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TRA LE LINEE - coreografia Simona Bertozzi

"Tra le linee", coreografia Simona Bertozzi. Foto Luca Del Pia "Tra le linee", coreografia Simona Bertozzi. Foto Luca Del Pia

Progetto: Simona Bertozzi, Claudio Pasceri
Coreografia: Simona Bertozzi
Danzatori: Giulio Petrucci, Manolo Perazzi, Sara Sguotti, Oihana Vesga, Simona Bertozzi
NEXT, New Ensemble Xenia Turin: Adrian Pinzaru, violino. Eilis Cranitch, violino. Enrico Carraro, viola. Claudio Pasceri, violoncello.
Librettista: Leonardo De Santis
Luci e set spazio: Giuseppe Filipponio
Costumi: Katia Kuo
Coproduzione Torinodanza Festival / Teatro Stabile Di Torino - Teatro Nazionale - Nell’ambito del progetto “Corpo Links Cluster”, sostenuto dal programma di cooperazione Pc Interreg V A – Italia – Francia (Alcotra 2014-2020), EstOvest Festival, Nexus e MilanOLtre
Con il contributo di: Mibact, Regione Emilia Romagna, Compagnia di San Paolo Regione Piemonte, Comune di Bologna
In collaborazione con: Lavanderia a Vapore – Centro di Residenza Coreografica, Ateliersi Bologna
Visto al festival MilanOltre, Teatro Elfo Puccini, Milano, il 6 ottobre 2020

 www.Sipario.it, 18 ottobre 2020

Delle amebe percorse d’aria o bolle con il punto di vita interno, blastodisco, cellule fecondate, sparse sul palco irregolarmente; membrane di cellophane leggere che respirano, palpitano; aria che le tiene dilatate. Dentro, i danzatori. Sul fondo vedremo occupare via via le quattro sedie dai componenti il quartetto d’archi NEXT. L’avvio col violoncello – Riccardo Perugini, Ad Io per violoncello ed elettronica – a istradare il magma sonoro, il primo rivolo, cui seguiranno le colate di Wolfgang Rihm Zwischen den Zeilen per quartetto d’archi e la finale eruzione della Grosse Fuge op. 133 di Beethoven, è tutto all’insegna della lentezza, arcate lunghe di note, e le uova-membrana nelle quali i corpi cominciano a sobillare la loro lunga immobilità. L’elemento plastica scenicamente manipolato è motivo ricorrente nel lavoro di Simona Bertozzi, figura del rapporto imprescindibile che ne lega vita e (in)consumazione alla vita umana, con un materiale che tende a farsi seconda pelle (in questo lavoro) o strato protettivo o integrazione d’arti ai corpi in altri lavori. In “Prometeo architettura-Milano” copriva le giovanissime danzatrici come un telo grande trasparente. In “Joie de Vivre” erano elementi dei cantieri edili, tubi, coni che s’inserivano quasi nei corpi dei danzatori e li integravano: qui siamo alla pellicola, in un contatto epidermico più stretto con il materiale. Infatti i danzatori pianissimo cominciano a rotolare e aderire alla sottile pelle-diaframma (“La pelle è sempre in prima linea/ è un confuso conoscitore di mondi/ trasale e fa barriera/ è distendibile e delicatamente resistente/ sanguina e respira/”, si potrebbe dire con le parole folgoranti di Chandra Livia Candiani) finché non li vediamo fuoriuscire. Sono arrivati intanto gli altri tre musicisti, entrano alla spicciolata, la musica si gonfia, assume il confronto con i suoni elettronici (Ad Io)
Per poi abbandonarsi, passando per Rihm, alla lunga palpitazione della fuga beethoveniana. Ogni danzatore esegue una diversa partitura, e ripete sequenze in solitaria salvo poi trovare agganci a due, a tre, a cinque. Un lungo assolo centrale della Bertozzi sigla un momento di netta alterità rispetto al lavoro degli altri quattro: i movimenti sembrano rigettare la posizione eretta, una posturalità impostata, vanno per linee traverse, spezzate, sbieche; soffi, tonfi, sbuffi dell’espirazione dichiaratamente vocalizzata; il corpo sembra essere attratto dalla gravità cui si vuol tuttavia svincolare per angolazioni distorte, spinose, accenna a figure di rotondità sghembe che si spezzano in angoli stridenti. La coreografa parla di “destabilizzazione delle posture, di una ordinata verticalità, come statue rotolanti, incrinate, rovesciate, imbrattate”. E in effetti la sensazione è quella di corpi in cui la posizione eretta non si stabilizza se non come pausa – quando dei danzatori vediamo lo sciolto disporsi ai lati del palco, in attesa, in momenti di resa al lavoro altrui – nel rincorrersi delle linee di fuga che corrono parallele alla musica e vede spesso rotolamenti lungo diverse direttrici, che trovano puntuale riscontro visivo negli spunti iconografici che hanno nutrito il lavoro.
La ricorrenza della sequenza più giocosa del tema beethoveniano è occasione per unisoni tra i danzatori dove si riproduce una festosità di posture e figure più morbide, con elevazioni, aperture, saltelli, percorse da un divertimento leggero, quasi ironico, che indica la riconoscibilità del tema prima del ritorno alle dissonanze della fuga.
In generale, è come se si sia intravista una possibilità conoscitiva nell’esperienza dello stridore, come se dar voce a quell’esperienza sia un modo per spezzare il guscio vuoto di un’integrità (psicologica, culturale, estetica) che si sente insufficiente a comprendere una più ampia aspirazione; e dunque recupero integrato dei materiali gestuali e delle figure del conflitto, della dissonanza, della spezzatura, che si nutrono anche di materiali mutuati da immagini di lotta, di manifestazioni per i diritti civili di varie parti del mondo.
Infatti nel flusso che forma, e sforma, la vibrante e martellante decostruzione della linea eretta ci sono momenti nei quali poi tutti i danzatori consistono nella ripetizione di alcune figure chiave, sigilli del movimento, atti a bloccare il flusso in un’immagine che fissa il tentativo del gesto di farsi significato sintetico, un precipitato di messaggio che rimanda a contesti in cui il gesto diventa comunicazione limite e si rapprende in una densità che è un far parola sul confine dell’impossibilità di far parola. Segnale che il corpo parlante lancia sul limite tra espressione e repressione fra urgenza e violenza. Ecco allora il rimando a una volontà di rivendicazione di spazi di libertà (laddove questa è davvero quotidianamente minacciata, e dove il bavaglio alla sua espressione non è certo una mascherina chirurgica) che diventano icona politica. Così vediamo la cifra dei manifestatnti di Hong Kong con le braccia incrociate sopra la testa (allusione alla protesta degli ombrelli) o il pugno chiuso o l’inginocchiarsi degli studenti di Parigi con le mani intrecciate sul capo.
Molto marcato è il senso di un rituale collettivo, di gruppo, dove il vocabolario assimilato da ciascun danzatore si articola in discorso coreografico in stretto rapporto con una sorta di repertorio comune. Specie sul finale, dove tutti gli apporti tendono a convergere in una figura di cerchio e in cui anche i volti si rilassano e alla concentrazione dello sforzo subentra il lampo di un sorriso, il trascorrere di una distensione.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Martedì, 20 Ottobre 2020 19:44

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