velocità ad eccitarsi). Per mettere in cattiva luce il Colonnello, tutta la filmografia di Elvis (della quale, è vero, lui non era pienamente soddisfatto) viene snobbata ma alcuni film hanno visto la regia di Don Siegel (Stella di fuoco), Michael Curtiz (La via del male) e, molti, dell’ottimo Norman Taurog (autore di alcuni dei migliori film di Jerry Lewis). A tutti i grandi capita di sbagliare un film ma, in questo caso, viene il sospetto che Elvis si inserisca in un discorso più ampio di nuove esigenze distributive e, di conseguenza, produttive. A ben vedere i sequel più recenti di campioni di incasso come Wonder Woman, Suicide Squad, Justice League e Thor sono tutti cinematograficamente appannati, come se fosse cambiato l’obiettivo di audience: al pubblico in sala dovevi dare un prodotto confezionato al meglio, mentre le piattaforme, con le loro molteplici possibilità di fruizione, hanno meno esigenze di cura costante del ritmo e della narrativa; oltretutto, si tratta comunque di operazioni costose ma di durata limitata rispetto alle serie che, se di successo, garantiscono costi diluiti e guadagni più sicuri. Se è così, stiamo assistendo ad una nuova, complessa ed ardua era per il cinema.

Antonio Ferraro

Ultima modifica il Mercoledì, 07 Settembre 2022 09:35

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