Tre Atti per le lucciole.
Programma, Atto I Lampyris Noctiluca, Atto II Back Eye Black, Atto III Corporale,
coreografia e regia Aristide Rontini
danza (in o. a.) Silvia Brazzale, Cristian Cucco, Orlando Izzo, Aristide Rontini,
con la partecipazione di persone della comunità bolognese
collaborazione produttiva Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale – Focus CARNE, Oriente Occidente
nel progetto Europe Beyond Access co-finanziato Creative Europe e Nexus Factory, nell’ambito di CARNE – focus di drammaturgia fisica
all’Arena del Sole, 14 dicembre 2024
E’ dalla tenebra che appare il corpo del danzatore, per lente digressioni di un contorno nella fragile pienezza via via più evidente di un torace nudo, poi di un volto; le gambe inguainate in un paio di pantaloni neri di latex. Il lento disserrarsi di un torso nell’intervallo trepido della metamorfosi. Sono torsioni d’aria che perturbano lo spazio attorno alla figura, ancorata alla base, coi piedi che si indirizzeranno via via solo a qualche apertura laterale – come un liberarsi di baco nella tenerezza di una stretta luce che sale. Con le braccia a prendere le distanze dal corpo; prima l’uno, mentre l’altro è avvinto al fianco, in un accenno di torsione retrograda che spinge in alto la colonna e condiziona il dinamismo posturale, per poi emergere, con la sua peculiare conformazione. Da questo momento in poi il lavoro delle braccia è un gioco di ali sorelle che disegnano linee spezzate, formazioni angolari, proposte e riprese che si compongono per angoli acuti in rapido succedersi. Sul fondo è appeso un piccolo fondale rettangolare, su cui i proiettori riverberano con effetto puntinista una concentrazione quasi solare di luce, che attrae l’occhio senza abbagliarlo. Il rapporto tra performer e fondale baluginante è quasi di misterica filiazione: come in presenza di un monolite bidimensionale che inverta il rapporto con il mistero, cui si addice l’oscurità, in uno slancio rivelativo verso la luce, che attiva e muove l’azione umana e animale insieme. E’ il primo atto di “Frammenti di infinito”, ne seguiranno altri due, piuttosto diversi, in un trittico dove, almeno nei primi due quadri, l’umano sembra cercare punti di contatto analogici con una varietà di gesti che riportano echi di fremiti d’entomo (lo spunto tematico è il famoso brano di Pasolini sulle lucciole). Questa sensazione di trovarsi di fronte a un mondo pre-umano, con qualcosa di chitinoso, dove il movimento si svolge per iterazioni rapide e segmentate di formazioni gestuali è amplificato nel secondo quadro, dove tre figure, due maschili e una femminile, capovolgono il rapporto di copertura tra abito e corpo, e mostrano gambe nude e torsi e teste fasciate da bluse nere e cappucci. Ed è rafforzata dalla colonna sonora: un continuum elettronico che crea un paesaggio di rilievi e pianure, di scorrimenti sorgivi e impulsi ritmici. Anche in questo quadro le linee di movimento sono spezzate ai gomiti, ai polsi; le mani in figurazioni di pungolo, di rostro. Figure sagomate in controluce da un fondale bianco che si fa intera tela luminosa, come un orizzonte occiduo al massimo del fulgore. Infine, il terzo quadro è una lenta invasione di scena da parte di altri performer (un gruppo di cittadini con cui Aristide Rontini ha lavorato in sessione seminariale) seduti tra il pubblico. La lentezza dei movimenti è la chiave che tiene sospesa la scrittura nello spazio. La rarefazione fa posto ai corpi, li dilata, li rende meno incatenati al tempo lineare. Tutti e tre i quadri sono in fondo un’esperienza del tempo prima che dello spazio. C’è una giovane donna in carrozzina, poi un uomo anziano con i capelli bianchissimi, un ragazzo africano molto alto e altre figure che con studiata lentezza prendono la scena e si passano pochi gesti essenziali tratti dalla coreografia che li ha preceduti. Stare nel gesto senza alcuna arroganza riempitiva, ma con quiete meditante: tutto questo è possibilità del teatro e della danza di farsi poesia concreta nel concerto di ogni parola corporale. In quest’ultimo quadro assistiamo a una danza che interroga il corpo di non danzatori nella sua integrazione primaria con lo spazio. Tutto il contrario dell’accezione mediatica corrente molto spesso accolta nelle numerose scuole di danza di provincia e non solo, in cui si ripetono esausti pattern saturi di condizionamento socio-mediatico o dove lo strascico ricattatorio della tradizione lega a volte ogni spunto di autonomia a un rispetto timorato e stuporoso. Franco Acquaviva